Martedì, 29 novembre 2016
Un’influenza senza angoscia: l’ombra lunga di Emilio Villa nei testi di Corrado Costa
[da un intervento al Convegno che ha avuto luogo nelle giornate del 24 e 25 novembre 2016 presso la Scuola Normale Superiore, dal titolo «I Verbovisionari.
L’ “altra avanguardia” tra sperimentazione visiva e sonora»]
Il parallelismo critico tra le figure di Corrado Costa ed Emilio Villa, oltre a poggiare su una solida amicizia personale (testimoniata dal nutrito
carteggio conservato presso l’Archivio «Emilio Villa» di Ivrea), ha prodotto un’interessante collaborazione artistico-letteraria, particolarmente operativa
tra gli anni Sessanta e Ottanta. Ricordo, sinteticamente, tra i testi più noti, ll mignottauro. Phrenodiae quinque de coitu mirabili (scritto a
quattro mani e pubblicato nel 1980) e The Flippant ball-feel (un testo di Emilio Villa composto ad accompagnamento dei tre poemi-flippers di
Corrado Costa e William Xerra, presentati alla Mostra del Mana Market, a Roma, nel 1973).
Per fornire un inquadramento generale dell’approccio di Costa ai testi villiani, occorre partire da alcune specificazioni preliminari: per quanto Villa sia
stato un referente d’elezione per il giovane poeta, Costa è riuscito ad emanciparsi piuttosto brillantemente dal modello villiano, smontandolo nelle sue
componenti fondamentali ed isolando quelle caratteristiche tecniche più utili a fondare una propria avventura sperimentale, felicemente autonoma. Per
questo motivo, si potrebbe parlare di un caso critico-clinico di «influenza senza angoscia», cercando, nel parafrasare e distorcere l’etichetta di Bloom,
di conservare intatto il valore dell’influenza, da cui Costa si svincola ma soltanto dopo aver compiuto un pedinamento serrato dei testi villiani, e
operando una scelta ragionata di prelievi stilistici cui mescolare altre sollecitazioni culturali o apporti personali. Dal canto suo, Emilio Villa ha
l’abitudine di rivolgersi a grandi modelli del passato (dai filosofi presocratici ad Artaud, da Esenin a Eliot), scansando il dialogo diretto con i poeti
contemporanei; pertanto la figura di Costa verrà accettata in veste di compagno di strada (a volte coadiutore in opere a quattro mani), ma senza che la
collaborazione lasci tracce stilistiche o suggestioni tematiche evidenti.
Soprattutto nei testi di Costa elaborati all’interno dell’arco cronologico citato all’inizio (anni sessanta-ottanta), il basso-continuo villiano si impone
come referente preferenziale e quasi “seconda voce” argomentativa nella riflessione del poeta. Se prendiamo, ad esempio, Inferno provvisorio
(uscito nel 1970), oltre a svariate allusioni e citazioni dirette sparse nel corpus testuale, troviamo un sottoparagrafo intitolato proprio «Emilio Villa»,
una sorta di digressione dedicata alla figura-chiave nel percorso di formazione del poeta:
Emilio Villa
. Tutte le tecniche dell’allusione, dell’eufemismo, della sostituzione si assommano. Fanno divenire il testo un GRANDE LAPSUS in una lingua intermedia fra
francese e italiano, che non è né l’una né l’altra, ma conserva di entrambe l’enorme bagaglio culturale, il suono latino, lo spaventoso senso del sacro!
Oltraggiando se stessa la lingua diventa l’epifania dell’Oltraggio, e qualsiasi nome si forma nel suo flusso si corrompe, si guasta, si sfregia
definitivamente. Villa, a bella posta, verifica l’oltraggio fuori dalla poesia per oltraggiare meglio la poesia: presentazioni per pittori, lettere,
telegrammi e altri pretesti. La (d)eclaration, contro la Dea Madre, è dedicata alle opere del pittore Giuseppe Desiato, che a sua volta ha combinato
fotografie di donne nude, abbronzate e bianche nei punti chiave dell’erotismo e su questi ventri, aperti come un libro, ha intercalato violentemente la
scrittura
[C. Costa, Inferno provvisorio, Feltrinelli, Milano 1970, p. 50].
