Diaforia si cimenta ancora, dopo Agnetti, Toti e diversi altri, in una operazione di archeologia culturale. Detta così sembra una cosa abbastanza polverosa, ma si tratta di un appassionato recupero, anche esteticamente rilevante, di elementi preziosi, dispersi per qualche ragione (editoriale, temporale, torrentizia, carsica), ma che portano in sé, come ogni reperto che si rispetti, non una Storia museale ma un'immagine e una evocazione, un suggerimento e una suggestione. Ovvero - in ultima analisi - qualcosa che rizomatizzi (sì, proprio in quel senso lì) in chi, magari, non ha scritto ma deve ancora scrivere. Perciò non leggetelo, se temete che stimoli in voi qualcosa di brillantemente imprevisto. Questa volta si tratta di Luigi Ballerini e del suo "eccetera. E", opera prima del nostro (e su questo suo essere "prima" ci sarebbe già da parlare, in relazione al suo "dopo"), risalente come pubblicazione al 1972, come ricorda Giulia Niccolai in una nota finale al libro (ce n'è un'altra, ugualmente interessante, scritta da Remo Bodei, mentre il bel saggio introduttivo è di Cecilia Bello Minciacchi).
«Può agire come un rimedio, eccetera. E, può funzionare come un antidoto - ANTIPAURA è il suo testo d'ingresso — ai veleni della convenzione linguistica, degli abusi e delle catacresi e, al tempo stesso, può agire come antidoto al pharmakon che la neoavanguardia aveva proposto per quegli stessi veleni, un preparato salvifico e tossico insieme, secondo la duplicità di senso del termine greco originario: "medicina" e "pozione letale". Questo radicale testo di Ballerini prende le distanze dai "linguaggi novissimi" che pure ha assorbito e cui si riferisce: il lettore che alle Poesie per gli anni '60 si era un po' assuefatto, in eccetera.E non ha potuto ritrovare, in tutta pace, paesaggi lunari, scolii e simboli junghiani del laborintico esordio sanguinetiano. Non vi ha ritrovato neppure, allo stesso modo dominanti, il ritmo variabile e percussivo e la narratività del poemetto di Pagliarani, né la Milano della dattilografa diciassettenne, con le rotaie che si torcono come bisce, le «polveri idriz elettriche» e il cielo di lamiera. E neppure l'inesorabilità combinatoria che raffreddava (mai troppo, per fortuna) i montaggi di Balestrini, né la crudele ritualità di Porta, l'ossessività letterale con cui sigillava gesti in catene versali impietose. Vi ha forse potuto percepire la sorveglianza di un'acuta intelligenza critica analoga a quella che sosteneva l'esattissima poesia di Giuliani. Ma la novissima aria di famiglia che sembra aleggiarvi è oramai uno strumento (e quanto affilato), un'autointerrogazione e uno stratagemma. (...) È un libro, eccetera. E, che ama visceralmente la letteratura e al tempo stesso, nondimeno, è capace di prenderne salutari distanze. Di letteratura è nutrito, sostanziato, diremmo, nella gran parte delle sue minime costituenti, anche nelle sue sillabe, ma alla letteratura sa guardare con disincanto. Ciò provoca, nel lettore, un'attrazione profonda, e contemporaneamente un sospetto, un appressamento e una repulsione. Impossibile abbandonarsi, crogiolarsi a contemplare il castone - «(com'adamas)», appunto - perché quella gemma non basta: unica com'è, innesca un desiderio e quel desiderio finisce per avvilire. Raramente Ballerini cede alla ripetizione spandendo in versi poco distanti tra loro cellule testuali della medesima provenienza. (...) Il suo meccanismo è radicale, e della lingua (e della poesia) conferma, anzi esalta la valenza di corpo, di fisicità manipolabile, scomponibile. Tra le sezioni più interessanti e più dense del libro, peraltro, sono indubbiamente quelle focalizzate sul corpo (e corpo-linguaggio) - presentissimo in tutta l'opera, si pensi all'ampiezza dello spettro lessicale anatomico e medico - che con la sua parcellizzazione crea un'orditura fitta, a tratti ossessiva. Nevralgica quanto il rapporto con la tradizione e con le avanguardie. Con eccetera. E Ballerini intraprende una ricerca poetica diversa dai testi precedenti - si vedano le poesie in Opera aperta (1966) -, compie uno scarto. Il senso e l'importanza del libro risiedono proprio nello scarto inteso in duplice significato, quello del "residuo" della "spazzatura", appunto, degli avanzi - e quello della "deviazione", dello "spostamento brusco e repentino". » (dall'introduzione di Cecilia Bello Minciacchi)
Alcuni testi tratti dalla bella pubblicazione curata e edita dal gruppo di [dia°foria nel 2015 (v. QUI), un libro bifronte come Giano, con due autori ma completamente dedicato a Nanni Balestrini. Si tratta (il recto) di " Nanni Balestrini - Contromano", otto testi, di cui uno eponimo, e sei opere visuali, più (il verso) "Fausto Curi - Un’ordinata progettazione del disordine", un interessante saggio dello studioso delle avanguardie italiane sul lavoro di Balestrini, il cui titolo - almeno a me vecchio compulsatore di Gadda - rimanda alla "disarmonia prestabilita" di roscioniana memoria (e credo che l'accostamento sia onorevole, e forse non del tutto peregrino). Vale la pena ricordare che nel 2016, sempre per [dia°foria, Fausto Curi ha pubblicato una raccolta di saggi su Balestrini, compreso il succitato, dal titolo "Nanni Balestrini e la poesia come questione" (v. QUI).
