Riprendo in mano con un pò di ritardo (ma faute) questo "Secondi luce"
che Anna Ruotolo mi aveva gentilmente inviato. Dicevo da qualche parte
(v. Agostino Cornali qui)
che i giovani - spesso - sono i più tradizionalisti. Quello che dissi
per Cornali, può a mio avviso, in gran parte essere applicato a Anna Ruotolo.
Anzi, in un certo senso di più. Perchè, per quanto le affiliazioni al
'900 siano evidenti (per citazione diretta o indiretta, per epigrafe
ecc.), la giovinezza dell'autrice non le ha ancora metabolizzate o
rielaborate del tutto. Ne ha fatto piuttosto un modo, ponendosi proprio
al centro di ciò che alcuni chiamano mainstream, concetto forse un pò
astratto (e anche un pò ingeneroso) ma che rende abbastanza l'idea di
una poesia che corrisponde a un gusto o - detto semplicisticamente - a
un canone. Di certo a quello che forse si è costruita Anna, ma anche
probabilmente a quello che una buona parte di lettori si aspetta di
leggere, senza che in ciò tuttavia ci sia qualcosa di artatamente
premeditato. Semplicemente succede.
Nella sua prefazione Elio Grasso si esprime in maniera ellittica,
affaccia alcuni concetti critici con l'aria gentile di non darlo a
vedere. Accenna ad esempio a "mosse caute" (seppure decise), a una
lingua che "sa dove non può arrivare", a una maturità che però "sta
proprio nel fermarsi poco prima che la ricerca si disperda nella
nebbia", a un "porsi dentro luoghi consumati e renderli privilegiati", a
una "giovane donna attenta alla lingua storica". Ponendo con ciò,
correttamente, l'accento su un equilibrio di cui Anna senza dubbio
dispone, su un suo essere "dentro la propria corrente", ma nel contempo
definendo, come tentavo di fare, l'ambito poetico di Anna. Definizione
che, intendiamoci, serve relativamente, trattandosi "Secondi luce"
essenzialmente di un'opera prima. Con le timidezze e le cautele quindi
di un'opera prima, come si diceva, e senza particolarti assunzioni di
rischio, ma anche - ed è quello che conta - con una sua indiscutibile
sincerità di fondo, quella di una poesia che potremmo definire (usando
uno dei titoli) "ottativa", ovvero del desiderio, della possibilità,
dei piccoli dolori, in cui l'ispirazione, per lo più sentimentale, trova
spesso soluzioni poetiche accattivanti, specialmente in alcuni
accostamenti semantici che creano scarti inconsueti, e che pigiando un
pò sul pedale emozionale, rendendo la lingua un pò più "maleducata" e
l'io un pò più periferico, raccogliendo dati esperienziali nuovi,
potrebbero portare a sviluppi interessanti. In altre parole,
evitando proprio quel "fermarsi un poco prima" nella ricerca a cui accennava
Grasso, anche a rischio di assumersi appunto qualche rischio, se mi si
scusa il bisticcio. Perchè l'inventiva c'è, c'è l'accortezza di schivare
certe trappole del déja-vu, c'è una intelligenza poetica maggiore di
quella di tanti altri coetanei di Anna che mi sia capitato di leggere.
Ma poi, al di là di tutto ciò o di scelte poetiche su cui si può essere
in disaccordo o meno, la cosa più saggia resta, come spesso accade,
l'abbandonarsi ad una lettura partecipata, cercando di cogliere
empaticamente la giovinezza di questi versi.