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Giovedì, 11 settembre 2014
Giovedi 18 settembre prossimo, a partire dalle ore 19, e fino a Sabato 20, presso la Galleria Ostrakon, Via Pastrengo 15, Milano, si svolgerà la terza edizione di "Tu se sai dire dillo", rassegna poetica ideata da Biagio Cepollaro, dedicata a Giuliano Mesa e articolata su tre giorni di incontri, dibattiti, letture, video, intorno alla figura di Paola Febbraro, al lavoro di diffusione e conoscenza di Emilio Villa promosso da Enzo Campi e all'antologia di opere di Gianni Toti, ideata e curata da Daniele Poletti e da [Dia*foria, oltre al lavoro di e sulla critica letteraria portato avanti da "In realtà la poesia" e a letture di Cepollaro di lavori dello stesso Mesa. Il programma completo è scaricabile QUI. Ci vediamo là il 18, spero di incontrare qualche amico.
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Sabato, 9 agosto 2014
Dopo Lunetta, Emilio Villa, l'uomo che più di tutti ha tentato di sconfiggere la ma ledizione babelica attraversando linguaggi moderni e remoti. Un importante testo, "vera e propria dichiarazione di poetica in versi", accompagnato da un saggio di Flavio Ermini, entrambi tratti dal libro "Parabol(ich)e dell'ultimo giorno", a cura di Enzo Campi, Le Voci della Luna - Poesia / DotCom Press, 2013, pubblicato in occasione del decennale della morte. Un volume collettivo che raccoglie opere dell'autore, e contributi critici e scritti dedicati di Daniele Bellomi, Dome Bulfaro, Giovanni Campi, Biagio Cepollaro, Tiziana Cera Rosco, Andrea Corlellessa, Enrico De Lea, Gerardo de Stefano, Marco Ercolani, Flavio Ermini, Ivan Fassio, Rita R. Florit, Giovanna Frene, Gian Paolo Guerini, Gian Ruggero Manzoni, Francesco Marotta, Giorgio Moio, Silvia Molesini, Renata Morresi, Giulia Niccolai, Jacopo Ninni, Michele Ortore, Fabio Pedone, Daniele Poletti, Davide Racca, Daniele Ventre, Lello Voce, Giuseppe Zuccarino, Enzo Campi. Insomma un libro di sicuro interesse, non solo per chi persegua una scrittura sperimentale, ma anche per quelli che nella loro scrittura cercano spunti per assumersi qualche rischio, deviando almeno un po' l'ordinario flusso della corrente.
Linguistica
Non c'è più origini. Né. Né si può sapere se.
Se furono le origini e nemmeno.
E nemmeno c'è ragione che nascano
le origini. Né più
la fede, idolo di Amorgos!
chi dici origina le origini nel tocco nell'accento
nel sogno mortale del necessario?
No, non c'è più origini. No.
Ma
il transito provocato delle idee antiche - e degli impulsi.
E qualsivoglia ambiguo che germogli intatto
dalle relazioni
dalle traiettorie
dalle radiazioni
dalle concezioni
luogo senza storie.
Luogo dove tutti.
E dove la coscienza.
E dove il dove.
Per riconoscere l'incommensurabile semenza delle vertigini adombrate
le giunture schioccate nei legami
la trasparenza delle cartilagini
il cieco sgomento dei fogliami
agricoli nelle forze
esteriori, e l'analisi fonda
incisa nel corpo dell'accento.
No.
Non c'è più. Né origini nei rami. né non origini.
Chi arrestava i sintagmi sazi nel sortilegio della consistenza
usava lo spirito senza rimedio nel momento indecisivo
come un compasso disadatto, non esperto, così non si poteva
agire più niente, più, ombra ferita e riferita, proiezione
senza essenza, così che speculare sul comune tedio
un gioco parve, e ogni attimo-fonema
ancora oggigiorno sfiora guerra e tempo consumato, e il peso
corrompe dell'ombra dei tramiti dell'essenza.
E codesta sarebbe. Questa la fine concepibile:
se attraverso l'idea massima del pericolo e dell'indistinto
si curva l'anima estrema nell'attrito di idrogeno e ozono e i giorni
acerbi sommano giorni ai giorni quotidiani nell'araldica
prosodia delle tangenze,
soffocando ogni flusso di infallibile irrealtà in:
i verbi
i neologismi.
Chi le braccia levava saziate di viole nel palpito assortito
oggi paragona ogni rovina paragona allo spirito
immune che popola e corruga a segmenti il nembo
delle testimonianze storiche, delle parabole nel grembo
confuso delle parrocchie e nelle larghe zone
di caccia e pesca e d'altre energiche mansioni culturali.
E non per questo celebro coscientemente il germe
sepolto, al di là,
e celebro l'etimo corroso dalle iridi foniche,
l'etimo immaturo,
l'etimo colto,
l'etimo negli spazi avariati,
nei minimi intervalli,
nelle congiunzioni,
l'etimo della solitudine posseduta,
l'etimo nella sete
e nella sete idonea alle fossili rocce illuminate
dalle fosforescenze idumee, idolo di Amorgos!