Dice Curi nel suo saggio: "Nella letteratura italiana d'oggi, presa, con qualche eccezione, fra ordine banale e disordine incolto, Balestrini è uno dei pochi che hanno capito che il nuovo nasce da un'ordinata progettazione del disordine (...). Per Balestrini comporre un testo poetico non significa soddisfare un'esigenza espressiva personale, soggettiva. Significa costruire un pezzo di realtà. Ciò non implica, né d'altro canto potrebbe, una totale esclusione del soggetto dall'operazione poetica. Tanto più che questa si avvale sempre di strutture verbali prelevate da altri testi, per lo più giornalistici, e consente quindi spesso un accorto gioco di allusioni e di riferimenti che, per essere indiretti, non sono per questo meno significativi. Che Balestrini parli con parole altrui è diventato quasi un luogo comune delle cronache. Ci si dimentica di solito di precisare che la straordinaria abilità e la non meno straordinaria efficacia con cui l'autore compie le sue scelte ed esegue i prelievi verbali e la costruzione di nuovi testi conferisce al discorso poetico una sorta di impersonalità linguistica che è efficace soprattutto nella misura in cui talvolta assomiglia alla asseverazione indiscutibile di certe epigrafi o di certi detti memorabili. Con questo però di particolare, che alla serietà dell'operazione l'autore non manca mai di congiungere un intento ludico, così da creare un singolare contrasto e da attenuare ma non da spegnere eventuali effetti di solennità, o da provocare un imprevedibile grottesco o un'ironia del tutto oggettiva: "che un'altra storia è possibile", "si propone di migliorare il mondo", "trentanni di storia italiana tagliati a pezzi / posò la gallina per terra", "l'abiura. Spesso preghiamo che Dio ci dia una mano / (un cilindro di carta d'amaretto, dateci fuoco in cima...)", "Un uccello / bianco ogni tanto lacera aquiloni nel sole. TEOREMA: / Francesco Petrarca era forse infelice di non avere il caffè?". Balestrini, insomma, parla di sé e di molte altre cose usando non memorabili parole altrui. Ma quelle parole diventano incontestabilmente sue e acquistano una dissacrata memorabilità per il nuovo assetto che egli conferisce loro. Si noti: quando non è essa stessa il senso, è spesso la struttura a decidere del senso. (...) Quelli che convenzionalmente chiamiamo versi sono delle cellule verbali ossia dei sintagmi che quasi certamente Balestrini preleva dai testi di altri autori, testi non poetici ma giornalistici o scientifici. Ciò non significa che egli si precluda ogni intervento, sia pur minimo, e che pertanto un sintagma - al di là di quanto di soggettivo è già presente nella scelta e nel prelievo - non possa essere modificato a piacere dal nuovo autore. Il punto essenziale è quindi in quale modo un sintagma, o se si preferisce un verso, viene congiunto con il sintagma o verso successivo. Senza affatto escludere possibili errori di interpretazione dell'esegeta, Balestrini sembra procedere alternando due diversi modi: 1) per consecutività o per similarità, fornitegli dal prototesto, o inventate da lui stesso; 2) per contrasto o per alterità, ossia per assenza di connessioni proprie della logica comune". Insomma, continua Curi, "la realtà com'è non piace a Balestrini. Ma non gli piacciono nemmeno i progetti variamente elaborati per la realtà come potrebbe essere, non lo soddisfano, non lo persuadono, perché, nonostante la buona volontà di coloro che li hanno disegnati, corrispondono a idee e immagini della realtà com'è. Come non è un naturalista, così Balestrini non è un utopista. Come non penserebbe mai a riprodurre la realtà com'è, così non lo sollecita fantasticare, immaginare mondi possibili. È un realista deluso, inquieto, eretico, e disperato. Ma è un realista. E un realista deluso dalla realtà e che si rifiuta di rifugiarsi nella fantasia non ha altre risorse che usare la stessa realtà per costruire una realtà diversa. Costruire, si badi, edificare, dare forma, non immaginare, se non per quel tanto di immaginazione che è necessario per dare forma a qualunque oggetto. Quello che cerca Balestrini non lo immagina, lo costruisce".