A
San Giuliano Terme, il paese dove ho passato parte della mia
adolescenza e giovinezza, prima di andare a vivere dieci
chilometri più in là, la piazza principale, quella che guarda il
settecentesco frontone delle Terme, è intitolata, con tanto di lapide e
fregi bronzei, a Percy Bisshe Shelley. Il poeta era in effetti un
frequentatore delle nostre zone, tra il 1818 e il 1822, anno del suo
naufragio nel Golfo di La Spezia. Eroe romantico per eccellenza, insieme
al suo sodale (per un pò) Lord Byron, laico, anticlericale, fautore
(non sempre con successo) dell'amore libero, morto giovane come si
conviene agli eroi (come Byron e Keats) e cremato (anche per ragioni
igieniche: il corpo fu ritrovato dopo dieci giorni) con un gran rogo
sulla spiaggia di Viareggio, in un estremo rito denso di simboli a cui
assistette lo stesso Byron, Shelley rappresenta a pieno la dicotomia tra
una vita anticonformista e scandalosa e un'arte classica, formale e a
tratti retorica che tuttavia contiene ancora grandi motivi di interesse e
che comunque ebbe una notevole influenza, pur con qualche ritardo,
sulla poesia inglese delle generazioni successive. Pubblico qui, in una
mia versione, la nota "Ode al vento di ponente", pubblicata a suo tempo
all'interno del "Prometeo liberato" (1820), anch'essa concepita e in
gran parte scritta in Toscana, "in un bosco che costeggia l'Arno presso
Firenze, e in un giorno in cui quel vento tempestoso, la cui
temperatura è a un tempo dolce e ravvivante, andava radunando quei
vapori che rovesciano giù le piogge autunnali. Esse cominciarono, come
avevo previsto, al tramonto con una violenta tempesta di grandine e
pioggia, scortata da quei magnifici tuoni e fulmini tipici delle regioni
cisalpine". Credo proprio, a leggere la descrizione di Shelley, che il
vento di ponente fosse piuttosto un bel libeccio nostrano. (g.c.)
Un'altra delle mie riletture estive, un pò a "saltafosso" per la verità. Dopo Vitiello, Cattafi e Porta ora Scalise.
l'acqua sigla quei palazzi dove si affacciano uomini fotografati in pose diverse: la lezione di quegli anni è meglio dimenticarla, ha il grigio sapore del vissuto, la polvere vola fra gli alberi di un giardino straniero: le idee le ricavi dai libri, cominciando da capo, e in una definizione senza prospettive quella fatica arde nel cielo: come un quadro la realtà si rovescia, non indica una linea precisa: l'uomo va verso una nuova miseria percorre il cammino di tutti gli errori, prima di sapersi servire di una tradizione sbagliata.
*
lo spazio è ricavato dagli alberi: gli altri sono dei cerchi: guarda il vuoto: all'altezza degli occhi le immagini entrano nel gioco quotidiano; vi sono giorni contratti come numeri, il vento ricuce le acque; esser liberi senza ragionamento, esprimere desideri, alzarsi ogni giorno in quel punto esistenziale che ogni notte scende oltre il confine: al mattino scioglie parole, passeri sulle bucce d'arancia, gli alberi sono più dritti, le macchine passano fra le foglie, la casa si riflette nel vetro: lo spazio del tavolo è come un'autostrada, il seme dell'adolescenza non ripete quei gesti: se la maturità è linguaggio c'è una materia opaca che deride i visi tesi, gli entusiasmi
Fabbriche e treni perdono lucore, invecchiano, sbiadiscono col tempo, sconfinano nel bigio della nebbia. L'antracite perdura, abbasso, nera, fragile, dura, riflessi di metallo, terra chiusa e remota a lumi spenti. Ne intendo i segni, i cippi calcinati del confine, l'ala del fossile confitta sulla costa le mani rattrappite dei compagni naufraghi morti nel golfo senza mare. Può darsi avvenga domani un altro rogo non l'aperta l'allegra combustione che macchia l'aria di fumo e d'amaranto, la soffocante perdita dell'anima noi incastrati nell'ombra.
Penso alla pioggia, alla cenere, al silenzio che l'uragano lascia amalgamati nella vergine lapide di melma dove drappelli d'uomini e di bestie verranno ancora a imprimere un transito nel mondo, all'alba ignari sul nero cuore del mondo.
mi pesa, la memoria imminente, mentre mi ristoro, penso a te, che l'orlo è baratro ai miei piedi, né caldo né gelo, sosto, il visitabile azzurro è pene,
non sono: ogni flusso mi trapasso sulla retina, è tempo, se penso a te, spina nel cuore, ovvero mi tasto, e mi vivo, con la mano nella terra, fredda, d'amica,
saprò i finali: accendo il fuoco ora ch'è frigida aria, e non c'è segno, tra i nostri dialoghi muti o il cadere, quando in stanze è una rottura amara:
mi tengo il peso e mi trastullo nei tuoi occhi, legato libero, la moneta è il taglio esiziale, in me scavo infedele se la poca pianta non dà refrigerio.
