Sabato, 28 aprile 2018
Alessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specie -
Edizioni Pietre Vive, 2016 - Illustrazioni di Giovanni Munari
Ogni tanto si parla di poesia civile, che non è una cosa che amo
particolarmente, perché secondo me è una non categoria, perché spesso
semmai è un concetto che tende ad giustificare un approccio retorico non
all'altezza della materia che tratta, perché come sviluppo delle tematiche
tende altrettanto spesso a prendere un andamento stilistico tra l'epico e
l'elegiaco un po' da ballata. Ciò non toglie tuttavia che ci possa essere
una tensione verso una scrittura politica, oppure "sociale", nella quale
l'autore si fa portavoce di problemi o tensioni di cui può anche non essere
protagonista diretto, ma magari spettatore sensibile, e comunque informato
dei fatti. Insomma, in parole povere, la poesia civile, come la scrittura
sociale a cui questo libro si riferisce, non è una cosa facile da fare,
soprattutto senza rinnovarla un po', come linguaggio e forse, perché no,
come prospettiva ideale e politica (nonchè umanista) dello stesso scrivere,
al di là dei temi specifici. (Rimando volentieri a questo proposito a un
autore che ha punti in comune e differenze con Silva, Fabio Orecchini - v.
QUI
)
L'adatto vocabolario di ogni specie
, tra l'altro opera prima di Alessandro Silva, parmense,
classe 1976, prende in esame un tema del tutto particolare, tentando di
farne un poema: si tratta dell'Ilva di Taranto e di ciò che vi ruota
intorno, drammi, dolori, lavoro duro, malattia, morte. Un tema, per dirla
tutta, quanto mai ambizioso, e certo coraggioso, tanto più se lo si vuole
rendere in poesia. Silva chiarisce subito i termini per così dire
cronachistici della vicenda, e lo fa per sommi capi nelle prime pagine in
prosa, una forma di giornalismo poetico dei fatti dal 1980 al 2014 circa,
che illumina lo sfondo su cui si muovono gli attori della successiva parte
in versi del libro, che è la sostanza del lavoro. Di corredo le belle
tavole di Giovanni Munari, che fungono un po' da storyboard, tendendo,
nell'intenzione degli autori, verso la graphic novel (mentre la Light Poetry, citata nel risvolto, mi pare che sia un'altra cosa).
A parte queste considerazioni marginali, il valore del libro (ma di opere
in genere mosse da una spinta di tipo etico) sta nella capacità, ove si
verifica, di universalizzare la narrazione e il dramma che descrive,
renderlo dolorosamente umano senza tuttavia - diciamo - omologarlo,
mantenendolo cioè unico ed eminente, quindi esemplare, nel vero
senso della parola. La sorte di Marcello (un operaio morto sul lavoro) è
sua ma è di tutti e viceversa, ed è appunto qualcosa di destinale a cui chi
legge per una serie fortunata di circostanze (il qui, l'ora ecc.) è
sfuggito, senza però poter sfuggire ad una coscienza a cui è richiamato, ad
una intima consapevolezza.
Silva ci riesce in varie occasioni, usando bene registri diversi che si
danno la voce all'interno di una struttura in versi sciolti privi di metro
e spezzati a volte bruscamente, e quindi sostanzialmente narrativa ma
divisa in episodi brevi (i testi in genere non vanno oltre la pagina), con
tratti discorsivi che qualcuno ha accostato a Pavese, ma senza il suo
ipermetro di derivazione anglosassone. Registri e tonalità che spesso e
saggiamente fanno ricorso al pedale emozionale e affettivo, sostenuto da un
tono complessivo tra il lirico e l'elegiaco, ma sempre evitando qualsiasi
accento retorico. Non so se la materia che Silva si è scelto derivi o meno
da una esperienza diretta, ma certo tutto il lavoro trasmette un impegno
(anche di studio, immagino) e una notevole sensibilità. E c'è anche, in più
di un testo, un interessante io/personaggio, c'è un io che però è del tutto
narrativo, o immaginativo se preferite (questo sì pavesiano), cioè "altro"
da quello dell'autore, e perciò finalizzato ad allargare il cerchio di
vicinanza empatica verso le vicende descritte. Che naturalmente non sono
solo quelle dell'individuo di fronte al lavoro, alla sua durezza e al
tragico che nel lavoro pesante è connaturato, ma anche al peso che il
lavoro stesso ha, la presa che ha e che non molla, sulla vita al fi fuori
della fabbrica, sugli affetti, su chi sta accanto. Sono forse le cose che
più hanno luce in questo libro, che più esprimono una vena intimamente
lirica che dà forza epica alla storia, che forse soffrono meno, se mai ce
n'è, di qualche vaga traccia di didascalismo, o di qualche "distanza" là
dove il linguaggio aderisce, volutamente credo, più al "vero" anche
cronachistico che ad una trasfigurazione metaforica di esso, o simbolica di
una situazione sociale più vasta, di un cancro più esteso; o che meno vanno
alla consapevole ricerca del "poetico".