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Martedì, 29 aprile 2008
Con la mostra a lui dedicata in questi giorni a Reggio Emilia sembra riaccendersi l'interesse su uno dei maggiori "soggetti artistici non identificati" della cultura italiana, Emilio Villa, già oggetto di una mostra nel 1996 al Museo Pecci di Prato. Ripesco da La Repubblica e riporto qui sotto un articolo scritto da Francesco Erbani pochi giorni dopo la morte dell'artista (ma non so se questa definizione gli sarebbe piaciuta) avvenuta nel gennaio del 2003. Segnalo anche su Nazione Indiana il post di Fabio Pedone dedicato alla mostra (v. qui)
Emilio Villa l'inafferrabile di Francesco Erbani
(da La Repubblica del 14 febbraio 2003)
Emilio Villa è morto il 14 gennaio scorso, in una casa di cura nei pressi di Rieti. Soltanto alcuni giornali hanno dato la notizia. Un silenzio colpevole, ma in qualche modo inevitabile. Villa, che aveva ottantanove anni, era un gigante appartato, un personaggio che ha seguito strade accessorie, ma avventurose nella cultura del Novecento, un eccentrico, un poeta sperimentale, antesignano della neoavanguardia. Scriveva versi in latino, greco antico, portoghese e francese, e quando lo faceva in italiano avvolgeva il suo lessico in formule enigmatiche. Aveva nascosto se stesso in una dispersa, vastissima quantità di sedi, ancora oggi in parte irreperibili, inedite o addirittura ignote. Villa era anche un critico d' arte, meglio, un suggeritore d' arte, compagno di strada di grandi personaggi, i "romani" Mafai, Scialoja e Consagra e poi Burri e Rothko, Fontana e Pollock: i suoi versi illustrano cataloghi o preziosissime plaquettes che fanno felici gli antiquari che le posseggono. E infine era un cultore di lingue morte - il sumero, l' assiro, l' ugaritico, il fenicio - che lo immersero nell' indagine di antiche civiltà mediterranee e che lo tennero per mano in un' impresa non solo filologica, la traduzione integrale della Bibbia, una specie di viaggio alle origini del pensiero mitico. Villa è morto solo. Quindici anni fa era stato colpito da un ictus che gli aveva inibito la parola e bloccato il braccio destro. Il suo isolamento era diventato segregazione nella piccola casa seminterrata in una palazzina del quartiere romano dei Parioli (la moglie Nelda è morta nell' aprile scorso, i due figli vivono all' estero). Non aveva editori che potessero diffondere la notizia della sua morte. E così alla sua sepoltura, in un piccolo cimitero toscano, assistevano solo tre amici. Negli ultimi trent' anni gli è stato molto vicino Aldo Tagliaferri che, editor di Feltrinelli, pubblicò nel 1969 il suo Attributi dell' arte odierna, una raccolta di saggi su Cagli, Burri, Matta, Fontana, Manzoni e altri. Da allora in poi Tagliaferri lo ha accudito, come avrebbe fatto un figlio adottivo. Ne ha curato traduzioni e raccolte di poesie. E, nonostante lui fosse «un orso aggrottato», nonostante parlasse di sé e della propria vita solo «per squarci lirici», poco a poco ne ha scoperto i lati nascosti - quelli che Villa aveva sepolto o che aveva camuffato in una specie di caccia al tesoro il cui bottino era la cancellazione di sé. Come era accaduto per il soggiorno in Brasile, nei primi anni Cinquanta. Incontro Tagliaferri nella casa romana di Villa, dove è venuto a riordinare libri, a riempire e vuotare scatoloni. «Emilio parlava spesso di un viaggio in Brasile, di una donna, ma poi confondeva le tracce, mitizzava e molti si domandavano se quella del Brasile non fosse una favola», racconta Tagliaferri. «Dopo che si ammalò, andai a San Paolo e feci delle ricerche. Villa aveva lavorato per un anno e mezzo al Museu de Arte. Parlai con molte persone che lo avevano incontrato. Aveva svolto un lavoro importante. Ma non amava le posizioni sicure e coltivava l' idea di un' arte che viveva nella libertà assoluta e che non si conciliava con il museo. E così se ne tornò in Italia, alla sua vita di espedienti». Di espedienti Villa visse quasi fino alla fine. «Un po' di soldi li recuperava vendendo i quadri che gli regalavano i suoi amici pittori», racconta Tagliaferri. «Molti di loro lo sapevano, ma Burri si arrabbiò tantissimo quando lo scoprì. Non vendeva solo quadri, ma anche le sue poesie. Emilio non aveva alcuna misura