Mercoledì scorso è uscito su Floema, costola del progetto [dia*foria, un ebook di mie traduzioni da Ghérasim Luca, corredate da una nota introduttiva. L'ebook, scaricabile gratuitamente, è accompagnato da un articolo di presentazione, da video e da una performance in tema del compositore e cantante Stefano Luigi Mangia. Ringrazio Daniele Poletti e tutto l'equipaggio di [dia*foria per questa interessante collaborazione.
Appunti per una lettura di Ghérasim Luca
di Giacomo Cerrai
Ghérasim Luca non è solo una sfida
traduttiva e interpretativa, da cui non di rado si esce sconfitti o
insoddisfatti, ma rappresenta soprattutto una straordinaria esperienza
di lettura. Chi vi si accosta deve per prima cosa
accantonare l’idea, del tutto presuntuosa, di colmare una distanza con
l’autore attraverso la comunicazione. Luca aveva molto da dire, ma
sospetto che farsi capire fosse l’ultima delle sue preoccupazioni.
Doveva piuttosto agire per scostamenti e condensazioni, il suo scopo era
andare a vedere cosa ci fosse dietro la maschera – intesa anche in
senso tragico - della lingua, se vi fosse una sorgente non filtrata
della realtà. Doveva scoprire (denudare) il corpo della
lingua, rappresentarne la materia erotica, restaurarne la sonorità
pre-verbale e pre-nominale, doveva quindi (anche) sfuggire a
“l’incurabile ritardo delle parole” (C. Pelieu, ma ne aveva già parlato
Breton nel Manifeste du surréalisme del 1924), ovvero superare il gap tra formulazione
del pensiero ed espressione. Progetto quanto mai ambizioso, se si pensa
che è stato esperito per tutta la vita lavorando su una lingua “altra”,
non sua, alloctona, anche se fin da subito padroneggiata proprio nella
sua funzione più ardua, quella poetica. Un atto di coraggio, senza
dubbio, e una scelta così radicalmente diversa ad esempio da quella
dell’altro grande esule, il suo amico Paul Celan, per il quale il
francese rimase quasi sempre una lingua d’uso, poichè per lui
abbandonare la lingua della madre (e degli aguzzini di lei) avrebbe
equivalso, come sappiamo, ad abbandonare di nuovo la madre stessa. (la lettura prosegueQUI)
(commenti e trackback a questa notizia sono bloccati)
Totilogia - Involatura sulla poesia di Gianni Toti - [Dia*foria / Edizioni Cinquemarzo 2014
Dopo molti libri di più o meno esordienti alla
ricerca spesso vana di una originalità difficile da afferrare, è bello sfogliare
questo di (e su) Gianni Toti, dovuto alla passione di un gruppetto che
anima la rivista/sito [Dia*foria, in collaborazione con la Casa Totiana
presieduta da Pia Abelli Toti. Libro in cui l'originalità di Toti
emerge come talento e insieme risultato di una ricerca per sua stessa
natura sempre insoddisfatta (la ricerca è di per sé "incompiuta") ma
costantemente perseguita. E risultato di un lavoro e di una maturazione
intellettuale (voglio dire, l'originalità non è una cosa a cui si può
"puntare", come pretenderebbe qualcuno).
Probabilmente non è facile farsi un'idea
esauriente - solo tramite questo libro - della personalità complessa di
Gianni Toti, del suo multiforme ingegno, della sua curiosità artistica
che spaziava attraverso le forme o le inventava, ricercando sempre.
