Martedì, 11 aprile 2017
Di Brine Murray si sa poco o niente, è perfettamente inutile cerca rlo nei repertori bibliografici o in internet. I testi qui trascritti sono una scoperta di Carla Paolini, che li ha trovati su una bancarella a Limerick e li ha tradotti dall'inglese. Sono contenuti in un quaderno rigato di circa 80 pagine, con copertina rigida scura, recante il marchio di fabbrica Jefferson Smurfit, Clonskeagh, Dublin, apparentemente risalente ai primi decenni del '900. I testi, poco più di una dozzina, scritti con inchiostro nero bluastro, occupano soltanto le prime pagine del quaderno, mentre le restanti sono bianche (alcune di esse sono state evidentemente strappate, ma non in prossimità delle pagine scritte). Non è possibile sapere se le poesie fossero il nucleo di una raccolta, a cui comunque Carla Paolini ha dato il titolo provvisorio di Logovisioni, con riferimento a quanto il poeta scrive in un brevissimo prologo riguardo a parola e immagine. Il nome dell'autore si desume da una etichetta apposta sulla copertina del quaderno stesso, sulla quale esso è tracciato con bella calligrafia. Brine è la forma gaelica di Brian, ed è per questo ed altri indizi che si suppone che Murray fosse irlandese.
My aim, in these compositions, has been to use words the way a photographer uses his plate to shot a photo. A series of clicks which fix stagnant moments disquieted by the risk of the unexpected… of the extinction, sensations of anxiety, of uneasiness due to the lack of temporal flux: there is neither past nor future only a present which consents no escape.
In questi testi ho tentato di usare le parole come un fotografo usa la lastra fotografica. Una serie di scatti che fermano momenti chiusi in cui si affaccia l'insidia dell'ignoto, dell'estinzione... sensazioni di inquietudine, di disagio in assenza di flusso temporale: non c'è passato né futuro solo un presente che non dà scampo.
Illustrazione: Clonmacnoise (Irlanda) - Interno del Temple Melaghlin, noto come Temple Rí (King's Church), Foto G. Cerrai (clicca sull'immagine per ingrandirla)
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Sabato, 18 aprile 2015
Carla Paolini - Installazioni (fisicità poetiche) - Anterem edizioni / Cierre grafica, 2015
Di Carla Paolini ho già parlato brevemente su Imperfetta Ellisse (v. QUI)
quasi otto anni fa, a proposito di un suo interessante poemetto
intitolato "Elettroshock", e lì parlavo tra l'altro di linguaggio
condensato, che "coagula ulteriormente attorno a parole affini o parenti", di "dramma per impulsi", in un travaglio poetico in fondo al quale "rimane
una sineddoche di sè, un nucleo indivisibile e irrinunciabile, "una
sola parte per il tutto", come, io credo, una decantazione della vita
stessa". Rammento queste cose proprio perchè occorre, a mio avviso,
ripartire da lì, o meglio ancora partire - che sotto molti aspetti è la stessa cosa - dalla dichiarazione di poetica che apre questo volume.
Dice infatti Carla: "La materia di Installazioni non
nasce dall' occasionalità degli eventi, ma dall'interesse che
improvvisamente una parola mi smuove. Intorno a questo embrione
energetico, il pensiero struttura e specializza nuove sintassi. La
sostanza espressiva si diffonde, disseminando segmenti come linfonodi
messi a difesa delle sue intenzioni. L'organismo poetico addensa
fisicità singolari, s'installa sulla pagina e accetta l'urgenza di
esistere".
