IL PRESENTE SITO CONTIENE L'ARCHIVIO DEI POST DI "IMPERFETTA ELLISSE" DAL 2005 AL 2018. TUTTI I POST DI DETTO PERIODO SONO RINTRACCIABILI TRAMITE IL MOTORE DI "RICERCA VELOCE" (v. link a lato) O IL LINK ALL' ARCHIVIO GENERALE. NON VERRA' AGGIORNATO NE' OSPITERA' COMMENTI DEI LETTORI E PERTANTO, NON RACCOGLIENDO DATI DI NESSUN GENERE, NON E' SOGGETTO ALLA COSIDDETTA NORMATIVA GDPR. I POST DELL'ANNO 2019 E LE SUCCESSIVE PUBBLICAZIONI SONO E SARANNO OSPITATI NEL NUOVO SITO (HTTPS://IMPERFETTAELLISSE.IT). BUONA LETTURA.
…VIAGGIO, RACCONTO, MEMORIA, attraverso le fotografie di Ferdinando
Scianna
All’inizio di questo viaggio per immagini nella retrospettiva “Viaggio,
Racconto, Memoria” ai Musei san Domenico di Forlì è la
miriade di scatti e storie, racconti e memorie legati all’universo
fotografico di Ferdinando Scianna: la quintessenza del suo stile, il suo essere attraverso la fotografia a stretto contatto con il mondo,
in presa diretta con la vita e parte in causa della storia che in maniera
estemporanea documenta nel lavoro di reportage. La selezione di immagini
dedicate a Bagheria nella prima sala rende testimonianza alla sua terra
natale, la Sicilia, luogo d’appartenenza e di radici, di fughe obbligate
nel corso degli anni ed ossessivi ritorni, di salti in avanti nel tempo al
presente e riecheggiamenti di un mondo arcaico e vagheggiato simile a
scintille di memoria dall'infanzia o dalla prima giovinezza ritrovate in
fulminei istanti di fuga dal presente.
“
Bagheria, l’odiato-amato paese in cui sono nato, dove ho passato la mia
infanzia, in provincia di Palermo, dove ho vissuto fin ai 23 anni,
dolce e terribile luogo dell’anima dove ho scattato ben più fotografie
di quanto non sospettassi. Ho continuato a fotografare a Bagheria nel
corso degli anni, negli innumerevoli, desiderati ora temuti, felici ora
dolorosi, qualche volta inevitabili ritorni”.
La questione ossessiva quanto inevitabile per Scianna sull’essere siciliano
si lega alla ragione prima, all’essenza stessa del fotografare che per lui
è indiscutibilmente un modo, forse il solo di approcciarsi alla realtà, di
esserci e guardare il mondo nel tentativo di comprendere, fosse solo
qualche istante decisivo, e di raccontarlo attraverso il mezzo fotografico.
Cosa significa essere nati in quel luogo, isolato e isolano, impregnato di
anacronismi e tradizioni, riempito di rituali e affondato in un immobilismo
fuori dal tempo, letargico e fatale, poi andare via, allontanarsene per
gettarsi nel maelstrom del vivente da Milano a Parigi collaborando con
un’agenzia internazionale e prestigiosa come Magnum o nei vari reportage in
giro per il mondo, eppure continuare a guardare, a esplorare la realtà con
occhi da siciliano.
“
Quando partiamo la nostalgia comincia a tormentarci, il lavoro di
trasfigurazione della memoria in un ritorno tanto sognato quanto reso
impossibile. Dalla Sicilia si scappa ma non si lascia mai l’ossessione
delle origini.”.
Origini, radici, la terra di Sicilia
Le fotografie della prima sala scattate negli anni ’60 dalle inquadrature
altamente cinematografiche ricreano ambientazioni, atmosfere, stati
emozionali dell’intrinseca identità dell’isola evocando in scorci
suggestivi immagini giunte dagli anni dell’infanzia o della prima
giovinezza in Sicilia. In “maestro d’acqua”: un uomo di età avanzata appare
seduto tra gli arroccamenti a ridosso del mare sulle coste palermitane
intento a sorvegliare un gregge. Solitario, asettico, inerte all’ azione,
il suo sguardo appare gettato lontano oltre gli altopiani, pensatore
estraniato dal presente. Palermo velata da una tenda è inquadrata in
un’altra fotografia. Dietro quella il profilo di una donna si intravvede
tenendo per mano il figlioletto in primo piano: tendaggi, schermi o reti
mediano lo sguardo e separano, oscurano, pongono dei filtri visivi alla
memoria rendendo quel mondo lontano e fittizio, più distante e remoto. Un
gruppo di uomini in un bar avvolti da una coltre densa e grigiastra di fumo
aspirano lentamente dai loro sigari mentre si soffermano indolenti e
solitari a giocare a carte e a scommettere sul nulla del proprio presente.
Bagheria sono le case arroccate sugli scogli in prossimità del mare,
scavate dentro la pietra in un piccolo borgo solitario e resistente, lì da
secoli esposto alle intemperie e alle tempeste, alla durezza della vita dei
pescatori, costruite l’una a ridosso dell’altra a strapiombo sulla
costiera. È lo sguardo di una donna anziana lucido e acuto in primissimo
piano dagli occhi tempestati di nera ematite rilucente di ghiaccio. Sono i
volti di donne avvolti da veli neri nel sole accecante del mezzogiorno a
ridosso delle case del villaggio. Sono orizzonti, “dalla terrazza della
casa dei miei nonni si vedevano agrumeti fino al mare, dalla cappella di S.
Giusipuzzu la Villa Rosa si stagliava libera contro il monte Pellegrino”.
Diaforia si cimenta ancora, dopo Agnetti, Toti e diversi altri, in una operazione di archeologia culturale. Detta così sembra una cosa abbastanza polverosa, ma si tratta di un appassionato recupero, anche esteticamente rilevante, di elementi preziosi, dispersi per qualche ragione (editoriale, temporale, torrentizia, carsica), ma che portano in sé, come ogni reperto che si rispetti, non una Storia museale ma un'immagine e una evocazione, un suggerimento e una suggestione. Ovvero - in ultima analisi - qualcosa che rizomatizzi (sì, proprio in quel senso lì) in chi, magari, non ha scritto ma deve ancora scrivere. Perciò non leggetelo, se temete che stimoli in voi qualcosa di brillantemente imprevisto. Questa volta si tratta di Luigi Ballerini e del suo "eccetera. E", opera prima del nostro (e su questo suo essere "prima" ci sarebbe già da parlare, in relazione al suo "dopo"), risalente come pubblicazione al 1972, come ricorda Giulia Niccolai in una nota finale al libro (ce n'è un'altra, ugualmente interessante, scritta da Remo Bodei, mentre il bel saggio introduttivo è di Cecilia Bello Minciacchi).
«Può agire come un rimedio, eccetera. E, può funzionare come un antidoto - ANTIPAURA è il suo testo d'ingresso — ai veleni della convenzione linguistica, degli abusi e delle catacresi e, al tempo stesso, può agire come antidoto al pharmakon che la neoavanguardia aveva proposto per quegli stessi veleni, un preparato salvifico e tossico insieme, secondo la duplicità di senso del termine greco originario: "medicina" e "pozione letale". Questo radicale testo di Ballerini prende le distanze dai "linguaggi novissimi" che pure ha assorbito e cui si riferisce: il lettore che alle Poesie per gli anni '60 si era un po' assuefatto, in eccetera.E non ha potuto ritrovare, in tutta pace, paesaggi lunari, scolii e simboli junghiani del laborintico esordio sanguinetiano. Non vi ha ritrovato neppure, allo stesso modo dominanti, il ritmo variabile e percussivo e la narratività del poemetto di Pagliarani, né la Milano della dattilografa diciassettenne, con le rotaie che si torcono come bisce, le «polveri idriz elettriche» e il cielo di lamiera. E neppure l'inesorabilità combinatoria che raffreddava (mai troppo, per fortuna) i montaggi di Balestrini, né la crudele ritualità di Porta, l'ossessività letterale con cui sigillava gesti in catene versali impietose. Vi ha forse potuto percepire la sorveglianza di un'acuta intelligenza critica analoga a quella che sosteneva l'esattissima poesia di Giuliani. Ma la novissima aria di famiglia che sembra aleggiarvi è oramai uno strumento (e quanto affilato), un'autointerrogazione e uno stratagemma. (...) È un libro, eccetera. E, che ama visceralmente la letteratura e al tempo stesso, nondimeno, è capace di prenderne salutari distanze. Di letteratura è nutrito, sostanziato, diremmo, nella gran parte delle sue minime costituenti, anche nelle sue sillabe, ma alla letteratura sa guardare con disincanto. Ciò provoca, nel lettore, un'attrazione profonda, e contemporaneamente un sospetto, un appressamento e una repulsione. Impossibile abbandonarsi, crogiolarsi a contemplare il castone - «(com'adamas)», appunto - perché quella gemma non basta: unica com'è, innesca un desiderio e quel desiderio finisce per avvilire. Raramente Ballerini cede alla ripetizione spandendo in versi poco distanti tra loro cellule testuali della medesima provenienza. (...) Il suo meccanismo è radicale, e della lingua (e della poesia) conferma, anzi esalta la valenza di corpo, di fisicità manipolabile, scomponibile. Tra le sezioni più interessanti e più dense del libro, peraltro, sono indubbiamente quelle focalizzate sul corpo (e corpo-linguaggio) - presentissimo in tutta l'opera, si pensi all'ampiezza dello spettro lessicale anatomico e medico - che con la sua parcellizzazione crea un'orditura fitta, a tratti ossessiva. Nevralgica quanto il rapporto con la tradizione e con le avanguardie. Con eccetera. E Ballerini intraprende una ricerca poetica diversa dai testi precedenti - si vedano le poesie in Opera aperta (1966) -, compie uno scarto. Il senso e l'importanza del libro risiedono proprio nello scarto inteso in duplice significato, quello del "residuo" della "spazzatura", appunto, degli avanzi - e quello della "deviazione", dello "spostamento brusco e repentino". » (dall'introduzione di Cecilia Bello Minciacchi)
L'opera di Lucio Saffaro (triestino, vivente a Bologna, laureato in fisica
pura) si svolge parallelamente, e con stretti rapporti di interrelazione,
nell'area delle arti figurative (ricordiamo le metafìsiche geometrie delle
tavole del Tractatus Logicus Prospecticus, quelle per il Polifilo del Colonna, le recenti mostre, del 77, a Bologna e a
Milano), ed in quella delle arti del linguaggio, collocandosi in una
singolare posizione nel panorama culturale contemporaneo: una posizione,
cioè, insieme eccentrica e centrale, dal momento che il suo lavoro, mentre
appare isolato e distaccato rispetto alle sperimentazioni ed alle prove
delle più recenti avanguardie, risulta tuttavia motivato e strutturato
dalle tensioni intellettuali che più profondamente percorrono e sommuovono,
specie sul versante scientifico, la cultura novecentesca.
La singolarità della scrittura di Saffaro è anzitutto riconoscibile nel suo
porsi all'intersezione del modello-progetto scientifico con il
modello-progetto letterario: luogo critico per eccellenza, dal momento che
lì si scontrano e si confrontano due sistemi di funzioni diverse (opposte?)
all'interno delle strutture concettuali e operative del linguaggio, del
simbolo e della forma.
È noto che nel modello-progetto scientifico: 1) il linguaggio tende a
ridurre al massimo l'ambiguità e la polisemia per consentire un rapporto
univoco del significante con il significato, esaltando la funzione
referenziale; 2) il simbolo, di tipo logico-matematico, è un segnale
altamente convenzionale che garantisce il massimo di concentrazione e di
formalità; 3) la forma è una metastruttura che consente l'analisi razionale
e logica nella operazione cognitiva. Nel modello-progetto letterario
(poetico) invece: 1) il linguaggio è il luogo di produzione di sensi
multipli, l'equilibrio del segno si sposta dalla parte del significante in
una moltiplicazione e complessa articolazione di «significanti
supplementari» (Agosti), esaltandosi quella «funzione poetica» (definita da
Jakobson) che trattiene il messaggio su se stesso, essenzialmente
autoreferenziale, nello spazio di « assenza » del referente esterno; 2) il
simbolo (pur nelle diverse accezioni che determinano la sua storia) è
fondamentalmente « motivato », si fonda su una « eccedenza » volta a volta
del significato o del significante, si statuisce per lo più come
sovradeterminato; 3) la forma infine è l'insieme delle relazioni e dei
livelli che costituiscono la struttura dell'oggetto.