Basta dare una scorsa alla sua biblio-film-videografia (v. QUI)
per rendersene conto. Ex partigiano ("coSmunista", come si definì in
seguito), amico di molti importanti intellettuali del tempo da Pasolini a
Cortàzar, giornalista per moltissimi anni, romanziere, saggista, poeta,
cineasta, autore teatrale e televisivo e, dagli anno '80, artista poetronico (altra
sua definizione), ovvero ideatore e creatore di videoarte a livello
internazionale, e comunque in ultima e definitiva sintesi, come ha
scritto qualcuno, semplicemente poeta, poeta che amava
sperimentare. Tuttavia questo libro è importante, non solo perchè è la
prima raccolta italiana di lavori totiani. Questo volume nasce
dall'esigenza di mettere insieme una buona antologia delle opere di Toti
(purtroppo, per ovvie ragioni, solo quelle su carta) e una serie di
interventi creativi e critici che illuminano Toti o che da Toti
tributariamente sono irraggiati. L'interesse sta anche qui, nell'idea di
fecondità artistica che si riverbera dalla prima alla seconda parte,
delle possibilità non remote che indica di lavorare su una diversa tradizione
(absit iniuria verbis) su cui costruire dinamicamente. E anche nel
fatto che non storicizza proprio un bel niente (come talvolta è difetto
delle antologie), ma anzi vuole essere una porta lasciata aperta. Come
ogni buon lavoro, non deve essere esaustivo. Deve semmai
accendere una curiosità da soddisfare magari investigando ulteriormente,
della dimensione - pure storica, pure politica, certo - della
produzione artistica di quei decenni che scorreva parallelamente, senza
mai incontrarlo, al cosiddetto mainstream, anche al di là della
singola figura di Toti. Che, dal mio punto di vista, è molto
interessante anche come raro punto di contatto e fusione di forme che
comunemente vivono nel disinteresse dell'una per l'altra, anche a
livello cognitivo o semplicemente culturale, in un sistema oppositivo
che vede solitamente distanti poesia e prosa, letteratura e arti
figurative, media fisici ed elettronici. Questa fusione permette, molto
più di quanto avvenga in altri autori, di scorgere una visione del mondo
e del tempo, un panorama di quegli anni attraversati da molti fermenti,
sia politici che culturali, spesso purtroppo decaduti.
Ma il lavoro fondamentale di Toti, al di là delle
forme, qualsiasi forma, è sul linguaggio, inteso nel senso più ampio del
termine, "in una militanza che pone l'accento sulle giunture del segno,
tanto che si potrebbe parlare di realismo intraverbale finalizzato a
disvelare la rete delle apparenze, le miriadi di circuitazioni da cui il
velo di Maya è pervaso", come afferma Stefano Guglielmin in una nota
contenuta nella seconda parte del libro. Anche utilizzando marchingegni in realtà antichissimi come ossimori, paradossi, metasememi, tutti in grado di cortocircuitare il senso canonico, quel che ci si aspetta. Analogamente nei video l'immagine è manomessa, graffiata, rovesciata, sovrapposta, sporcata, blurred, o semplicemente re-inventata. Spingendosi così nella sua opera
sempre più in là, surrealisticamente: se la realtà non è più dicibile,
anzi se si è "cancellato l'indicibile", se i vecchi arnesi non fungono
più, come dice (metaforicamente) nel testo "Necrologio per la metafora" (v. QUI),
allora "Toti ri-comincia ad inventare il linguaggio, ma questa volta
non sbaragliando e spezzettando i significati, quanto ricomponendo i
significati tramite la ri-metaforizzazione del dicibile, per via
dell'in-venzione che sola potrebbe ridarci un futuro, ossia la
temporalità della coscienza, la verbalizzazione che possa riconnetterci a
un altro o altri" (Peter Carravetta, in un'altra nota qui presente).
Una "titanica, e forse proteica, vocazione alla ricreazione" che
sembrava potenzialmente infinita. (...)