Direi, per chiudere questi appunti, che il libro/progetto, l'idea
ambiziosa di cui parlavo all'inizio, di costruire qualcosa
di organico e strutturato attorno ad un tema forte, mi pare che sia
approdato ad un esito maturo e interessante, una sorta di "poema della catastrofe", certamente con i suoi pregi e i suoi (pochi) difetti ma una poesia di cui si deve tener conto. Un esito che lascia aperte diverse
aspettative riguardo a Silva e alle sue eventuali opere "seconde", spero
altrettanto feconde e coraggiose. Staremo a vedere. (g.cerrai)
da I. Luce dentro la terra
QUALCUNO CHE CADE
otto/giugno/duemilaequindici
Nel pomeriggio è accaduto all’altoforno Due, l’incidente. Ci sono state, dopo, ventiquattro ore di mani alte [mani di ferro calloso e nodi di dita nerastre].
Una babele di passi scesa in battaglia tra rottami e mantici di aria che ustiona. Occhi rauchi e cicatrici aperte di labbra.
C’era un morto e nessun messia per motivi di sicurezza. Quaggiù è la terra in fondo un sudicio ossario e, del nostro tocco o sguardo poco importa a qualcuno.
DI QUELLO CHE SO SULL’OPERAIO MORTO II
L’operaio, forse, si è dimenticato di fuggire. Ha detto «Sono io fammi passare» ma la testa gli è stata divorata in un solo balzo di cuore. Disarmato dalla grazia divina dormiente su una spalla gli è presa la paura del mondo, spoglio di buccia e pelo come un albero animale che cresce da un grido di neonato. L’uomo lascia di sé un’immagine insanguinata che guarda dal fondo di uno specchio. Lascia una moglie cieca di lacrime a passeggio tra gli spini della stanza nella nuova abitazione mentre il figlio nel letto con il lenzuolo in testa e occhi di buia dolcezza fugge dal residuo di morte dentro il sonno [crede nel segno della croce e allo scontorno che lasciano i vivi].
Non c’è pace nella vita del mondo che di questo mondo è solo eterno filo di tessuto intrecciato nella veste di un dio.
da II. L’adatto vocabolario di ogni specie
SCHERZARE CON IL FUOCO
Lampioni, bruciatori e arredi tombali
la ghisa che può questo non si fabbrica a caso. Gocciola, sprizza e sgronda cola ovunque educata nei corridoi del forno e nessuno dovrebbe ferire se, in voli agili senza piume, getti solidi e fiammate più veloci del loro peso o di un’assenza a costringerli freddi, cadono senza divenire fuochi spenti ma luce da ustione.
C’è chi [fortunato] emerge con la testa dal passeggio sotto i fuochi, posa sul letto l’uniforme da lavoro e trema, erba esile sotto un buio di fiori. E preferisce rimanere un gradevole ingenuo che continua il suo gioco con il fuoco. Anche oggi tutto si è messo a marciare. Scarpe da anni radicate e unghie sul viso tra sudori di nausee da caffè. Uomini in un sonno nato a malapena.
Stupitevi per cosa ancora riuscite a tenere tra le dita.
SE DOBBIAMO VIVERE ANCORA
Lei sa poco, io so molto di meno. La dottoressa spiega: «Una scintilla spenta di estrogeni nelle cellule che baciano l’ovulo e lo portano dolci a maturazione è la causa del vostro essere sterili».