Nella diversità (e/o opposizione) dei due modelli, la cultura
contemporanea, specie nell'ambito delle scienze del linguaggio, sta
elaborando possibilità sempre più articolate di convergenza, e ciò nella
direzione precipua offerta dal metalinguaggio. I princìpi, cioè, del
metalinguaggio logico-matematico, altamente formalizzato, vengono applicati
alle strutture del linguaggio in genere ed a quelle testuali
(Ietterario-poetiche) in particolare (si pensi alla linguistica formale o
alla teoria logico-semantica di Tarski o Petöfi), tentando proprio di
formalizzare ciò che nel linguaggio poetico si presenta come non-formale
(allo stesso modo come la tradizione esegetica aveva da sempre tentato di
controllare ed arginare, attraverso l'interpretazione, la irriducibile
sovra-produzione di senso « non-razionalizzabile » [ancora Agosti], propria
del testo poetico). Ma questo progetto, che si affida al metalinguaggio,
trova anche in esso il suo punto critico: « non esiste metalinguaggio »
afferma Lacan e la psicanalisi post-freudiana, in stretto contatto con le
poetiche novecentesche: non si esce dal linguaggio, e i poeti l'hanno
sempre saputo.
Ponendosi, dunque, come dicevamo, nel luogo di intersezione di quei
modelli-progetti, Saffaro viene ad operare non sopra, ma dentro al linguaggio poetico, riconduce il metalinguaggio
all'interno del linguaggio e precisamente come linguaggio che si
autoriflette, linguaggio che si pensa, si figura, si rispecchia,
duplicazione e moltiplicazione del linguaggio in se stesso (nella figura
della mise en abime): infine come autologia.
Il testo saffariano che qui viene presentato, Est Elladico, risale
agli anni '67-'68, in stretto contatto con altri testi: Trattato del modulo (Firenze 1967), Diario autologico
(Bologna 1968) e Teoria dell'Est (Roma 1969), nei quali appunto si
precisa, si mette in opera e si teorizza il principio dell' autologia. Nelle « Osservazioni sulla Teoria dell'Est»
(in «Idee», aprile 1970) Saffaro scriveva: « L'autologia potrebbe sembrare
una limitazione del pensiero, come quella circolarità della meditazione che
medita la propria meditabilità; ma se per circostanze autologiche si
intendono quei fenomeni che [...] attengono a se stessi, apparirà in tutta
la sua evidenza l'intensità esistenziale che si concentra nell'evento
autologico ». Nella Teoria dell'Est (libro costruito secondo un
rigoroso canone matematico, componendo una « cartesiana architettura ») il
linguaggio « figura » se stesso attraverso il vertiginoso gioco numerico,
acrostico, anagrammatico, eidologico, si autodescrive nella propria
operatività e potenzialità, e, descrivendo il proprio funzionamento, anche
raddoppia sia la distinzione che il nodo inestricabile delle proprie
funzioni. Ed è proprio l'operazione del « raddoppio » (divisione,
scissione) che si costituisce in Saffaro come preliminare e radicale: quel
« raddoppio » scindente che fonda, insieme, tanto il segno quanto
l'immagine, per cui l'autologia diviene il segno-immagine di se stesso,
compatto ed inscalfibile enigma che nessun Edipo verrà a « ridurre »,
decifrandolo, e che indica e marca in se stesso la differenza, la barra,
che divide e unisce, alla radice di ogni procedimento del Logos.
(Ricordiamo quanto, nel suo ripensamento di Derrida, scrive Agamben: « Ogni
interpretazione del significare come rapporto di manifestazione o di
espressione [o, all'inverso, di cifra e occultamento] si pone
necessariamente sotto il segno di Edipo, mentre si pone invece sotto il
segno della Sfinge ogni teoria del simbolo che, rifiutando questo modello,
porti innanzi tutto la sua attenzione sulla barriera fra significante e
significato che costituisce il problema originale di ogni significazione »:
cfr. G. Agamben, Stanze, Torino 1977, p. 165.) Saffaro ha
recentemente pubblicato un testo che risale al '50: Il principio di sostituzione (Pollenza, Macerata 1977), assai
rilevante per la direzione del suo futuro lavoro, dove la « sostituzione »
è quella, globale, dell'esistente con l'ente, del concreto con l'astratto,
della « cosa » con il simbolo: il fondamento stesso sia del linguaggio che
della operazione razionale della logica e della matematica, la grande
operazione del Logos occidentale che ha sostenuto tanto la costituzione del
soggetto come unità e fondamento del Cogito, quanto la sua destituzione
nella scissione (béance) che lo traversa e lo sbarra, mettendo in
moto lo slittamento del senso lungo la catena dei significanti (a partire
dalla « mancanza » originaria) e costituendo insieme la struttura del
desiderio. In quelle pagine leggiamo: « Divido le cose da loro stesse e
così raddoppio con un solo atto del pensiero tutto l'universo; speculando
poi su questa separazione dell'oggetto da se stesso, trovo che posso
formare nell'intervallo privo di misura infinite estensioni immaginarie e
una sola reale che è la coincidenza; similmente all'infinità prodigiosa dei
logaritmi del numero ». Se la « divisione-raddoppio » iscrive l'operazione
del « simbolico » (e il « reale », che in Lacan si definisce come il
non-simbolizzabile, è l'impossibile coincidenza), lo spazio
dell'immaginario è lo spazio stesso della « separazione », dell’« entre-deux », della barra o piega. Il « modello disgiuntivo » si
iscriverà costantemente nella scrittura di Saffaro, sia a livello tematico,
sia a quello dei dispositivi testuali. Così si veda, in questo Est Elladico, per il primo livello: « Lo scambio era
allora soltanto un trionfo del modulo [...] »; « queste contrapposizioni astratte, erano piuttosto il modello disgiuntivo di figurate preferenze »; « la duplicità dell'esistenza »; « vuota divisibilità »; « Se
gli affetti si disgiungono [...] », fino alla pronuncia di quella
« angoscia distintiva » che si sottende a tutta la scrittura. A
livello testuale la duplicazione prende qui la forma della coppia IO/TU,
sia nella sua contrapposizione (« Tu conosci le grandi ruote del mondo
[...] io ti porto il significato delle azioni », ecc.) sia nella sua
combinazione in un NOI che non neutralizza l'interna scissione. La
scissione, anzi, non si apre solo fra la prima e la seconda persona, ma
nell'interno stesso del soggetto (nello spazio della «elongazione»: «spenta
alterità da me»), come pure all'interno delle percezioni, della memoria,
del pensiero, all'interno dello spazio e del tempo. Allora la « distinzione
» che si moltiplica, sottraendosi alla riduzione all'unità, sembra offrirsi
solo ad una protratta, astratta « numerazione », « catalogo », « raccolta »
(« Sull'elenco di tutte le azioni scegliemmo la duecentocinquantacinquesima
[...] poi ci accorgemmo di averla già tralasciata. L'intelligenza degli
atti trascendeva ogni possibile elenco »; « Alla ricerca del libro dei
libri componevamo il segreto catalogo dei concetti: così il dizionario
astratto cresceva come un'algebra universale », ed è facile, qui, il
richiamo a Borges, del resto proposto da vari critici; ed ancora: «
radunammo le immagini del mare »; « Così il continuo simulacro da te
aggiunto alla vuota divisibilità, riprende la numerazione della statua
sostanziale »). In realtà l'elenco, la numerazione delle scissioni e delle
differenze, l'astrazione stessa su di esse operata sotto « la trionfale
tenda algebrica », non vale né a ridurle né ad eluderle: ogni operazione
formalizzante si scontra con qualcosa di irriducibile all'unità,
all'identità e alla presenza: precisamente con l'immagine-simulacro (« Mi avevi chiesto l'immunere Trattato, la
nozione assoluta, lo scritto invariabile; io non sapevo darti che
l'immagine necessaria »): quell'immagine-simulacro (oggetto, paesaggio,
evento, persona, statua, architettura) che non partecipa né del reale né
del simbolico, resto in consumato dell'astrazione del pensiero, di là dalla
distinzione vero/falso, indecidibile, la cui connotazione è l'angoscia («
Lontano dall'esistenza [...] distinguo chiaramente preannunci di angoscia
[...] si inviluppa entro se stessa la luce fluendo senza forma verso
manifestazioni virtuali di immagini poste oltre il concetto di
luce-tenebra, luogo senza limiti né orientamento », Principio di sostituzione). L'opera di Saffaro appartiene a questo
spazio di violenza e di angoscia del simulacro. Ricordiamo quanto di esso
affermava Deleuze: « Il simulacro è quel sistema ove il differente si
rapporta al differente attraverso la differenza stessa» ( Différence et répétition, Paris 1968, p. 355); e quanto scrive
recentemente J. Baudrillard in « Précession des simulacres »: « non si
tratta di irreale, ma di simulacro, vale a dire di un'immagine che non si
scambia più con del reale, ma si scambia solo con se stessa, in un circuito
ininterrotto in cui né la referenza né la circonferenza sono in alcun luogo
» (in « Traverses », 10 febbraio 1978). Il simulacro è esso stesso
autologico, autospeculare, ripiegato sulla propria « differenza »,
convoluto su se stesso nella torsione dell'anello di Moebius (ed è
significativo che questa figura della moderna topologia, che emerge
frequentemente nella scrittura di Saffaro, sia stata utilizzata da Lacan
per la formalizzazione della struttura del soggetto, e compaia anche nello
scritto di Baudrillard sul simulacro). Una torsione che, superando la
contrapposizione dell'ossimoro, rende, in Saffaro, reversibile e
indecidibile qualsiasi coppia antitetica, sia concettuale (vero/falso,
tempo/eternità, sensibile/intelligibile) sia operativa l'opposizione delle
aree lessicali, ad esempio: scientifica/letteraria (iper-letteraria, anzi,
nel recupero di una tradizione aulica che va dalla « tragedia » dantesca e
cavalcantiana, attraverso il rinascimento, il neo-classicismo e il
decadentismo — l'attacco di Est Elladico ha addirittura
inflessioni dannunziane - fino al surrealismo metafisico), oppure
l'opposizione dei modelli di enunciati (logico-scientifici dimostrativi e
asseverativi gli uni, prevalentemente illocutori gli altri, addirittura di
tipo mistico-profetico, alternati con strutture periodali di tipo
narrativo), fino alla opposizione-duplicazione stessa di
linguaggio/metalinguaggio.
Lo spazio della duplicazione e del simulacro (della « scrittura » in senso
« derridiano ») è centrale e genetico nella cultura novecentesca, ma
percorre sotterraneamente tutta la tradizione occidentale, affiorando
singolarmente in area tardo-rinascimentale e meno marcatamente in ambito
tardo-romantico. Le citate parole di Baudrillard a proposito del simulacro
contengono, leggermente alterata, l'antica definizione dell'ente divino
attribuita ad Ermete Trismegisto: « un cerchio il cui centro è ovunque e la
circonferenza in nessun luogo ». Effettivamente il richiamo più persuasivo
che si possa proporre per l'operazione di Saffaro è quello alla grande
tradizione ermetica, particolarmente nelle sue emergenze rinascimentali
(Ficino, Pico, Delminio, Bruno), nelle sue connessioni con la Cabala, il
pitagorismo, l'alchimia, le teorie della figurazione simbolica (si pensi
alla « summa » di questa cultura riscontrabile nel Settenario del
Farra e nella sua « filosofìa simbolica »), tradizione che Saffaro combina
alle ricerche ed ai risultati più recenti della matematica, della
geometria, della fìsica moderne (si veda in questo senso il suo scritto di
fisica: Dai cinque poliedri platonici all'infinito), e che investe
anche tutto l'insieme di quei « giochi linguistici » che si connettono
direttamente alle sperimentazioni rinascimentali e medievali. A questa
tradizione, appunto (le ruote, gli alberi lulliani, le artes memoriae di Delminio e di Bruno, le « statue » bruniane del Lampas triginta statuarum, il recupero simbolico delle immagini
degli dei degli antichi del Ripa o del Cartari, i geroglifici, gli emblemi
e le imprese, il classicismo esoterico di Pirro Ligorio, i calcoli e i
giochi prospettici), appartiene gran parte della imagerie e dei décors saffariani (erme, architetture, idoli, statue, paesaggi
costruiti come i giardini simbolici del Rinascimento), sì che leggendo
certe pagine sembra inoltrarsi tra i simulacri di pietra del « bosco sacro
» di Bomarzo. Ma nella stessa tradizione si inseriscono anche i
procedimenti di scrittura (giochi verbali e numerici, pitagorismo e Cabala)
e soprattutto la costante componente di « ritualità » che caratterizza sia
le operazioni descritte nei testi saffariani, che la operazione stessa
della scrittura del testo. Riti di iniziazione o di purificazione, di
augurio o profezia, di contemplazione, di « attesa », gesti e percorsi
rituali (evidentissimi in questo Est Elladico, ma anche nello
pseudo-romanzo che è Fars, tracciato proprio su un percorso
rituale): questa lenta, densa, assorta e lucida ritualità simbolica
costituisce la sostanza stessa degli atti, delle azioni, che non conoscono
altro margine di esistenza se non quello appunto del rito o della
trasformazione nelle « operazioni » logiche ed autologiche della
riflessione. La trama pseudo-diaristica di queste 24 epistole, come quella
del Diario autologico, costituisce in realtà lo spazio di una
radicale « dislocazione » (« Dislochiamo arditamente questi giorni nelle
araldiche di metafisiche incompiute », leggiamo nel Diario):
dislocazione nello spazio del simulacro e dell'autologia. Questo è il rito
che si celebra anche, punto per punto, in Est Elladico, dove lo
spessore del simulacro (« la densa ramificazione dell'identità ») resiste
alla « logica assoluta » e continua a promuovere, nella sua corsa
metonimica, il desiderio. Il titolo stesso è costruito come un geroglifico
complesso, un emblema verbale. Lo statuto « logico », « allegorico » ed «
estetico » dell'EST verrà dichiarato proprio nella Teoria dell'Est
: « L'oggetto fondamentale è l'epistasi della realtà, il suo coronamento
immaginario assoluto ed infinito; costituito di Esistenza, Spazio e Tempo;
e l'EST ne è il simbolo proprio », che si raddoppia a sua volta in
Estetica, Sapienza, Teoria. Le tre lettere che lo compongono rimandano
inoltre a TRIESTE, non soltanto luogo di nascita dell'autore, ma luogo
reale al quale si riferiscono queste 24 epistole (numero rituale, come poi
le XXIV Tesi della Diateca, testo esemplare per la struttura del
simulacro: della lenta, impercettibile torsione dell'identico nel diverso).