Giovedi 18 settembre prossimo, a partire dalle ore 19, e fino a Sabato 20, presso la Galleria Ostrakon, Via Pastrengo 15, Milano, si svolgerà la terza edizione di "Tu se sai dire dillo", rassegna poetica ideata da Biagio Cepollaro, dedicata a Giuliano Mesa e articolata su tre giorni di incontri, dibattiti, letture, video, intorno alla figura di Paola Febbraro, al lavoro di diffusione e conoscenza di Emilio Villa promosso da Enzo Campi e all'antologia di opere di Gianni Toti, ideata e curata da Daniele Poletti e da [Dia*foria, oltre al lavoro di e sulla critica letteraria portato avanti da "In realtà la poesia" e a letture di Cepollaro di lavori dello stesso Mesa. Il programma completo è scaricabile QUI. Ci vediamo là il 18, spero di incontrare qualche amico.
Rilancio volentieri, come feci a suo tempo con f l o e m a, (v. QUI), la notizia di un’altra iniziativa che nasce dal
gruppo, abbastanza fluido, che ruota intorno a [dia•foria (Fernando Anateti,
Pierfrancesco Biasetti, Giuseppe Calandriello,
Walter Catalano, Stefano Pocci, Daniele Poletti). Si
tratta di una nuova costola, dedicata in questo caso all’esplorazione del
contemporaneo sul versante dell’arte nelle sue forme attuali e con una
particolare attenzione per gli autori meno noti. L’intenzione dichiarata è
questa, e a me piace molto poiché da sempre (e non sono il solo) sono convinto
che la poesia debba confrontarsi con dinamiche, idee, concetti dell’arte.
Pubblico di seguito il post di apertura, da leggersi come una dichiarazione di
intenti. Qui, come nel caso di f l o e m a o altrove, il piglio è
quello deciso e un po’ baldanzoso del manifesto. Lo dico con simpatia, perché
penso che ci sia un gran bisogno di manifesti, di movimenti, di idee. Ma senza
dimenticarci che poi c’è un gran lavoro da fare. (g.c.) artriOOOps! è una nuova diramazione del
progetto culturale di [dia•foria, dedicata alle
arti contemporanee.
Nata per partenogenesi nel clima di ricerca che caratterizza il blog, deve il
suo nome al compositum tra “arte” e
“triops”, crostacei comparsi sulla terra qualche
milione di anni fa, considerati fossili viventi muniti di tre occhi. Questo
connubio inusuale suggerisce a livello onomatopeico (ooops!)
il qui e ora dell’arte: forma di espressione che continuamente si rinnova e si
adatta all’epoca e ai luoghi in cui si sviluppa, provenendo da molto lontano,
come il nostro piccolo crostaceo notostrace.
EVOLUZIONE – ALIENAZIONE – CONVOLUZIONE
L’evoluzione come trasformazione graduale¹, ma anche come svolta netta, è una caratteristica
del percorso di tutte le arti e le letterature che accumulano nel tempo
modificazioni e stratificazioni di tutti i “contemporanei” che le precedono.
Dagli albori del Paleolitico, in campo magico e religioso, con le pitture
rupestri, all’arte greca, romana e romanica, per giungere alla prospettiva
empirica di Giotto e alla sua codificazione scientifica con Piero della
Francesca, dal Rinascimento maturo fino all’arte moderna degli
impressionisti2 e passando per le avanguardie, arriviamo al
nostro “contemporaneo” attraverso lo sviluppo degli esseri (e dei concetti) da
forme primordiali (triops) a forme (e concetti)
evolute e ulteriormente perfettibili. L’arte è la somma inestinguibile di
“contemporanei”, e allo stesso tempo lo scorporo di ciò che precede. (continua a leggere QUI)
Rilancio volentieri la notizia di una iniziativa che sembra promettere bene, un nuovo sito dedicato alla poesia e alla ricerca, anzi alla
“esplorazione” della parola, obbiettivo giustamente ambizioso. Si tratta di f l o e m a, ideato e organizzato da Daniele Poletti e Pierfrancesco Biasetti. Di seguito
pubblico l’editoriale (o la poetica, se preferite):
“…l’arte e l’epos greco […] continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello
inarrivabili.”
Karl Marx
: “L’arte greca e la società moderna”
(Grundrisse, 1857-1858)
Nella società in cui viviamo, dove è più facile abbattere un albero per costruire un marciapiedi o un rondò, invece che girargli intorno, mantenendo
l’erettile architettura, f l o e m a si propone di mostrare ciò che la sega, se meglio adoperata, poteva evitare: la sezione di un tronco.