del denaro, appena ne possedeva lo spendeva. Amava mangiar bene e bere». Villa proviene da una famiglia operaia. E' nato ad Affori, in provincia di Milano, dove il parroco, ammirandone l' intelligenza precoce e la duttilità per le lingue, lo indirizza in seminario. Fra i 16 e i 17 anni impara l' aramaico e il fenicio ed è in grado di sostenere conversazioni in greco e in latino. E' allora che inizia a tradurre le Sacre scritture, decidendo di proseguire gli studi al Pontificio Istituto Biblico di Roma, la massima cattedra dell' esegesi. Villa legge la Bibbia senza filtri cattolici e, volgendola in italiano, applica criteri non confessionali, strumenti filologici e non teologici, considerandola un prodotto letterario, anzi il grande repertorio in cui rintracciare le origini della cultura occidentale. (La traduzione è integrale ed è contenuta in numerosi quaderni, in parte dattiloscritti, in parte manoscritti: il materiale è stipato in uno scatolone che Tagliaferri mostra maneggiandolo come una porcellana di Meissen). A Roma, sul finire degli anni Trenta, Villa si occupa di arte, frequenta Mafai, De Libero, Sinisgalli e i più giovani Scialoja, Consagra e Scarpitta. Nel ' 40, racconta Giuseppe Appella, è redattore di Beltempo, almanacco della Cometa. Articoli di Villa compaiono su Corrente, Convivium, Il Bargello e Letteratura. Poi inizia una fase convulsa. Durante la guerra Villa torna in Lombardia, ma all' ingiunzione di arruolarsi nella Repubblica di Salò risponde dandosi alla macchia. Frequenta i partigiani, ma non combatte, fino a un altro "squarcio lirico" ricostruito da Tagliaferri: Villa che imbraccia un fucile in Piazzale Loreto, davanti al corpo di Mussolini. Nel dopoguerra, a Roma e a Milano, è ancora il mondo dell' arte che lo assorbe. Fontana e Burri sono le figure centrali di questo periodo. Esce nel 1947 un suo libro, Oramai che reca come sottotitolo «Pezzi, composizioni, antifone» e raccoglie testi e versi composti fra il ' 36 e il ' 45. Tornato dal Brasile, lavora ad Arti visive favorendo la conoscenza in Italia degli espressionisti astratti americani. In quegli anni corre impetuoso il fiume sotterraneo della poesia, che va sempre più perdendo nessi logici e grammaticali. E' una poesia le cui sorgenti, secondo Tagliaferri, si possono rintracciare «nelle tormentate chiose che un' antica arte interpretativa aveva accumulato intorno ai testi sacri». Gli stravolgimenti sintattici, la passione per la polisemia, il plurilinguismo dei suoi versi, ripropongono alcuni processi di scomposizione e di ricomposizione della lingua ebraica, segnala Tagliaferri. E lo stesso accade per i giochi allitterativi, per gli arabeschi di cui si nutre un lessico poetico dirompente ed eversivo. Ma dietro la frantumazione della parola, la sua corsa verso il nulla, Villa alimenta il tono di una poesia che echeggia la voce degli antichi profeti, «riscoprendo il linguaggio dei miti e catturando un senso primordiale della sacralità». I versi di Villa si disseminano in numerose riviste. L' editoria è sorda, ma la voce di Villa non si fa ascoltare (solo nel 1989 esce da Coliseum il primo volume, rimasto unico, delle sue opere; nel 2000 Empirìa ha pubblicato la raccolta Zodiaco). Neanche il sostegno di Bobi Bazlen, negli anni Cinquanta, riesce a sfondare il diaframma. E anzi si frantuma persino il loro rapporto di amicizia per l' accusa di Villa - infondata, secondo Tagliaferri - che sia stato proprio Bazlen la causa del fallimento. E' dalla rivista Ex, negli anni fra il ' 61 e il ' 65, che Villa parla alla nascente avanguardia, assumendo da subito un tono risentito, quasi avvertisse che gli veniva negata ogni primogenitura. «Si sentiva scalzato dalle nostre sperimentazioni», racconta Alfredo Giuliani, poeta e teorico di punta del Gruppo 63. «Una sera a casa di amici fui quasi aggredito da lui: l' isolamento lo rendeva rabbioso». Migliori rapporti, che negli anni diventano stretta amicizia, Villa intrattiene con Nanni Balestrini. Scorbutiche sono le relazioni con Edoardo Sanguineti. Gli ultimi anni di Villa consumano l' edificazione «di un destino di fallimento e di autoemarginazione», dice Tagliaferri. E nel mutismo Villa si spegne, lontano da tutti.
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