Come punto cardinale indica l'oriente: insieme origine e termine della «
occidentale meditazione » (« La ricerca dell'occidente non aveva fine [...]
l'orlo ammetteva circolari soluzioni »), delle « vicende occidue » che «
nascondono le nascoste proprietà dell'immaginazione », di contro alla «
luce orientale » delle « assorte geometrie del pensiero »; mentre il
riferimento all'Eliade indica il luogo e il tempo della nascita stessa del
Logos, « dei fasti primitivi dell'idea ». Ma il sintagma Est Elladico è
anche uguale e diverso (simulacro) dall'altro, diversamente ripartito:
Estella Dico, che in esso si iscrive letteralmente e semanticamente, dal
momento che Estella è il nome del TU presente nel testo, insieme
destinataria delle lettere-epistole e « oggetto » del « dire » da parte del
soggetto dell'enunciazione, personaggio femminile che diviene così,
mediante la radicale « dislocazione », da persona biografica (ma pur
rimanendo tale, nella sua iscritta nominazione) «oggetto assoluto»: quel
«coronamento immaginario della realtà » di cui l'Est è il simbolo proprio.
La scissione stessa si sposta nel corpo verbale, duplicandosi, vi
moltiplica i « bivii » del senso, si avvolge su se stessa nella propria
auto-affermazione: « dire Estella » è allora « dialogare », accedere alla «
divisione » del dialogo: « Ma se dividi, lasciami questa definizione che ci
trattiene in erti dialoghi indeclinabili ».(adelia noferi)
Il nome di Adelia Noferi (Firenze 1922-2014) è forse sconosciuto specie ai più giovani, ma stiamo parlando di una fra i critici più eminenti del Novecento italiano, docente presso l'università di Firenze, studiosa in grado di esaminare una varietà impressionante di autori e periodi letterari, come Petrarca, affrontato in più di un libro, Dante, il Seicento, il Romanticismo, Foscolo, Leopardi, nonché autori contemporanei come Montale, Luzi, Ungaretti, Bigongiari, a cui aveva dedicato l'ultimo libro e di cui era amica, e che di lei aveva scritto definendola "uno dei maggiori ingegni critici di oggi". Dotata di uno stile personalissimo, che è possibile apprezzare anche in questo piccolo saggio, aveva affinato nel tempo i suoi strumenti critici partendo da insegnamenti di maestri diretti o indiretti come Contini, che aveva apprezzato il suo primo lavoro dedicato a D'Annunzio, De Robertis, lo stesso Bigongiari, ma costruendo poi un approccio scientifico al testo che teneva conto sia dei "mezzi" più classici, sia di quanto di più interessante e fecondo per lo studio critico proveniva dalla semiologia, dalla linguistica, dalla filosofia, soprattutto di scuola francese, senza dimenticare le suggestioni di tipo psicoanalitico. Per cui non è infrequente trovare nei suoi scritti riferimenti a Jakobson, Lacan, Barthes, Kristeva, Blanchot, Derrida, Deleuze, Baudrillard, ma anche Agamben o Gadamer. Alcune delle sue opere principali sono L’esperienza poetica del Petrarca (1962), Riletture dantesche (1988), Soggetto e oggetto nel testo poetico (1997), Frammenti per i fragmenta di Petrarca (2001), Piero Bigongiari. L’interrogazione infinita. Una lettura di «Dove finiscono le tracce» (2003)
Lucio Saffaro
è nato a Trieste nel 1929, si è laureato in fisica pura all' Università
di Bologna, città nella quale ha vissuto dal 1945 e dove è morto nel
1998. E
stato pittore, scrittore e matematico. Dagli anni Sessanta si è
affermato come una delle figure più originali e inconsuete della cultura
italiana, ricevendo ampi riconoscimenti in ciascuno dei campi in cui ha
operato. Le sue ricerche sulla determinazione di nuovi poliedri sono
state oggetto di numerosi saggi e conferenze, tenute da Saffaro in
Italia e all'estero. Queste ricerche a loro volta sono state commentate
da autorevoli studiosi e più volte apparse negli annuari della
Enciclopedia della Scienza e della Tecnica di Mondadori, oltre che in
riviste scientifiche. Ha pubblicato oltre cinquanta opere letterarie,
recensite e presentate da critici prestigiosi, per Lerici, Scheiwiller,
La Nuova Foglio, l'Almanacco dello Specchio di Mondadori e le Edizioni
di Paradoxos da lui stesso ideate. Nel 1986 ha pubblicato a Parigi Teoria dell'inseguimento,
con un saggio introduttivo di Paul Ricoeur. Maggiori notizie e una
bibliografia completa sono reperibili sul sito della Fondazione Lucio
Saffaro (v. QUI).
Un importante contributo, con scritti di Saffaro e note di Gisella Vismara e Rosa Pierno è reperibile su Diaforia.org (v. QUI)
Testi tratti da Almanacco dello Specchio 8/1979. L'opera a stampa a cui riferirsi è Est elladico: XXIV epistole, Paradoxos, Bologna 1973, oggi purtroppo introvabile.
Nicola Grato - INVENTARIO PER IL MACELLAIO - Interno Poesia
2018
E' difficile dire qualcosa di questo libro prescindendo dal suo titolo. Un
titolo è importante, lo dico con qualche cognizione di causa. Nei libri di
poesia è quasi sempre campato in aria, o ripete un verso disperso
nell'opera, ecc., a parte certi titoli memorabili, come Allegria di naufragi, per citarne uno. Ma quello di questo libro
dà l'impressione di essere, per dirla con Genette, un titolo tematico.
Insomma, un titolo forte, che dà una robusta indicazione. Perciò è con una
certa sorpresa che poi, leggendo, ci si ritrova in una atmosfera che non ha
l'odore del sangue né l'ossessione tragica di dare un ordine inventariale
alle cose.
Le cose, certo, ci sono, e appartengono anche nel caso di Nicola Grato a
quello che più volte ho chiamato un universo ristretto. Ovvero
qualcosa di insieme concentrato e "vero" (vero per chi scrive), di
universale e insieme strettamente privato, di condivisibile e insieme
inconoscibile per chi legge. E' il mondo visto da una prospettiva
personale, una vera "soggettiva" in senso cinematografico su una realtà
essenzialmente domestica. Va da sé che ogni poesia è soggettiva,
anche quando chi scrive fa di tutto per defilarsi. Si tratta di vedere
quali, quanti e di che qualità sono viceversa gli oggetti poetici, gli
elementi affettivi, emozionali, estetici che passano.
Questo è fondamentalmente un libro che un giovane dedica alla memoria, a
una memoria che riguarda i morti, certo, ma anche una memoria come valore
etico, come elemento sociale, come eredità ed identità e magari, infine,
come debito ancestrale, verso un luogo circoscritto, che forse la maggior
parte dei giovani abbandonerebbe. Insomma una memoria che rammemora sé
stessa. Sintomaticamente tutto questo è anche memoria della forma, sotto
diversi aspetti che si riflettono soprattutto sulle scelte stilistiche e
prosodiche di Grato, e debito culturale, stante che la versificazione di
Nicola è quanto di più aderente ad una tradizione si possa immaginare. Già
i testi di esordio della raccolta (ed è per questo il senso di straniamento
di cui parlavo sopra) ci spediscono proprio in quell'universo circoscritto
tanto lontano da qualsiasi ipotesi "forte" [anche vaghissimamente
grandguignolesca o tragica] quanto può esserlo un salotto gozzaniano.
Infatti è proprio Gozzano l'autore che più spesso viene alla mente,
soprattutto per le piccole cose, gli oggetti che vengono quasi enumerati,
le molte "cianfrusaglie di tante vite, / cose da poco, monili / perciati
destinati al fuoco". Eppure questi ambienti sono scenari di morte, una o
più, e stratificazioni di un dolore che però sembra rattratto, un po'
frenato, trasferito subito su una malinconia elegiaca che è già - anche
prima di una ipotetica funzione catartica della poesia - elaborazione e
accettazione. Come un bighellonare col pensiero in un villaggio che siamo
rassegnati ad abitare, e che quindi non può nemmeno alimentare una
nostalgia, un ritorno alle origini, visto che siamo già qui. La cifra
complessiva è proprio questa e ruota intorno alla perdita (della madre si
suppone, del padre) però come dicevo già in gran parte metabolizzata
proprio per via poetica. Soprattutto attraverso il fattore poetico per
eccellenza, in una poesia di questo tipo, e cioè il ricordo, uno sguardo
che indugia molto, poi, sugli elementi totemici del ricordare stesso, le
cose, gli oggetti che popolano le stanze, che intermediano tra presenti e
assenti, ne sono - e questo è importante da capire - le spoglie in qualche
modo "animate". Chi scrive è come immobile al centro di questa
perlustrazione dell'ambiente quale contenitore dei ricordi. Il tempo è
fermo al momento degli eventi, privandosi di ogni dopo, come in ogni lutto
che si rispetti. I calendari sono fermi "da una vita a dicembre", gli
orologi sono fermi, le foto, ovviamente, sono congelate in eterno, come la
luce, "una luce / di vetro il giorno ch’è morto / mio padre in dicembre – /
mia madre in aprile". Il legame con tutto questo è forte, si ha quasi
l'impressione che Grato lo viva come impossibilità di distacco, anzi con
una qual soggezione, un "riguardo" che trova qualche riflesso anche nella
lingua, con qualche accento dialettale (settimanile, perciati, cunto,
azolo, balata) che però Nicola non usa in senso pittorico o espressionista,
ma come esornazione o come elemento "nomade" (all'interno dell'italiano) di
un rimpianto.
Le cose migliori, alcune delle quali ho riproposto qui, Grato le esprime
proprio quando si allontana un po' dal memoriale elegiaco per volgere lo
sguardo all'intorno, per osservare con occhio meno privato ma non meno
dolente la vita, per riflettere su quanto di più universale il pensiero può
cogliere anche all'interno di un mondo circoscritto, come ad esempio nella
sezione Sommario dell'abbandono o in parte anche in Un paese di persone in volo. Si intravede qui quello che forse
intravede, poeticamente parlando, l'autore. Cioè l'esaurimento di una
tematica, come ultima elaborazione del ricordo malinconico, o del rimpianto
(e non potrebbe essere altrimenti), e il passaggio verso altre domande su
cui esercitare forse anche un diverso linguaggio o addirittura altre forme.
Insomma, una raccolta in cui forse Grato avrebbe potuto, con i mezzi e la
materia che ha, tentare di andare un po' più a fondo, magari contrastando o
arricchendo il dato memoriale, la massa oggettiva delle "cose" con uno
scatto immaginativo, imponendo alle cose stesse il suo intimo,
trasfigurandole. Ma va detto, a parte queste considerazioni che, come
ricordo sempre, sono solo un punto di vista, che quella di Grato è
complessivamente una poesia piuttosto buona, proprio nel suo essere
tradizionale, anzi crepuscolare, con un orecchio stilistico particolare per
musica e metro, assonanze e rimandi, rime interne e consonanze, insomma con
una cura della lingua che si fa notare. Come dicevo sopra, i mezzi ci sono,
e anche la materia, forse non sfruttata (o aggredita) come avrebbe dovuto.