Nessuna postura pseudofuturista o rivoluzionaria, sappiamo di essere piccoli e forse minoritari, ma ciò che ci spinge a ritagliarci uno spazio nel mare
magnum della rete e della cultura nazionale e oltre è la necessità di mostrare che “si possono suonare le foglie”, e lo si può fare probabilmente anche
grazie a ciò che sta dentro il tronco. (Continua qui)
Pubblico qui una nota di Daniele Poletti come introduzione a pochi testi di Augusto Blotto, poeta magmatico, tellurico, anzi diluviale, fin troppo sconosciuto nel nostro paese. Con la prospettiva, spero, di poterci occupare quanto prima in maniera più diffusa di questo "radicale [capovolgitore] del conosciuto, dell'atteso, del normale", secondo le parole di uno dei suoi estimatori. Un poeta che mette alla frusta non solo il linguaggio e la sua capacità eidetica, ma anche il nostro comfort di lettori. (g.c.)
Per Augusto Blotto (Torino, 1933), sono stati usati ormai innumerevoli e pertinenti epiteti e aggettivazioni, da critici come Stefano Agosti, Giorgio Barberi Squarotti, Sergio Solmi, Giovanni Tesio, Sandro Montalto, etc. E, se conoscendo la persona e l'opera, la definizione più immediata e calzante è quella di "uomo di sfide e dismisure" (Giovanni Tesio), vogliamo qui introdurre, in una visione diacronica, la figura di Blotto come uno dei grandi "esclusi" della letteratura italiana. Si badi bene, nessun tono commiseratorio in questa affermazione: Blotto, a un certo punto del suo itinerario poetico, si è autoescluso dall'ufficialità della cultura; ma il resto è stato fatto dai grandi poli di aggregazione intellettuale (neoavanguardia inclusa e su tutti), che hanno proceduto su sentieri ben definiti, rispondendo a un'idea quasi preordinata di ricerca, e non rimanendo in ascolto (o avendo timore di farlo) di una certa eterodossia letteraria di cui Blotto fa parte. (Per inciso si può ricordare anche il caso di Alberto Faietti o per aspetti diversi di Lucio Saffaro e Emilio Villa). Senza timore di esagerare si potrebbe affermare che Augusto Blotto sta alla poesia come John Cage sta alla musica: c'è un prima e un dopo di loro. Senza sottrarre importanza a ciò che ci hanno lasciato Zanzotto, Cacciatore, Ruffato, Guido Ballo anche (da tornarci su), per citarne solo alcuni, ma tentando di darne un pò di più, di importanza, al Blotto innovatore e "trovatore" della lingua poetica italiana. Sì perché come ama ricordare l'autore "nella mia poesia non cerco/ricerco, trovo". La poesia di Blotto è un canto molto articolato di ciò che viene trovato sulle strade percorse in metri e chilometri. Una topografia del reale forgiata nel crogiolo di soluzioni linguistiche inusitate, inaspettate, nella gamma quasi sterminata dell'invenzione espressiva. Per forza d'urto, di fronte ai versi blottiani, saltano le convenzioni e le convinzioni, perché ci si trova di fronte a qualcosa di inaudito. La spericolatezza sintattica si lega a forme idiolettiche -sempre però riconducibili al dizionario, mai autoreferenziali- che cercano strenuamente di individuare in modo più preciso il senso del percepito; verbalizzazioni, sostantivazioni di parti recondite della lingua, ma anche dell'inconscio, creano un'amalgama musicale dodecafonica, più spesso atonale, che fa dell'opera di Blotto una delle espressioni più avanzate della ricerca (in questo caso va detto) poetica. Il contributo decisivo a questo stato della poesia è dato dalla struttura instancabilmente simultaneista, il montaggio intersecato di percezioni attraversate, che porta alle estreme conseguenze la tecnica del cut-up e della visualità della scrittura, proprio perché attuata secondo un'architettura rigorosa e post-endecasillabica. Il risultato non risente di alcun intellettualismo, l'uso frequente del registro basso e comico e di scelte lessicali "impoetiche", contribuiscono alla determinazione dei versi di Blotto come una registrazione quasi pedissequa del reale. Raymond Queneau insegna che esistono 99 modi diversi per raccontare la stessa cosa, probabilmente Blotto è il n°100: modo del non dire, suggerimento, evocazione, traslazione. Tutto questo concentrato in 60 anni di scrittura e quasi 20.000 pagine di poesia, tra editi ed inediti. "Uomo di sfide e dismisure", appunto.