Ricordo vagamente
che anche Stefano Guglielmin aveva in passato espresso un concetto
analogo a proposito del suo lavoro di poeta: l'appunto, anche una
singola parola deposta a stagionare su qualche foglietto anche per molto
tempo, magari capace poi di generare quasi per partenogenesi l'idea
poetica, il testo, la definitiva messa in atto di qualcosa che stava lì,
in nuce. E' un aspetto della "ispirazione" che mi ha sempre affascinato
e di cui io stesso ho esperienza diretta, una indefinita capacità
neoplastica della parola, quasi differente e distinta da una voluntas,
che rimanda direttamente alla poiesi del linguaggio, qualcosa che ha a
che fare con la psiche dell'autore e forse con il lavoro del linguaggio
sul linguaggio, per dirla con Stefano Agosti. E ci sarebbe probabilmente
da riflettere anche sul trattamento delle parole come "oggetti",
manipolabili o osservabili. Ma inutile andare troppo lontano, fermiamoci
qui. Però della dichiarazione di Carla bisogna notare almeno un
paio di cose a mio parere importanti. La prima riguarda lo stesso titolo
(non casuale) della raccolta, un termine dalle diverse sfaccettature:
l'installazione innanzi tutto rimanda a una precisa categoria artistica
concettuale, a un riferimento ad un'arte visiva le cui caratteristiche
siano almeno la tridimensionalità e la collocazione in un ambiente, al
di là dei mezzi, delle forme e dei materiali (e vediamo poi come questa
caratteristiche tentino nella scrittura una loro evidenza); e poi
"installazione" è il porre la parola su uno stallo, uno scanno, (come
ricorda acutamente Gio Ferri nella postfazione) ovvero un luogo
privilegiato e "religioso", meditativo e racchiuso come negli antichi
capitoli monastici, "lasciando fuori dal coro ogni seppur turbato ma
freddo sentimento estraneo alla parola..." (sempre G. Ferri). Come si
vede, tutto sembra tornare.
L'altra cosa deriva direttamente dalla prima e riguarda il carattere
anti-occasionale di questa scrittura (e qui si ritorna al "concetto"),
cioè sostanzialmente il rifiuto di qualsiasi ispirazione per così dire
"fanciullesca", o emotiva, o sentimentale, sempre a favore di una
"durezza" della parola, che è specchio della difficoltà di penetrare la
stessa materia di cui è fatta la nostra comunicazione e la realtà
circostante, tentando di scoprire cosa (forse) c'è dietro quello schermo
illusorio di cui parla Montale in "Forse un mattino andando" (v. QUI).
C'è con ogni evidenza anche una ricerca per così dire combinatoria,
delle possibilità di scomposizione, ricomposizione ricollocazione dei
sintagmi, delle catene sintattiche, pur sempre però a partire da quel
"embrione energetico" di cui parla Paolini (ma l'autrice avverte che
solo si può "ridisporre ciò che è disponibile"). E c'è, io
credo, un meccanismo associativo, legato non tanto ad assonanze o ad
assimilazioni linguistiche o a "giochi" (ma l'autrice raccomanda: "date voce / al filare aspro delle polifonie") quanto a un filo rosso da
ricercarsi a livelli più profondi, a un sistema metaforico di tipo
cognitivo in cui agiscono più profonde "culture", forze più nascoste. Ma
anche, aggiungerei, alle probabilità metamorfiche, virtualmente
aperte, di sostituzione senza danni, che questo tipo di scrittura offre anche a chi legge.
Naturalmente gli estimatori della scrittura automatica o effusiva,
quella in cui l'autore è un medium o una Pizia delegati dalla Poesia,
dovranno mettersi l'anima in pace. Qui, non ostante il casus che
sembra muovere il meccanismo, non c'è molto lasciato all'arbitrio. O
almeno niente che poi non sia regolarmente riportato all'ordine, a un
suo intimo significato. E se c'è una piccola contraddizione negli
intenti di Carla caso mai sta qui, nella impossibilità oggettiva, direi
tecnica, di realizzare quella "urgenza di esistere" dell'organismo
poetico di cui lei parla, un concetto che sta tra l'idea romantica di
una poesia vivente, pre-esistente e quella michelangiolesca dell'opera
che c'è ma deve essere estratta a colpi di scalpello. Il registro è
semmai quello che Gio Ferri chiama un "raro distacco formale". Che a
livello di stampa (e qui si torna al discorso di dimensionalità e
collocazione dell' installazione) si esplica anche come tipizzazione
grafica (corsivi, grassetti, diversi corpi carattere) e interazione
spaziale con la pagina bianca (versi non-versi, spezzature, stacchi,
diversi tipi di giustificazione), alla ricerca insomma di una
consistenza materica (e il sottotitolo è infatti "fisicità poetiche")
che naturalmente alla parola non è data.