Immagino che Nicola vorrà mettersi alla prova con altri temi, con altri e
più ampi orizzonti. (g. cerrai)
Gabriele Galloni - Creatura breve - Edizioni Ensemble, 2018
Sarò breve. Galloni è già stato ampiamente recensito, forse il più
recensito degli ultimi tempi, senza contare la sua presenza in rete e sui
social, che ha assicurato una generosa offerta di estratti e riproposte dei
suoi scritti. Perciò quello che mi interessa in questo momento è limitarmi
a registrare qui alcuni appunti di lettura di questo suo Creatura breve. La brevità di questa creatura, intesa come opera,
è la brevità della maggior parte dei suoi testi, alcuni dei quali sono al
limite dell'aforisma pro-verbiale (v. più avanti) o del frammento in sé
consistente, "chiuso", che cioè non mi pare una tessera di qualcosa d'altro
se non di una visione appunto frazionaria e forse impressionista di quello
che è a portata di mano (o del mondo, se vogliamo), di una realtà come
stimolo (non proprio come ispirazione) di sintetiche
considerazioni esistenziali (*). La sintesi è tuttavia uno dei pregi della
scrittura di Galloni, poiché non è soltanto semplificazione del dettato ma
anche condensazione di pensiero, o di un grumo di riflessione sull'
"incidente" (con quanto di "occasionale" questo comporta). Una buona
scrittura, in breve, nutrita di parecchie letture soprattutto del Novecento
italiano, ben filtrate, sia detto a suo merito. Come a suo merito va
ascritta la scelta stilistica, complessiva e senza patemi d'animo, della
modernizzazione di accenti lirici e/o elegiaci (come ho notato anche
nell'altro suo libro In che luce cadranno, che da quel poco che ho
letto mi pare senza alcun dubbio migliore di questo), giocata molto sulla
sottrazione del superfluo verbale, tanto per fare un esempio. Con poeti
come Galloni è inutile e peregrina, se non truista, qualsiasi iscrizione
d'ufficio al "tradizionale". Semplicemente così è. Galloni appartiene a
quel gruppo di giovani autori (ce ne sono altri e molto diversi da lui) in
cerca di focalizzazione (ma lui è già parecchio maturo) di una realtà che è
vasta ma che appare comunque governabile, se la si prende in dosi
omeopatiche: se la si guarda in superficie, come un lago relativamente
calmo; se la si analizza con mezzi rinnovati ma collaudati; se la si vive
con un po' di ironia e di sensualità, o con il paradosso (nel senso di
contraddizione del comune) e con quella distanza, anche anagrafica, dal
"naufragio" di cui parla Hans Blumenberg citando Lucrezio. Inutile cercarvi
un senso del tragico, non può esserci, almeno in questo tipo di poesia.
Sarebbe semplice, per i testi più brevi, parlare anche nel caso di Galloni
di piccole epifanie (v. ad es. QUI o QUI o QUI). In realtà mi
pare che qui non ci sia proprio "rivelazione" e decifrazione poetica di
essa, c'è piuttosto il poeta che sembra defilato come "io" (c'è spesso una
terza persona singolare, e al passato) ma che ci fa sapere tra le righe che
è lui ad illuminare e in qualche modo nobilitare quella parcella di realtà
con i suoi versi. Nei quali non posso fare a meno di rinvenire, per quanto
molto volatile, un elemento narcisistico, una specie di ammicco, a sé e a
chi legge, un "gesto" poetico ben scritto, non c'è dubbio, ma che secondo
me ha ancora bisogno di un supplemento di indagine (soprattutto da parte
dell'autore stesso sul suo materiale poetico).La sintesi del reale per
frammentazione, se così si può dire per ossimoro, è poi un tratto di molta
poesia attuale, in sé naturalmente rapsodica, con cui bisogna fare i conti,
accettandolo o rigettandolo con qualche motivazione.
La creatura breve invece intesa come simbolo è l'uomo medesimo. Come si
legge in Pro Verbis #4 "E saremo l’Immagine dell’uomo. / Non la
creatura breve, ma la traccia" (questo l'intero testo). Inversione dei
ruoli, non si può essere a immagine e somiglianza di nessun dio ma solo di
sé stessi, in sé o come traccia memoriale di uomini. E' uno dei temi di
Galloni, trattato in maniera del tutto agnostica, anzi se c'è una presenza
"mistica" è un angelo irrumante nella bocca di qualcuno, e va bene così
perché anche in questo consiste l'uomo ad immagine d'uomo, e non credo che
ci sia nessun borghese che si lasci épater per questo. Un altro
tema, importante e correlato, è quello della morte e dei morti - intesi
come categoria quasi filosofica ipostatizzante, o come simbolo dialogico in
conversari o sibilline parabole tra l'onirico e il fantastico - presente
soprattutto e con maggiore coerenza, mi pare, in In che luce cadranno. La morte è un topos in poesia e da quel che
ricordo Gabriele ne ha qualche esperienza diretta, per via delle sue
interviste a malati terminali pubblicate su Pangea. Un materiale
importante, quindi, e doloroso, che Galloni sceglie di "distanziare" con
l'ironia, di declassare, almeno in questo libro, a un territorio parallelo
popolato di deuteragonisti colloquiali per la sua particolare visione del
mondo. Il che ha sicuramente un certo interesse, soprattutto per l'abile
manipolazione, la resa scrittoria di queste "fabule", forse la parte più
sostanziosa di questo piccolo libro.
Insomma, se la domanda è: è bravo Galloni? la risposta è sì, con riserva.
Per quanto mi riguarda un lavoro che avrebbe potuto apparire più organico,
più conclusivo, perfino più azzardato. Ma anch'io, come mi pare tutti,
credo che Galloni abbia la stoffa, e anche il carattere, per farsi valere. (g. cerrai)
(*) dopo aver scritto queste parole ho trovato questa interessante - ma per
un certo verso ovvia - risposta, tratta da un'intervista di Michele
Paoletti al poeta (v.
QUI
):
Come nascono le tue poesie?
Di solito parto da un’immagine, un fotogramma di vicenda, una situazione –
la narrativa non mi abbandona mai. Cerco di misurare e limare quello che
voglio dire; lo costringo nella melodia della metrica, che mi permette di
consumare il consumabile nel modo migliore possibile – cioè puntando
all’essenziale e senza sprechi linguistici. Altre volte invece mi visita
improvviso un verso, undici sillabe perfette, e da lì continuo sviluppando
o riducendo, mutilando. Sono molto puntiglioso in questo.
Non incrociavo Federico Federici da anni, almeno da quando
circa dieci anni fa avevo pubblicato qualche testo della sua bella
traduzione dal russo di Nika Turbina (Sono pesi queste mie poesie,
v.
QUI
) e soprattutto avevo brevemente annotato la sua raccolta L'opera racchiusa (v.
QUI
), con cui aveva vinto il Montano 2009 (e qualcuno lo ricorderà anche come
autore con l'eteronimo di Antonio Diavoli). Ora, cioè qualche tempo fa, mi
manda il suo Mrogn, uscito per Zona alla fine del
2017, premio Pagliarani 2016 per la raccolta inedita.
Mrogn è un luogo preciso, da qualche parte dell'Appennino Ligure, designato
da un toponimo dialettale di cui sfugge il senso. Mrogn è un luogo
immaginato, ambientazione e set di accadimenti misteriosi e insieme
ineludibili. Mrogn è la coincidenza, anzi la tangenza di presenza umana e
natura, entrambi su un confine invisibile tra dimensioni diverse e tuttavia
intrecciate. Mrogn è una metafora, e quindi un coagulo di senso, non
necessariamente esplicito ma, forse proprio per quello, necessariamente
esplorabile. Mrogn è, probabilmente, un viaggio per il quale la lingua è il
principale passaporto, anzi un viatico, in un'oscurità la cui dissipazione
è una sfida, forse perdente. Infine, e proprio per tutto ciò, Mrogn è un
poema, con quel che ciò significa in termini di spazio e tempo, di respiro
e unità di intenti, di indagine ed epos dell' "evento".
Qualcosa accade o è accaduto, lassù. Sì, forse indagine è la parola giusta,
basta non perdere mai di vista il fatto che non è la soluzione che conta, e
nemmeno la concretezza di qualsiasi fatto. Anzi, è chiaro fin
dall'inizio che è l'incerto, l'indefinito, il probabile non provabile, questi ed altri gli elementi da cui principalmente
è composta questa scrittura. L'accaduto, qualsiasi cosa esso sia, ha un
valore traslato poiché non è che un frammento su cui si esercita un
tentativo di penetrazione della realtà, intesa - in ultima analisi
- in senso astratto. Va notato subito però che, trattandosi di un poema,
qui non c'è, non può esserci niente di frammentario o rapsodico, insomma ho
fatto riferimento a spazio e tempo per qualche ragione. Se i testi sono
brevi o brevissimi è perché hanno, devono avere, l'essenzialità dell' indizio, fissando in esso una porzione di accaduto, e a ciascuno
ne segue un altro, una serie, una sequenza che compone il macrotesto, se
posso usare questo termine improprio. Si arriva alla fine del libro, lo
dico subito, senza soluzioni del "dramma", perché - va detto anche questo -
il dramma, inteso in senso teatrale, è in realtà un presentimento,
forse una leggenda, o una paura, privata o collettiva.
C'è in effetti una dimensione che potremmo definire teatrale, una possibile
interpretazione a più voci, voci indefinite, anch'esse forse metafora di un
indistinto popolo che vive, forse scrive, forse legge, la vicenda poetica.
Sono essenziali qui, in cima ad ogni testo, degli exerga didascalici, delle
indicazioni quasi di scena, di teatro o cinema, che avviano (ma non
conducono, quello è affar suo) il lettore. Facciamo qualche esempio:
(sottovoce – corsivo a verbale); (altri rilievi, anatomie di scena);
(esterno: notte); (primo testimone: un sacrestano)
, e così via. E' chiaro che tutto concorre ad un tono di indefinito
mistero. I "reperti" disseminati come testi apparentemente in sé conclusi
non portano nemmeno a definire che esista un "fatto". Ed è questo, io
credo, uno dei temi del lavoro, se non il principale: una verità
irrealizzabile come vera, perché relativa, intersezione e contaminazione di
parole e punti di osservazione, in un certo senso "privata" di ciascun
osservatore. Esattamente, se vogliamo, come la verità dell'artista, nel
momento stesso in cui si manifesta. Il vero si possiede forse con il suo
"nome" ("l'ha raggiunto il nome, / preso"; "non avrà altro nome / al di
fuori di sé"; "lo scomparso ha nome?"; "Non si può affermare / che sapremo
il nome / dentro cui è morto"; "Lasciateci da soli / a cercare il nome";
"si ripete in bocca della preda / il nome, quasi s'avverasse / in quello";
"lascia perdere / il bersaglio / - è il nome"; "Si sentiva minacciato / nel
suo nome" ecc.). In definitiva, con la parola che identifica e tenta di
organizzare il reale.
Lassù su quel colle, si diceva, qualcosa c'è o c'è stato, esiste o è
esistito. Una scomparsa, o una morte. Come anticipa il risvolto di
copertina: "Chi è morto? Un animale, si direbbe. Chi è scomparso? Un uomo,
si direbbe - se non che anche l'uomo è un animale". Va bene, ma questo è
avvenuto prima, per paradosso possiamo dire prima ancora che il
libro venisse scritto. Il libro viene in un certo qual modo dopo, in
risposta a quelle domande e ad altre che inevitabilmente seguono. Come
quella di cosa sia realmente l'oggetto della caccia/indagine, una caccia metafisica, come sottolinea la motivazione del Premio
Pagliarani, ricordando giustamente la caccia allegorica del caproniano
Conte di Kevenhüller (là alla Bestia, qui all' "altra cosa"). Il luogo è
essenziale, non tanto nella sua dimensione fisica quanto soprattutto nella
sua essenza simbolica. Simbolica è la sua oscurità, simbolico è il suo
intrico. Il luogo è il bosco (e bosco è una di quelle parole - nome, animale, ecc - che ricorrono nel libro, come
segnavia), un luogo senza confini istituiti ("Non esiste il punto / dove il
fiume penetra / nel bosco, né / le vene il corpo" e "sulla carta non esiste
bosco"), nel quale addentrarsi è cedere una parte di sè o paradossalmente
acquistarne, segno che la ricerca (di verità, di risposte) è un valore nel
suo svolgersi, è formazione. E', in altre parole, trasformazione,
forse metamorfosi ("Non si penetra nell'ombra. / Entra in noi l'ombra del
bosco"). Le cose, nella caccia, evolvono. E non è un caso che dei testi
abbiano un carattere sapienziale, che ricorda certe "sentenze" dell' I Qing, il Libro dei Mutamenti: "Lo scomparso ha nome? / L'animale
un'orma, un verso? / Chi cercò nel bosco un varco / è perso". Ma evolvono
come enumerazioni di oggetti o come evidenze di una incapacità di dissipare
per sempre l'oscurità del bosco e l'opacità della verità che si suppone
esso contenga. E forse come metafora della lotta - spesso perdente ma
sempre necessaria - della parola per essere "definitiva" sulle cose e sulla
realtà, specie su una realtà in schegge, sulle tracce di essa ("Che parola
mise sulle tracce, / o che parole erano le tracce? / Chi parlò, / senza
coprirsi di silenzio?"). E' un nobile tentativo, come sempre è la
scrittura, di gettare l'ombra al di fuori di noi.