Lei ha un sorriso infranto, commiato di mano che porge una rosa e si vede sgomenta di un petalo caduto, bianca fiammella di cero sul pavimento.
Un tocco di morte ci prende e spegne i passi in corsia. C’è un sussulto tagliato di luce sul vetro opaco di un bicchiere nella stanza davanti aperta dove dalla notte al giorno su un fianco, un corpo fasciato ci prova
a sgusciare dal secco destino e deviare. Lei sa poco, io so molto di meno. Ci rinnega la terra ora come fece il canto di un gallo in epoca antica.
PESCE MASCHIO
[…] Orfeo non si fece legare. Toccò poi la cetra e rovesciò il coro delle sirene in un sogno stupito di pietra.
L’altoforno Due impietra la mia lingua ferita. Lascia ruggine di elettricità e un secco occhio di sogno a chiusa di una preghiera. Ci perdo l’umore puro della giovinezza nella pelle sudata dal fuoco mentre muoio chiuso nelle vene da sotto il tremore di peli. Un crepitio di gola e brace ingoio e sputo per non morire secco come morì mio nonno. Sopra una sedia come un vecchio pesce che nemmeno le branchie spinge al sole e cede al pensiero di terra asciutta. Ci pianta la coda e lascia
aperta l’ultima bocca che più non allaccia il fiato.
da III. Il mondo non è mai pronto
FORZA PRIMITIVA
Non ho mai tirato pugni all’aria. Le mani vanno conservate, sono le prime a perdere forza. Mio padre lo diceva, proprio lui dal gran corpo in vigore e le dita inquiete.
Le sere di festa a dicembre stavo in soggiorno tra gli uomini colmi di vizi e libertà dovute. Facevo mio il loro respiro, per cose di vita pregne in bocca parlate.
Anche cercavo con occhio segreto le donne, adunate in cucina. Erano tiepide e lente di viaggio per prendere parte alla vita ma a nessuno nessuna briciola facevano mancare.
Tra loro mia madre. Se di giorno sul presto vedrò il buio dei prati farsi mattino lo devo anche alla mano di sangue che ogni donna spinge nei nati. Mia madre, dolcissima nube gonfia in una camera buia
dove il mare, di schiuma, si spoglia.
da IV. Pensieri di una donna che dorme e ti guarda
SONO LA DONNA CHE DORME E TI GUARDA I
Cominciamo da dove le bugie muoiono. Le tue labbra. Da lì il tempo non passa, ricorda il gelo sottile annidato nelle case piantate e ferme, a novembre. Un calmo singhiozzo nel sogno seccato di pioggia.
Il mare è una tela di fili di acciaio, il cielo un liquido specchio. E se ognuno oscilla è perché il vento passa i confini. Certi giorni mi sembra di cadere da cielo a cielo e scordare ogni cosa. Nel silenzio scorgo allo specchio il collo, la piega dei seni e lo splendore di vuoto, nel ventre.
Tu hai un modo di uscire di casa che resta. Mi baci le ciglia con un fresco di labbra e da lì il mio tempo non passa. A nulla possono abissi e scorie di fumo. Tenera spiga hai poggiata tra i denti come un vezzo di luce: il nitore di un taglio
[la bocca] mi riempie i polmoni.
PER QUALCHE GIORNO. O SETTIMANA
Il mare lo sento, batte e risciacqua sulle rocce e solo in suo potere resta l’annientare.
Dei giovani scuri e slanciati ignorano il mare e fumano a terra seduti. Hanno capelli contesi dal vento, sono pronti allo scherzo e a godere. Anch’io fumerò
per sentirmi uno di loro fino alla sera e poi tacere sedotto da un dolore di vino. Non è come altre emozioni malate, la rabbia.
Non fiacca e ti fa più giovane. I viaggi con lei vanno sempre bene purché non l’ascolti sino alla fine. Accanto ho per questo un dolce corpo che mi guarda.
Una sorte c’è già decisa a seguirmi dall’alto del cosmo: toglierà ogni strato ricolmo di buio a suo tempo. Intanto la tosse, i baci e i nuovi germogli del sangue ogni cosa diviene consolazione e uguale all’immenso silenzio che cela il nostro nascondiglio d’amore.
[Con la luce accesa sul comodino mi sento al sicuro].
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