Come noto, raramente le dichiarazioni di intenti, specie in poesia,
conseguono l'obbiettivo prefissato. Direi però che in questo caso
Paolini, partendo con un'idea chiara in mente, con un programma (e
anche con la curiosità di vedere dove l'idea va a parare), riesce
egregiamente a costruire una specie di lessico di base che funge da
innesco o scandaglio se si vuole, come un sasso gettato nello stagno. E
anche se talvolta "quando cade / è un sasso che non solleva spolveri
d''acqua" (segno di un deserto dell'esistenza, dei rapporti, etico che
tuttavia deve essere investigato) è un tentativo irrinunciabile che il
poeta, per sua natura, deve fare. O tacere, diventare pietra installata in quel
deserto. (g.c.)
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Lunedì, 27 agosto 2007
C'è un elettrogramma che collega il nostro cuore, il nostro cervello, il nostro sesso alla parola; una linea sinusoidale, fatta di picchi e anse, di oscillazioni anche repentine, di precipitazioni in nuclei di senso che ci riportano una qualche conoscenza del nostro essere. Così come un elettrocardiogramma restituisce, a chi sa leggere, una risposta che però a volte è sibillina come l'ibis redibis non morieris in bello attribuito alla Sibilla, anche la poesia, forse l'espressione più alta della parola, mantiene per definizione un grado di ambiguità interpretativa o, se preferite, di polisemia che poi non è altro che il vero dono, la vera comunicazione con il lettore.
Non è ovviamente un caso che abbia parlato di elettrogramma. Al di là del titolo, questo poemetto di Carla Paolini, poesia che in effetti non si concede subito ma richiede al lettore una sua devozione, porge delle risposte,offre degli indizi, fin dalla sua impostazione grafica che costringe l'occhio a seguire le anse e i picchi di cui si parlava, lungo un percorso - forse metaforico - che porta a una specie di agnizione finale e (anche graficamente) centrale. Carla usa un linguaggio condensato in brevi strofe sciolte, che rammenta a tratti la poesia di ricerca del secondo novecento, a volte ricorda Porta o, perchè no, Amelia Rosselli (ma le ascendenze, ammesso che abbiano senso, andrebbero trovate anche in altri suoi lavori). In queste strofe, poi, il linguaggio coagula ulteriormente attorno a parole affini o parenti che fanno da chiavi di lettura. Seguendo il nostro ipotetico elettrogramma vediamo svolgersi un dramma per impulsi, una "galassia di scosse" che avvia un percorso attraverso il dolore, forse il dolore come elemento conoscitivo di sè, un evento esterno reale o simbolico che si immette nel nostro corpo (nel nostro essere), lo scuote, vibra "il soffione dei nervi", strappa il "guaito" non ostante la mordacchia, agita il corpo in "colpi d'anca", in conati, lo inabissa "alla base della memoria" dove forse è possibile rivegetare la coscienza in "nuovi polloni". E ancora "il corpo nell'aria danza per ciò che non potrà mai fare", scala il "formidabile versante del travaglio", aborre l'ombra, le "presenze che non si compongono". E cedendo alla "punizione", accettando di varcare la soglia del dolore, l'essere "avverte una rinascita", seppure ancora dubitosa, "si abbandona all'origine", scopre uno spiraglio nelle proprie profondità, accetta l'eclisse di sè, la lacerazione ("sfondi oppositivi", "polarità della coscienza", "antitesi che disossa") da cui forse nasce "un ordine ignoto", forse nuovo, come una quiete degli elementi. In fondo a questo travaglio rimane una sineddoche di sè, un nucleo indivisibile e irrinunciabile, "una sola parte per il tutto", come, io credo, una decantazione della vita stessa. Di essa, di questa "zolla rossa" di estrema identità, ci si deve riappropriare immaginandola, nominandola, (ri)creandola con il linguaggio stesso della poesia.
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