L'indagine alla fine non ha esito, ma lo sappiamo già, perché un "rapporto"
proprio all'inizio del libro ci informa:
Non è stato possibile giungere oltre l'evidenza dei fatti. I reperti
(pezzi di roccia, cortecce incise, piume, peluria e schegge d'osso), i
rilievi (foto, tracciati, filmati), il sonoro (spifferi d'aria, fischi
di serpi, legna spaccata e parlate in dialetto) sono oggi archiviati al
museo contadino di *. Qualcuno ogni tanto li studia.
La gente del luogo, arrivando l'inverno, ha paura.
L'uomo è sepolto nel bosco. Il bosco nell'uomo.
Mrogn, 7 ottobre 2012
Ma non è nemmeno una sconfitta, è la stessa ricerca il segno e il significato del lavoro, come dicevamo all'inizio, la
compenetrazione di indagine e oggetto indagato, come abbiamo appena letto.
Un libro di fascino, indubbiamente, stilisticamente imperioso e tuttavia
aperto all'immaginazione anche visiva del lettore, nelle ampie radure (del
bosco, del testo) lasciate a chi legge, negli spazi bianchi, come innevati, tra i versi. E il cui principale interesse sta in una ricerca non solo
sulla lingua, peraltro mantenuta a un livello strutturale semplice e
ordinato, anche in funzione della natura volutamente frammentata del testo,
ma comunque sempre serrata ("Taglio per taglio, rima per rima, la caccia
alla lingua è proiettata in cabina di montaggio", ci rammenta Fabio Zinelli
nella motivazione al premio); ma ricerca anche sui temi, sulle cose da
dire, sui livelli espressivi, sulla "storia", su tutto ciò che poi
sostanzia e incarna quella lingua, non lasciandola mai mero strumento privo
di suggestioni. Un linguaggio franto e sincopato, e volutamente antilirico,
non emotivo, che consegue l'ossimoro di una trasparenza
dell'incerta e brumosa oscurità del mistero.
Infine, al di là di ciò che può scrivere il recensore, una cosa che ama
pensare il lettore: che a volere un po' tirare le cose per il bavero, mi
piacerebbe leggere qui anche forse una metafora politica, di quel timore,
di quella paura di un nemico misterioso, di quella incertezza che pervade i
nostri tempi. Insomma mi piace pensare che la poesia, ancora e ancora,
assorba e restituisca il suo tempo. (g. cerrai)
LA PAROLA INFORME - esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità
a cura di SONIA CAPOROSSI - Marco Saya ed., 2018
Ricordo che diversi anni fa si parlava di mappature della poesia. Ah,
quanto se ne parlava! La linea lombarda, la linea marchigiana, la
generazione entrante, quella uscente, i territori paralleli...Sebbene già
allora le mappe non portassero in alcun luogo - con una certa soddisfazione
dei più borgesiani - oggi più che mai mi pare che l'orientamento sia
un'arte difficile, se non appoggiandosi, ancora, a categorie o
denominatori. (e poi, orientarsi in cosa? nella poesia in sé? nel reale ivi
(se) riconoscibile? nel fenomeno osservato? nell'osservatore?) etc. Se
l'orientamento è difficile non lo è tanto perché la poesia sia una giungla,
quanto perché la si vuole spesso e quasi di necessità collocare e
ri-collocare - spesso arbitrariamente - in ambiti e/o codici, meglio se
impermeabili tra loro, e questo crea problemi, se non proprio di dissidio e
opposizione, almeno di prospettiva e focalizzazione. Una opacità a cui si
potrebbe porre qualche rimedio se intanto si considerasse la produzione
poetica come una serie di oggetti (insiemi) intersecabili, un'ottica che
almeno (forse) consentirebbe di capire non tanto la realtà di uno
(o nessuno), quanto il punto di vista sul mondo di alcuni (o
molti) anche diversi, e quindi analizzarne in maniera feconda le
intersezioni e le osmosi, i problemi e le soluzioni adottabili e/o
sviluppabili. Non sto parlando di ecumenismo, e nemmeno di una diversa
antologia ([1]). Sto parlando
della necessità di ricostituire il peso della poesia (il peso
anche sociale e politico se volete) come strumento/funzione di indagine e
comprensione del presente.
Perché nel frattempo, come in ogni "litigio" o dissidio che si rispetti, il
terzo gode. Ecco, questo sì che è un problema interessante. Cioè chi/cosa
possa essere, nell'articolazione del presente (o dell'ultracontemporaneo,
per dirla con Sonia) questo tertium. Sarei orientato a pensare che
esso sia lo sfuggente convitato di pietra, quel camaleonte che perònon si mimetizza ma viene mimetizzato proprio da chi lo osserva, con uno strano fenomeno
ottico. Sto parlando del reale complesso, di quella
complessità che è un problema seriamente percepito da qualcuno (ad esempio
da uno almeno degli autori qui presenti) ma che è ben lungi dal trovare una
soluzione "artistica". E che allo stato attuale produce - spesso - un
intenso lavorio sul "come", soprattutto sul linguaggio come copia e
manifestazione iconica dell'indicibile, una neolingua come pallida
rappresentazione di un mondo/potere di comunicazioni verticali. Il
rapporto, per fare un esempio brutale, mi pare - qualche volta - quello tra
un bambino con le sue lallazioni e un mondo di adulti che impartiscono
ordini. C'è insomma un po' (molto) meno attività sul "cosa" si aggira (al
di là del groan individuale, anche se spacciato per lamento
collettivo/generazionale) all'interno dell'odierno reale complesso, che è
davvero, esso sì, ultracontemporaneo, perché in ultra-divenire( [2]).
Il linguaggio, oggi, mi pare abbia (ed è qualcosa che riguarda anche la polis) due direzioni principali, una di informazione,
l'altra di deformazione. Una dicotomia che va spiegata, a
cominciare dal primo braccio, la cui aria "positiva" non deve trarci in
inganno. La prima direzione, infatti, è quella della semplificazione, della reductio ad unum, dello slogan, ed è soprattutto politica, ed ha
la caratteristica di essere in-formante, non necessariamente in
aderenza alla realtà, anzi come riscrittura funzionale della
medesima, e con funzione estetica nulla. Paradossalmente è ciò che più si
avvicina al grado zero di Barthes, alla scrittura bianca, non
ovviamente quella di Camus a cui il filosofo francese faceva riferimento,
ma una scrittura in cui la riduzione della forma si combina, ancora una
volta paradossalmente, con l'instaurazione di un mito. Una scrittura
insomma non tanto astorica quanto alogica. L'altra direzione, restando nel
campo di questo libro, è quella della complessità, nel senso a cui
accennavo prima. Ma qui, nel momento in cui, di fronte al complesso,
l'esperienza individuale si restringe e arretra (cioè quando e perché non
riesce a diventare esemplare e - quindi - letteraria),
emerge una "inclinazione alla deformazione poietica del
dicibile... un concetto comune di parola informe" (Caporossi,
corsivi dell'autrice). Già, il dicibile. Io prima ho parlato di
"indicibile", e mi viene il dubbio che siano sinonimi, in questo contesto.
E che siano entrambi sinonimi di "infinito", ovvero un ammasso stellare di
materia che può o non può essere detta in poesia (se restiamo in questo
campo), in entrambi i casi fino alla noia. Un materiale poetico atomizzato,
in cui ogni frammento percepibile può essere potenzialmente una scintilla
testuale, un mini-bang espansivo, basta che l'artista trovi, magari una
volta per tutte, il suo modus, o la sua "forma informe", o come si
diceva una volta il suo stile. Ora, la buona notizia è quando - nella
migliore congiuntura - riesce a verificarsi quella "intuizione aurorale" a
cui si riferisce Caporossi nella sua prefazione, ovvero "la presa di
coscienza del paradosso sorgente dalle multiformi modificazioni del nesso
tra segno e significato, propria dell’esperienza poetica per eccellenza"
(appunto quella aurorale). Tralasciamo il carattere "raro" e empirico che
promana da questa definizione che richiama alla mente Benjamin (e
Baudelaire ancor prima), ma capisco bene e apprezzo l'intento critico (e la
proposta) di Sonia di ricondurre, ove si verifichi, il carattere (l'alloro)
di unicità (l'aura di Benjamin, quindi) dal capo dell'opera all'intuizione
del poeta (è l'idea, il concetto, del poeta che viene ad assumere
la sua unicità prima dell'opera). La cosa importante, sotto questa
prospettiva, è che, forse proprio per il suo empirismo, il risultato può
essere - davvero - "sperimentale". Il che, in parole poverissime, significa
davvero spostare in avanti certi limiti (espressivi, comunicativi,
interpretativi) che sono gli stessi, fondamentali, della poesia e
dell'agire artistico in genere.
La notizia meno buona è quando (in alcuni casi) ci coglie la sensazione che
la parola informe da una parte sia - per usare un paradosso - una "facile
via difficile". Ne ho già parlato brevemente, ma voglio essere più preciso.
Parlo di metodo, di modalità e/o maniera, anche autoalimentata; di estetica
del multiplo, di cliché come arte ecc. (a margine: il cliché come arte è
(sarebbe) già un buon approccio al complesso, se non si limita ad essere un
atto artigianale (o puramente concettualizzato) con cui si prende un
qualsiasi frammento del reale - soggetto quindi di/a casualità - e
lo si pone in un frame [stampo, forma, cast] pre-parato). Parlo di
una postura, o del rischio di essa. Una cosa che nessun poeta ammetterà
mai, ma è la riproducibilità (sempre per restare a Benjamin) della forma
(per quanto informe), la collocazione in un confortevole punto di quiete,
una cosa che Sonia può comprendere perché non dissimile da una malattia che
lei chiama "esordismo", c'est à dire la riproduzione dei temi e
moduli uguali a sé stessi, per una sorta di confortante conformità a
qualcosa di primevo che - aggiungo - sembri aver raggiunto una propria
"economia" funzionale.
Oppure, dall'altra parte, come dicevo all'inizio, che l'informale mimetizzi
l'indicibile (o quel che si può dire di esso) confondendolo con il suo
essere "naturalmente" oscuro (che è in sé una categoria nobile - e
indagabile), (ri)calcandone il gradiente di impenetrabilità ecc., che sia
quindi una parola - certo involontariamente - "organica", come si diceva
una volta, a un contemporaneo (ultra o meno) la cui complessità non è certo
governata dal poeta ma che il poeta, a mio avviso, deve tentare di
penetrare, senza rimbalzarci sopra come un sasso su uno stagno. Cosa, lo
ammetto, non facile, ma che rappresenta una sfida per il futuro.
Inutile dire a questo punto che questo libro antologia prende le mosse da
un assunto implicito, che cioè il punto di partenza (di questa mappa o di
altri itinerari) sia la poesia di ricerca o sperimentale - per quanto qui
solo nella sua veste semica e lineare - in ragione del suo accreditamento
di stato dell'arte avanzato della poesia (un accreditamento, per
inciso, a volte un po' "auto-") e per conseguenza più aderente al
contemporaneo "ultimissimo" o "iperattuale" (Caporossi) di riferimento. E
forse questo libro può apparire come un repertoire linguistico e
di competenze, di fatto centrato su uno specifico. Ma l'assunto della
curatrice deve essere accettato, pur con i suoi rischi e i suo punti
critici. Non solo perché della poesia di ricerca non c'è, come invece
sostiene qualcuno, una egemonia perfino ridicola da supporre e pertanto
essa non può che essere considerata un territorio "coltivabile" al pari di
altri, soprattutto se si cominciano a respingere rigidità di canoni,
codici, paradigmi; ma anche per il fatto che, al di là di tutte le
considerazioni fin qui fatte, questo libro è prezioso e meritorio, perché
offre non pochi spunti di dibattito (ce n'è un gran bisogno) e perché mi
pare non voglia affatto essere un punto di arrivo. Ma soprattutto perché ci
leggo una ambizione di fondo, che è quella che dovrebbe avere una critica
seria. Ovvero ciò che credo la critica oggi, se ancora ha una funzione,
debba fare: concorrere ad identificare non linee ma percorsi conoscitivi od
estetici (che in arte è lo stesso), arrogarsi il diritto di "inventare" o
imporre scoperte, argomentandole e difendendole, ma soprattutto di
rinvenire snodi, punti di frizione, articolazioni, percorsi non battuti,
indicando sentieri apparentemente invisibili. In questo sì "impura", o al
contrario totalmente pura perché il suo lavoro non è più trovare il
"buono", o giustificazioni plausibili al lavoro di questo o quello
scrittore specie se "difficile", o "nuove ontologie", che è una cosa che fa
ridere i polli. E' semmai quello di trovare idee, o "concetti", (e quindi
fare un "atto di creazione" per dirla con Deleuze). Mi pare che Caporossi
sia decisamente orientata in questo senso.
E tuttavia, se il legante è quello che individua Sonia, ovvero di un
"potere autonomo e autotelico della parola" che può svolgersi fino al
"raggiungimento del livello informe della parola (stessa),
condizione fluttuante in cui il senso si concede alla comprensione, di
volta in volta, nell’atto del suo stesso farsi", non so se questo può
bastare. E' in primis quella "condizione fluttuante" che mi fa pensare che
racchiuda in sé un'alea e che mi fa temere una scrittura/guscio di noce
alle mercé di una brutale corrente, per dirla con Shakespeare. E poi forse
si tratta - forse - di un problema categoriale, un ambito in cui si possono
far confluire anche troppe esperienze, anche decisamente contraddittorie,
come è successo nelle arti plastiche e figurative con l'informale, che
comunque possiamo considerare morto già alla fine degli anni Novanta.
E tuttavia, ancora, questo lavoro ha in sé un elemento fecondo ulteriore
(ma non involontario, ultroneo). In realtà, cioè, questa antologia, i cui
autori - come annota Caporossi - sono "ondeggianti sul filo pericoloso che
separa la natura crassamente lirica della poesia dal filone sperimentale o
di ricerca", potrebbe con qualche giovamento essere osservata da una
prospettiva verticale [longitudinale] che però non costituisce
necessariamente un confine, secondo il concetto che dicevo all'inizio, tra
aree in cui la parola informe è sì - per una parte rilevante - forma e medium, ma che poi veicola, a me pare, cose diverse, che
mi sembra evidenzino, almeno qui, almeno due direzioni, ed è questo che mi
interessa. Perché a un certo punto bisogna pur chiedersi, criticamente, in
relazione al loro rapporto con la realtà, a cosa pensano davvero i
poeti, qual è la loro spinta iconica/eidetica ad esempio, cosa immaginano
davvero che io (anche come lettore-critico o anche empirico) legga o creda
di leggere. Insomma che cosa vogliono dire. Giacché si tende,
succede anche a me, ad accettare l'offerta linguistica dell'autore, specie
se sub specie 'oscura/difficile', come l'oggetto [prodotto] "finito" del
suo lavoro. Ma se si va ad analizzare davvero il precipitato, se
si comincia a vedere cosa c'è dentro, le cose che ci sono dentro,
allora appare evidente che in quella "oscillazione" citata (e che forse
Sonia non ha voluto approfondire) c'è un punto nodale. Da una parte, in
questo libro, c'è l'informe in cui davvero abita e agisce il "potere
autonomo e autotelico della parola", ma nel senso che tende ad arrogarsi
non tanto un potere di interpretazione (o forse di invenzione) del reale
costituendolo con il verbo, quanto il diritto di contemplazione di sé, nel
proprio farsi. Il quale farsi non è detto che sia regolato, come dice
Sonia, dall'analogia intesa come "capacità logica (e ancor prima,
prelogica) di porre nessi metaforici tra l’immagine poetica e la semiosfera
esperienziale di riferimento". Rimane infatti il problema, tanto per
capirci, di chi debba avere questa capacità logica, se l'autore, il lettore
o entrambi. Come precondizione, immagino.
Dall'altra parte di questo libro la parola informe (il cui grado di
"informità" andrebbe comunque stimato, perché variante) mi pare che sia
materiale plastico di rappresentazione, cioè ambisca quanto meno a
rappresentare "ad arte" qualcosa che non sia solo la propria
deformazione (seppure come imago di un reale difficile da penetrare). Cioè
ambisca ad usare il linguaggio non solo in senso "strumentale" (come uno
strumento risonante [autopoietico]) ma anche (o soprattutto) come mezzo
conoscitivo o cognitivo, pur nel suo "farsi" dinamico (che vuol dire
tendere a una innovazione della capacità espressiva della lingua). Su
questo versante, a grattare un po' l'informe, poi il lettore trova la sua
"soddisfazione", ammesso che in questo sistema il lettore sia contemplato
(sia detto senza ironia: ad es. in molta arte contemporanea il fruitore,
specie se passivo, non è affatto considerato come "variabile" componente
del processo). Il qualcosa che sembra emergere a questa
"longitudine" è un frammento di quella realtà (tralasciamo per il momento
se complessa o meno), una parcella che possiamo meglio ascrivere ad una
"semiosfera esperienziale", che però includa, perché no?, chi legge. Per
capire meglio basta accostare i testi di autori - per fare qualche nome -
come Bellomi e De Francesco, o Scarpa e Garrapa, o Porsia e Leonessa, o
Tripodi e Riviello. Con le relative sfaccettature e con la cautela del
caso, mi pare che lo sguardo, l'attenzione creativa siano orientati in due
diverse direzioni, che all'inizio in sintesi avevo definito del "come" e
del "cosa", ma che sono più propriamente prospettive, del linguaggio sul
linguaggio e della lingua sulle cose. Che non sono necessariamente in
contrasto, né, è ovvio, decisamente separabili (ammesso che debbano
esserlo). Sono, nella migliore delle ipotesi, due campi di lavoro (ma non
sempre entrambi di indagine). Il limite del linguaggio risiede in quello
che dice: possiamo deformarlo alla ricerca di un senso aurale che
confidiamo esista indipendentemente da noi e che sia di per sé in una
qualche relazione con la realtà, ma credo che poi - senza farne una
sovrastruttura - dobbiamo decidere in che direzione, verso quale indagine,
su quali "oggetti" orientarlo, con tutta la "indisciplina" - per rovesciare
un concetto foucaultiano - che compete all'arte. Poiché
l'ultracontemporaneo, inteso come individuo oltre che come tangenza del
presente, non può , al di là della sua definizione, che essere contenuto
con quel reale complesso con cui anche come poeti dovremmo fare i conti.
Come se fosse un enorme ipertesto. Io credo che la direzione sia quella. (g. cerrai)
[1]
Parlerei - più che di mappe o se preferite di antologie - di
campionamento, anzi proprio lo suggerisco ai prossimi curatori di
raccolte. Campionamento di molte cose, se volete
anche nel senso sonoro e/o musicale del termine, anche in ragione
di una sempre maggiore smarginalizzazione del fare poesia (ammesso
che un margine esista) in territori, come quello della poesia
orale, nei quali il testo si smaterializza e ri-materializza nella
voce e dove il sample, specie testuale, non è infrequente.
(diciamo anche che il testo perde un po' il suo statuto, non solo a
favore della voce ma anche del gesto - e non sempre la poesia ci
guadagna). In margine: fluidità della poesia, digeribilità della
poesia (ammesso che sia un passo avanti), contro rigidità del mezzo
testuale, per sua natura poco spettacolare. Ma l'esempio
che ho fatto non deve essere limitante, anzi è solo un aspetto, uno
tra molti, della questione.
[2]
Definire l’ultracontemporaneo acquisterebbe maggior significato se
indicasse anche una svolta, oltre che una semplice fotografia del
(ultra)presente. E poi, ultrac. in relazione a cosa? Che poi un point de repère, un rapporto col tempo, se vogliamo uscire
dalla riserva della (in)comprensione del reale, dovremmo pure
avercelo. L’ultracontemporaneo è destinato ad essere passabilmente
[il] presente, per poi diventare semplicemente moderno, nella
migliore delle ipotesi (e mi pare di essere d’accordo con I. Testa,
citato in prefazione). E tuttavia è molto utile, se aiuta almeno a
comprendere il presente [l'attuale], l'aria che tira. E se
l'analisi dell'ultrac. evita la secca di somigliare troppo a quei
prodotti open source che vengono forniti "as-is", cioè come sono,
senza alcuna garanzia o ipotesi di sviluppo (to-be). Ma è evidente
che bisognerà ancorare l'analisi a qualcosa d'altro, che non sia
legato al transeunte. Per esempio ai fenomeni che scuotono l'oggi,
che come sappiamo in Italia non riescono a trovare gran spazio
(preciso: non sto parlando della cosiddetta poesia
civile).
Laura Garavaglia - Correnti ascensionali – CFR,
2013, con immagini di Daniela Gatti
Mi capita spesso di leggere libri d’artista in cui dipinti e fotografie
vengono associati, a volte, in maniera tematica, alla poesia: alcuni
progetti sono originali e ben costruiti, altri meno, ma ne apprezzo sempre
il connubio, la fusione, la potenza del linguaggio poetico comune a tutte
le espressioni artistiche. Correnti ascensionali di Laura
Garavaglia, CFR 2013 è molto più di un libro d’Arte. È uno scrigno di
gioielli: poesie in lingua italiana con traduzione in inglese di Barbara
Ferri, in romeno e spagnolo di Mario Castro Navarrete, e fotografie di
porcellane (medaglioni, vasi, centrotavola) di Daniela Gatti. Le
combinazioni sono eleganti e illuminanti. È sacro il dire e il fare delle Correnti, infatti, il percorso razionale, visionario e intimo
trasforma i particolari in affascinanti contemplazioni del tutto. Così le pagine non interloquiscono solamente con le
immagini, ma, soprattutto, con il controcanto di altre lingue per
declinare, solennemente e miracolosamente, l’appartenenza alla stessa
natura. Il lettore è accompagnato dal senso di realtà presente e da aspetti
folgoranti del passato nella bellezza di metriche e colori in cui la
fascinazione emozionale indica direzione e partecipazione. (rita pacilio)
Di Danilo Mandolini avevo già detto qualcosa circa tre anni fa, per una
raccolta antologica della sua produzione tra il 2010 e il 1985, che si
intitolava per l'appunto A ritroso (v.
QUI
). In questa nuova raccolta si ritrovano i tratti essenziali della sua
scrittura che avevo allora rilevato, a cominciare dagli elementi per così
dire strutturali del suo lavoro, che peraltro si riflettono sul modus,
sulla lingua, sull'espressione e in ultima analisi sulla costruzione del
suo mondo poetico: una certa dose di astrattezza riflessiva, che però non
preclude il senso né diventa linguaggio autoriferito, ma spinge semmai
verso più profonde considerazioni; un arretramento o decentramento del
soggetto (cosa diversa dall'io poetante) che corrisponde ad un allontanarsi
dal mondo per osservarlo nel suo manifestarsi, anche metaforico, da una
giusta distanza, come da un eremitaggio; un conseguente riferirsi alla
realtà come poco oggettuale, poco popolata di "cose" e più di parole che
tentano di descriverla, e men che mai di presenze umane, una realtà per
così dire metafisica (e citavo a mo' di esempio De Chirico - ma rimando
comunque a quella nota).
Certo, in questo nuovo libro mi pare ci si ritrovino quegli elementi. Ma ci
si rinviene anche un diverso approccio alle cose da dire, qualcosa di più
concettuale, in un certo senso di più sperimentale (prendendo il termine
con cautela). Questo dipende forse dal fatto che in A ritroso
c'era anche ancora presente il bagaglio delle poesie più giovani, ora non
disconosciuto ma diciamo acquisito agli atti, introiettato.
Anamorfiche, dice il titolo. Ovvero il restringimento dello sguardo, del
punto di prospettiva, del luogo e del modo, quelli e non altri, in cui
porsi per avere una visione "giusta" delle cose. Anamorfismo è questo, il
punto di disvelamento di qualcosa di recondito ma significativo, una
epifania, una metafora assoluta, che può anche rovesciare l'illusione,
l'idillio. Suggerisco, per capirci meglio, di dare un'occhiata all'esempio
più noto: "Gli ambasciatori" di Hans Holbein il Giovane (v.
QUI
).
Questo restringimento dello sguardo, questo punto eletto di osservazione
pongono già qualche questione (o sfida, per il lettore). Una riguarda mi
pare la concentrazione dell'attenzione poetica - così come avviene nelle
belle immagini scattate dall'autore che corredano il libro - sul dettaglio,
sulla parcella di realtà, intesi però come significanti o almeno come
indizi o sintomi di altro, di una porzione più ampia della realtà stessa,
sia essa interna e quindi intima del poeta, sia essa una parte di ciò che
il poeta percepisce del mondo all'intorno (e di cui inevitabilmente fa
parte).
L'altra concerne il fatto che questo restringimento dello sguardo o della
prospettiva (che paradossalmente moltiplica il particolare, offrendo al
poeta un repertorio sterminato di frammenti) accentua il focus personale
dell'autore sulle cose, che si riversa sulla scrittura e la forma, e la
sfida per il lettore, peraltro affascinante, è di ricostruire o reinventare
quella immagine o una radiazione il cui spettro può non essere percepibile
a tutti. Quella immagine cioè che è innesco di quella medesima scrittura.
E' evidentemente da parte del poeta un approccio per così dire sineddotico
(la parte per il tutto), di cui come lettori occorre prendere atto,
facendoci condurre. Ma è - in ultima analisi e in relazione a quello - una
interessante visione metonimica della realtà, almeno di quella che
interessa Mandolini. Ovvero una scelta coraggiosa e rischiosa, perché
l'autore (Danilo o chiunque altro) scrivendo deve costantemente chiedersi
se l'immagine che va formando lascia un sufficiente margine di suggestione
- interpretativa o emotiva - a chi legge. E chiedersi - contemporaneamente
- se la contemplazione del particolare non nasconda un sotterranea fuga dal
tutto, dalla complessità ingovernabile della vita (che è invariabilmente il
tema centrale di questa poesia). Una scelta, torno a dire, in qualche
misura eremitica, una posizione da dove "è cogliendo e osservando / questa
minima dinamica / che si può vedere il tempo / nel lampo breve...",
qualcosa di infinitesimo e ineffabile che sta "tra ciò che ascolterò / e
ciò che scorgerò sopravvivendo / nelle pieghe immateriali, / nelle
increspature che non vedo - / ora, qui - / degli attimi a venire". E'
questo l'anamorfismo. Come in Holbein, è solo accogliendo l'invito
dell'artista a porci in quel luogo/tempo poetico (e accettandone anche
l'indeterminatezza) che è possibile forse intuire l'ammonimento, il senso
di ciò che in primo acchito è indistinto come una macchia. Il tentativo -
morfico, prospettico - è quello di uscire, almeno per il momento in cui si
realizza, dalla visione canonica. Un buon esempio è la sezione Crocivia (quindici blasfemie in loop), una delle migliori, dove
alla messa in scena di "un ipotetico dialogo degli uomini con il divino"
concorrono linguaggio e sguardo, in una interrogazione eterodossa e
impellente (e quindi, se volete, anamorfica, o - forse - "blasfema"), molto
umana ("[mio dio noi / ci pentiamo e ci dogliamo con tutto il cuore / dei
nostri peccati perché...Perché abbiamo peccato ma / tu...Tu dichiarati,
manifestati, pronunciati, / rivelati, almeno, come si rivelerebbe una bava
di vento...").
Un tentativo, quello operato da Danilo in questo libro, a cui la scrittura
concorre come può, con i suoi limiti oggettivi, facendo leva soprattutto
sulla capacità della lingua di astrazione, di simbolizzazione, di
"smaterializzazione" del concreto e viceversa di concretizzazione di quelle
"pieghe immateriali" in parole. Un approccio creativo che ha una sua
indubbia forza, perché non ha niente di crepuscolare o remissivo, è
piuttosto dettato - mi pare - dalla personale convinzione di Danilo che il
poetico, come un pneuma, risieda in insospettate insenature, il cui
rinvenimento è sostanzialmente un "dono"; e che quello che si riesce ad
afferrare della realtà è quel che si è, o almeno è quello che si è
come uomini/artisti. Il risultato è insieme rarefatto e affilato, con
l'eccezione forse di una sezione che sento in qualche misura "diversa"
dalla natura generale della raccolta. Alludo a Offertorio speciale (nove bizzarrie impoetiche) nella quale
Mandolini più che lo sguardo appunta il dito contro certi fenomeni
consumistici, fa una critica socio/politica del contemporaneo e di certe
sue bizzarrie, temi difficili da trasferire (come spesso in una poesia
"civile") dalla loro (dichiarata) impoeticità ai piani più alti che la
scrittura di Danilo frequenta. Un aspetto tuttavia marginale rispetto al
livello qualitativo ed estetico complessivo di questa raccolta. (g. cerrai)
Riletture estive. Alfredo Giuliani, padre fondatore e successivo antologista/curatore del Gruppo 63 e delle sue memorie, curatore de I novissimi, poeta per il quale la sperimentazione non riguardava tanto il significante o l'oggetto/lingua quanto le trappole anche ironiche che la lingua è capace di tendere al suo utente, e alle sue strutture formali destinatarie necessariamente di messa in discussione, di svuotamento e ripopolamento di nuovi e diversi significati, come è evidente leggendo i suoi versi. Nei quali vi è una oscura chiarezza, una chiara sintassi in cui precipitano, colmandola, perturbanti diverse prospettive sul "poetico", su che cosa significhi fare poesia (o teatro, come il suo amato Jarry) e che cosa vi possa confluire a pieno titolo, senza essere pervasi, come ha notato qualcuno, dal demone dello sperimentalismo. I testi sono tratti da "Versi e nonversi", Feltrinelli, collana Impronte, 1986
da Povera Juliet e altre poesie (1952-1966)
Per la festa dei bambini allo zoo
È il più bel giorno di un burbero aprile che ha portato gelide piogge sotto i cappotti smunti e agli alberi capitozzati ha dato un sadico sfondo invernale.
Per la festa dei bambini allo zoo c'erano tante automobili nel piazzale, era venuto il vento di primavera con tutto lo sciopero dei trasporti, c'erano guardie inflessibili ai divieti di sosta e ai cani sciolti.
Per la festa han fatto pagare i bambini e quadruplicato il prezzo. Le solite foche avide e giocose le solite scimmie i soliti elefanti e guanachi il solito leone sonnolento sulle prode di cartone e tanti fotografi dilettanti.
Il Sindaco non c'era. I burattini e il resto dello spettacolo non fecero né ridere né piangere, sentimmo soltanto rotolare ancora un po' la pietra della stupidità volgare. Non passarono aeroplani sopra la nostra testa, gli orsi non dettero il ballo. Non ci fu nulla di gaio e di vitale. Noi adulti conosciamo questa morte coloniale. Il Sindaco, bambini, no.
Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018
Avevo già cominciato a parlare brevemente di questo libro, o almeno di ciò
che sarebbe diventato, quando Mugnaini mi mandò alcuni inediti che di
questa raccolta avrebbero dovuto far parte (v.
QUI
). Il titolo era in pratica definitivo, ed in stampa è stato confermato;
mentre solo cinque delle quattordici poesie che avevo letto hanno trovato
la loro collocazione definitiva. Non è più tempo di farne un discorso
filologico, nell'era del digitale, della videoscrittura, di varianti
disperse in qualche hard disk, ma qualcosa vorrà dire di certo. Quanto meno
della cura e della disciplina con cui Ivano tratta la sua materia poetica,
e con essa il discorso che vuole portare avanti. E di quanto sia fedele
alla sua idea di fare poesia che tende innanzitutto a stabilire una
continuità di stile e di tonalità che è parte integrante di quanto intende
comunicare, in altre parole del suo "carattere", anzi - meglio - del
carattere persuasivo della sua scrittura. Riguardo al quale
confermo quanto scrissi riguardo sia a quanto avevo letto degli inediti sia
al suo libro del 2010, Il tempo salvato, (v.
QUI
). Che cioè consiste, il suo convincere placidamente, non solo nel trovare
la parola ancora serena, come ricorda Ivan Fedeli nella
postfazione, ovvero la continua ricerca di un livello comunicativo "medio"
(ma non mediocre) con poco da parafrasare e quindi confortante per il
lettore; ma anche nel riportare il suo mondo complessamente semplice
all'interno di una cerchia per così dire "domestica", e quindi comune
all'uomo, e perciò capace di creare un genius loci, un ambiente
quasi esorcizzante il mondo stesso. Che è semplice e complesso nello stesso
tempo, come si diceva, fatto di quella creta indocile dell'esistere che Ivano tenta di plasmare ad arte,
in sé complessa, ma che si manifesta per fenomeni, oggetti, evenienze in sé
semplici, linguisticamente decifrabili per quanto possibile, e tuttavia
pregni di un'altra e diversa dimensione su cui il poeta è chiamato a
riflettere, e da cui parte in riprese che a tratti mi rammentano Montale e
altri ("Allora, felice di aver capito senza avere / compreso...", "Eppure
non tutto è perfetto, c'è un brandello..."). Riflettere e sviluppare un
pensiero pacatamente, partendo da una salda fiducia nelle scrittura e nelle
radici anche culturali, stilistiche, robustamente novecentesche di essa
(*); è questo il registro principale di Mugnaini, una osservazione anche
dolorosa ma senza drammi (niente di esistenzialista) a cui il poeta
fornisce una trama dialettica nella quale gli accadimenti, i sentimenti, lo
scambio con la natura, la ricerca delle affettività trovano una
giustificazione di senso, non solo loro ma anche di quel esserci
dell'uomo. A questo si aggiunge un sentimento del tempo, generalmente
inteso, quel tempo che già avevo chiamato "il non domesticabile per
eccellenza", il tempo lineare in cui ogni momento, trascorrendo, diventa
subito memoria e quindi identità del vissuto. Mugnaini è poeta che parla
molto del tempo e - in un certo senso - fuori dal tempo si pone, in quelle
parcelle di tempo "salvato" - che poi è la poesia stessa al suo meglio -
che gli assicurano, come avevo scritto, "un'enclave psicologica e di
ethos". Nella quale il mondo si affaccia ed è nello stesso tempo escluso, o
almeno tenuto alla distanza, o forse non combattuto perché inutile farlo,
perché "è muto l'alfabeto del mondo", perché tanto le cose che contano, ci
dice Ivano, sono veramente poche ed essenziali, come ad esempio l'amore di
cui scrive pur sapendo che "scrivere d'amore non è più possibile, non ora,
/ non qui" se son si affronta, di questo tempo/mondo, "il niente (...) che
lasciamo trionfare, becero, sguaiato", e magari "la salvezza è nel riso
rubato alla ragione", il mondo è esorcizzabile "lasciando che il sole /
entri negli occhi e nella mente a petto nudo". C'è in Ivano spesso un
richiamo a puri elementi naturali che lo riconnettono con la naturalità
della vita, c'è un elemento spirituale, come avevo già detto, una pietas anche autoriferita che tende a superare, poeticamente,
anche inevitabili contraddizioni, ad esempio tra il mondo muto e il mondo
decifrabile che parla attraverso sprazzi di sole, visioni di donne, colori
, incontri, oggetti o "cose" tuttavia non inanimati, che sono lì per
"qualcosa". In molti sensi la realtà di Ivano è tutt'altro che complessa, e
se c'è un dolore alla fine è quello basico, fondamentale e quindi
"semplice" ma insidioso del pavesiano mestiere di vivere. Contro il quale
Mugnaini non grida, ma sul quale medita, non escludendo niente in verità di
quello che è concesso osservare, e quindi vivere con in fondo una certa
gratitudine, come scrissi, verso la plastica indocilità di quella creta. (g. cerrai)
(*) Cultura non esibita, con quella certa timidezza che, conoscendolo, gli
somiglia ma non lo condiziona. Un indizio: la mancanza di note al testo,
pur essendo diversi i richiami. Una specie di ritrosia a mostrare cultura
(ad es. un insospettato, insolito, Alfredo Giuliani dei Versi e non versi in Un'altra siepe di spine)
Giuseppe Samperi - L'ora mora del giorno - Edizioni Novecento, 2018 (edizioninovecento.it)
E' uscito in questi giorni l'ultimo libro dell'amico Giuseppe Samperi, di cui ho scritto la prefazione che pubblico qui. Trovate altri scritti di Samperi QUIe QUI.
LA MISURA DI UNA LUCE MERIDIANA E LEGGERA
Conosco Giuseppe da un po', anche se da lontano, come avviene in questi tempi digitali. Mi piace leggerlo, ne ho scritto altre volte. Mi pare di conoscere le sue inquietudini, il suo bisogno di scrivere, di fare poesia, un'arte - non è il solo a pensarlo - necessaria e inutile. Credo che possiamo considerare quest'ultimo libro di Giuseppe Samperi come un compendio. un tirare le somme, ce ne sono indizi. Compendio di vita e di scrittura, entrambi terreni di una ricerca esistenziale della quale la prima è stata ed è materia, la seconda metafora e strumento, come il negro sèmen dell'Indovinello Veronese. Ricerca insoddisfatta, come sempre, tanto che la vita sembra a volte osservata alla lontana, come dalla porta di casa che dà su una via assolata, mentre la scrittura è perennemente a rischio di essere dismessa, o licenziata, come un aratro non affilato a sufficienza che finiremo per lasciare arrugginire. Nella poesia di Giuseppe le due cose sono sempre andate di pari passo, c'è sempre stato un occhio che osserva contemporaneamente le parole che si vanno tracciando sulla carta e la penna che le traccia, l'oggetto e lo strumento, basta vedere a titolo di esempio tutto l' “inchiostro” che viene evocato in parola e sostanza in un altro suo libro, Il miliardesimo maratoneta, 2011 (“Regalo questo inchiostro, / scolatura che rimane / dagli accurati strappi”). E gli strappi, inutile dirlo, sono dolorosi. Proviene da questi versi, in effetti, l'immagine di un uomo che contempla un flusso, non necessariamente prendendovi parte attiva, a volte anzi come un Diogene che attende immobile una epifania, pur nel convincimento che qualsiasi rivelazione è giusto dietro l'angolo, foss'anche quella del nulla (ma, chiosa Giuseppe, “Quale nulla? Eppure un dio / lo aspettiamo ancora. Io l’aspetto”). Osserva e annota, dalla posizione un po' decentrata di chi è certo che tutto si possa manifestare anche in universi microscopici che semplicemente accadono, e se ne possa trarre qualche insegnamento universale, ancorché dubitoso. Sembrerebbe la posizione del flaneur, per dirla con Baudelaire, se non fosse che in questi versi si percepisce, anche quando non vi è descritta, un'aria insulare, niente affatto urbana, di una insularità certo piena di luce (una luce di cui non ci si sfama mai, dice l'autore) ma che è propria dell'anima (“isolano isolandomi d'inchiostro”, dice - ancora - altrove). E mi pare ci sia, in aggiunta, la consapevolezza dei limiti del luogo in cui fortuitamente si vive, ma anche delle sue risorse, dei legami e delle radici (di cui il ricorso a inserti dialettali è testimonianza), di un certo genius loci a cui Giuseppe appare essere devoto. C'è anche, mi pare di poterlo dire, un che di premoderno, quindi, che non è una questione stilistica (anzi la versificazione qui è contemporanea), ma riguarda semmai proprio questo sguardo da una parte critico sul presente, dall'altra rivolto all'indietro, ad una appartenenza, ad una identità inalienabile, come un ponte tra vecchio e nuovo, tra i vivi e i morti che Giuseppe vuole presidiare, anche quando appare esserne oppresso. E anche ogni volta che si accende una voglia di fuga (“Persiste / la bramosia di un altrove, / l’alcova della gioventù istupidita”), forte quanto frustrata così tanto da ritorcersi spesso nella tentazione di smettere di scrivere, nella disillusione, espressa in diversi punti, che sia “vano. Assolutamente vano / questo scrivere”. Da un'altra prospettiva c'è in questi versi, anche in ragione di quel che s'è detto, qualcosa di domestico (e di familiare per chi legge). Sia chiaro che non c'è niente di riduttivo in questa connotazione (basti pensare a quanto di domestico c'è nella grande poesia latina), è anzi un carattere proprio della poesia di Giuseppe, di un modo tutto suo di cogliere liricità e senso nelle più diverse situazioni. una poesia “domestica”, che esordisce, proprio nella prima poesia, “dal sofà di casa” dove giungono dall'esterno segni e suoni che “sfidano il dio che non parla”, o da altri punti di osservazione (o forse di sentinella) come il caffè abituale, “un’isola magnifica / che mi coccola tra i morti” mentre scorrono in sottofondo notizie di guerra dall'Oriente, il corpo disteso sulla sdraio sotto le nuvole. Niente di idilliaco tuttavia, c'è sempre sullo sfondo qualcosa di allarmato, si tratta di un ambiente tutt'altro che consolante, che sembra un prodromo di quella “balena che ci ingurgita tutti”, compreso il Giona-poeta che qui scrive ma che sembra serbare poche speranze di essere rigettato alla fine, come il profeta, su qualche lido. Ecco, a differenza di altri poeti, in questi versi non c'è un sentimento tragico o ossessivo dello scorrere del tempo, stante che il destino ineluttabile è già nelle cose, in ogni “istante che t'arriva vivido al cuore”. E del resto “Se la giornata è amabile – di buon colorito / il sole, veste fresca l’aria – / stanne certo che la fine è un bluff ”. Inutile misurare il tempo, insomma, a queste latitudini, dove il tempo appartiene alla natura, e si misura semmai con la natura delle cose, come con quei sarmenti che “Divintaru vigna pampinusa / rracina e mustu e vinu / e ppoi lignami di furnu” (in Sarmenti scattiati, 1999). La misura è invece il peso. Non l'usurato generico peso esistenziale, ma quello delle cose e soprattutto delle azioni, o peggio ancora delle non azioni, il peso degli effetti che ne derivano. Non è un caso, credo, che Giuseppe titoli due delle sezioni del libro “sottopeso” e “sovrappeso” , due termini in apparenza mercantili. La vita come prodotto di una serie di atti, qualcosa che si dà o si riceve in eccesso o in difetto, e certamente si paga. E anche un peso reale, un pesocorpo, una soma che si riflette sull'animo (“ci alziamo ogni mattina / con tutta la carne che possiamo”), e insieme un “corpo in libera caduta, / solo quel corpo libero / che salva”. E in qualche modo occorre cadere, poiché “In sovrappeso / è mendicante / chi non aggredisce il fondo”. una caduta leggera, della leggerezza che è tratto saliente di molti di questi versi. Sembrerebbero elucubrazioni dalla provincia, da una estrema periferia percossa da una luce meridiana. Ma tutto il mondo è paese, come suol dirsi. Ecco che l'ultima sezione rappresenta come una precipitazione di questo libro, l'irruzione di eventi più drammatici in questo orizzonte placidamente inquieto. Il peso di cui abbiamo parlato qui si fa piombo. Avevo già letto “Noncuranza” e l'avevo pubblicata sul blog “Imperfetta ellisse” con uno pseudonimo. Ora Samperi se ne fa carico pienamente come autore, assume su di sé il peso di una materia tragica e insieme impietosa affrontando, come scrissi, un tema penoso con parole crude, dicendo cose che forse si pensano, ammettiamolo, ma che non si dicono. Il tema è quello della madre, della sua vecchiezza, dello sfacelo del corpo e delle pene che comporta, della consunzione anche dell'identità, che vale qui (e chi ne ha fatto esperienza lo sa) come messa in crisi degli affetti, dell'etica a cui si è educati, delle risposte da dare, della responsabilità. E che vale nel contempo come realizzazione di una inevitabile inanità, come contemplazione della morte, una visione da cui si vorrebbe fuggire. La “noncuranza”, io credo, va intesa non unicamente come mancanza di cura, ma anche come rassegnata constatazione dell'inutilità di quella cura, quasi un accanimento per cui, dice Samperi, “meglio morire, vecchietta mia stanca, / meglio la morte alla noncuranza”. Questi due versi sono proprio all'inizio del testo che apre la sezione, e sono di certo forti, eppure vale la pena di osservare l'andamento a filastrocca di quella poesia - che non si ripete nelle successive - la musica che ne proviene e l'affettività dibattuta e contrastata che trasporta, come una ninnananna che accompagni un lento chiudersi degli occhi. Mi pare di intravedere insomma un compianto, che i testi successivi, pur nella loro cruda liricità, non riescono né vogliono nascondere. Un apice emotivo che si riscontra, al polo opposto, solo quando Giuseppe in una bellissima poesia parla alla figlia, che dovrebbe educare al mistero del “Rebus insolvente” che è la vita, senza illusioni, senza dare a bere “rosari e droghe mistiche”, senza nascondere l’ineluttabile, uguale per tutti, l’assoluta mancanza di senso, di “soluzioni” dell’esistenza. Una visione laica, forse troppo laica per qualche lettore. Ma ha il grosso pregio di annientare qualsiasi tono elegiaco, ogni scivolamento crepuscolare. In questi versi non c'è nessuna preghiera sottesa, quindi nessun medium, nessuna mediazione, e il dio nominato è sempre un dio minuscolo, come è evidente (mentre, si noti, il Rebus è maiuscolo). C'è sempre in questi versi il tono di chi dice quel che deve dire, la trasparenza franca di quel trobar leu che Giuseppe cita altrove e che mi pare persegua sempre, perfino quando ricorre, in tutto o in parte, alla sua bella lingua siciliana, traforata come un merletto. La franchezza dello scettico che non ha bisogno né vuole ricorrere a un linguaggio ellittico, e che trova nella naturalezza della sua amata-odiata scrittura la sua migliore espressione. (g. cerrai)
Chi è Alfonsina Storni? Può essere solo qualcuno che
incontri per caso, in una biblioteca, come è successo a me. Una (per me)
sconosciuta poetessa argentina, nata però nel Canton Ticino nel 1892, morta
suicida a Buenos Aires nel 1938 perché ammalata di cancro, ragazza madre,
donna sempre indipendente in quei non facili primi anni del Novecento. In
realtà Alfonsina Storni è una figura centrale nella poesia latino americana
non solo femminile, dove è in compagnia di nomi come Gabriela Mistral e
Juana de Ibarbourou. E contemporaneamente è figura esemplare della lotta
delle donne per la propria emancipazione, non solo nella chiusa e
tradizionalista società argentina dell'epoca.
In quegli anni venti e trenta bonaerensi pieni di fermenti artistici (si
pensi a Borges, a Victoria Ocampo, alla rivista Sur) Alfonsina
Storni ebbe anche un notevole successo, soprattutto in virtù di uno stile
diretto, forse anche un po' datato e comunque lontano dal modernismo che si
stava affermando, ma capace di trasmettere emozioni vive, e di tematiche
che potremmo definire prefemministe e orgogliosamente libertarie, in cui
hanno spazio rilevante amore e eros, connotati però da una visione di essi
non subalterna, non viziata da una collocazione tradizionale e secondaria
della donna, non segnata da lirismi o romanticismi superflui, ma densamente
emozionale e insieme consapevole. Una poesia a testa alta, vissuta, che per
diversi aspetti mi ricorda la poesia confessionale americana di Sexton e
Plath, ma percorsa da un sentimento di orgogliosa solitudine, in cui gli
uomini non entrano a loro piacimento ma di volta in volta vengono accolti o
respinti senza rimpianti o deliqui.
Poemas de amor
è una raccolta abbastanza singolare per l'epoca in cui fu pubblicata, siamo
nel 1926, composta unicamente di prose poetiche, di testi brevi e intensi
nei quali l'amore viene cantato come da una certa distanza, con la
malinconia che l'argomento richiede, con il contrasto piacere/dolore che
rimanda alle espressioni più alte del tango porteño, ma senza lamentazioni,
anzi con un certo senso di superiorità morale, di indipendenza nelle
relazioni, di conscia maturità dei sentimenti (esemplare da questo punto di
vista è la poesia che aggiungo in calce, Inganno, tratta dalla
raccolta Ocra, del 1925) rispetto all'uomo.
Come scrive Beatriz Sarlo, l'autrice "pur ricorrendo alla
retorica tardo-romantica, in definitiva ne contraddice l'ideologia
esplicita. Alfonsina lavora con gli espedienti poetici che conosce, ma
deformandone i contenuti ideologici". E aggiunge: "Alfonsina: una donna
sola/una poetessa di successo. Questa combinazione, difficile nella Buenos
Aires del secondo decennio del Novecento, si fa largo nel mondo letterario
e nel pubblico. Ciò che si riconosce e si legge nella poesia di Alfonsina è
la volontà di contraddire i destini sociali, esercitata in decisioni
fondamentali della sua propria vita: essere una donna libera che a diciotto
anni inizia una relazione con un uomo sposato, senza tramutarla in
un'intollerabile situazione di licenziosità che avrebbe segnato per sempre
la sua vita; decidere di avere un figlio senza padre, lavorare per
mantenerlo in una grande città che non conosce, lottando per avvicinarsi a
forme professionali del mestiere letterario; brandire questa serie di
decisioni come un valore che la singolarizza ma che, al tempo stesso, può
esemplarmente funzionare per altre donne; imporsi, con tutti questi
obblighi morali e materiali, in uno spazio intellettuale dominato da
uomini; farsi amica di costoro senza rinunciare alla propria indipendenza e
alla libertà delle proprie scelte morali; scrivere una poesia chiaramente
autobiografica e, di conseguenza, render pubbliche vicissitudini, gioie e
sconfitte di relazioni considerate irregolari.
Alfonsina realizza tutto questo. Il suo impulso fondamentale è il rifiuto
dell'ipocrisia e del discorso doppio come forma di relazione fra uomo e
donna, con speciale attenzione alle questioni morali essenziali. Nella
forma della sua poesia non riesce a rompere con le convenzioni letterarie,
nemmeno con quelle più arcaiche rispetto al momento in cui scrive. Tuttavia
Alfonsina rompe quando sceglie i suoi temi poetici e vi imprime una
direzione apertamente autobiografica che non dissimula nemmeno ai suoi
inizi. In questa costosa rottura ideologica si spiegano tutte le forze che
investe nella sua poesia, per lo meno fino a metà degli anni trenta.
Alfonsina si procura un enorme consenso e, senza chinarsi a una morale
convenzionale, schiude la possibilità sociale a diverse identità femminili.
Contemporaneamente, lavorando con una retorica facile e conosciuta, fa in
modo che questa morale diversa sia letta da un pubblico molto più ampio di
quello dedito alle innovazioni avanguardistiche, da un pubblico che, in
verità, oltrepassa i confini dell'ambito intellettuale. Non opera una
duplice rottura, formale e ideologica, bensì una rottura semplice ma
immediatamente comunicabile, esemplare e piena di successo".