14)
gioca, sole, su tronchi mi bilico proscritto, mi diffondo alfine per l'aria pulita, fumo: la limpida volta echeggia, fruscii voci ricordi:
si dispoglia ramo, veste, o io smagliato su celate trappole, e mi svendo, se ho sete, e l'osso mi sarà spezzato, il prossimo tiro, astragali, non mi sorprende, più: sono io,
non sono, o deperibile ultimo depilando essenze, raggiri sono oltre consumabili perdenze: evaporate, sono frutice pioppo sono ipsilon:
è il veloce corvo la pura luce l'alba serrata il sarmento rosso è la bavosa sassata, il battito dell'ore la lacera farfalla:
Canto II
2)
è odore quando miri la luce e gli alberi
la terra ci riacquista che girandole nere
ho incontrato occhio memoria la sedia
siedo di sangue rosso rombano favelle
e dici le trame né speranze né idoli
quando ti stringo la pianta secca
penetro in prigionìa pergamene girano
carezze mentre oscillo è disfatto il rammendo
questa storia sono ti recitano è
le tue parole mi strozzano perlina rossa
9)
le figure transitano in questo mio spazio dell'occhio, scandisco distanze l'usura di ogni mutamento, e nasce il mare e s'imbianca e inarca spergiuri:
ora è suono la pioggia o il sole liquefa la pietra, in acque: ale se ale vanno perdono coesioni convesse mi enumero per ristagno le tappe in promiscuo:
non serrate la porta quando mi taccio: vi respiri il vento, vi cresca l'edera o l'odorosa gaggia su panni di celeste mi rinfresca il cuore, quel becco:
che dalle larghe vie si disurbani la depauperata cecità: se la serra in caldo mi fissa se le voci sono libere: quando da travi nottola per lanterne attraversando;
rigo il poco bianco, cenno appena su un cencio una nota, e metto in contatto i poli e mi attardo senza costume, all'approdo è puro segno che mi dislaccia questa prigionìa:
testi tratti da Il Verri n.19/1980
Ciro Vitiello è nato a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Poeta e critico, dirige, per conto delle edizioni Guida, la collana di teoria critica "Idetica"; per l'editore Tullio Pironti, cura la "Biblioteca della Poesia Italiana Contemporanea".
Leggevo giorni fa su La Repubblica una notizia che mi ha richiamato qualcosa alla memoria. Il 10 gennaio prossimo debutterà a Roma Opfergang ("Immolazione"), il dramma in musica su testo dello scrittore austriaco Franz Werfel (il poema "Das Opfer", 1913), scritto dal musicista Hans Werner Henze su commissione dell'Accademia di Santa Cecilia. Per chi non lo sapesse, Henze (cito da Repubblica) "è l' ultimo gigante musicale che abbia percorso il secolo delle avanguardie. Oggi, a 83 anni, attivo e generoso di successi, è il musicista più eseguito al mondo, considerato una specie di monumento vivente in gran parte d' Europa". Da moltissimi anni vive in Italia, in una casa vicino a Marino, la sua musica (potete ascoltare qualcosa di suo, se volete, qui) ha colto spunti da Kafka, Holderlin, Mishima, adesso Werfel.E hanno scritto libretti apposta per lei autori quali W. H. Auden e Ingeborg Bachmann. Ecco il mio richiamo mnemonico: Ingeborg Bachmann, grande poetessa, con cui Henze ha condiviso per molti anni non solo l'arte ma anche la vita e l'amore, fin quasi all'anno della tragica morte di lei, avvenuta a Roma il 17 ottobre 1973 in circostanze ancora non del tutto chiare. Ed ecco quindi che sono andato a ripescare, in un vecchio libro di oltre vent'anni fa, qualcosa che mi era piaciuto.
I testi sono tratti da I. Bachmann - Poesie, Guanda 1988, Trad. Maria Teresa Mandalari
I giovani poeti sono i più tradizionalisti? Non tutti, ovviamente, ma molti . Come se nei loro versi si concretizzasse il tentativo, forse un pò ingenuo, di porre rimedio - a un mondo difficile da interpretare e da descrivere - semplicemente facendosi capire, con meccanismi collaudati in cui ritrovi, come in questi testi di Agostino Cornali, un bel pezzo del '900 lirico italiano. Che poi il mondo lo si faccia in brani e lo si tenti di descrivere un pezzo alla volta, "occasionalmente", questo è inevitabile e altrettanto novecentesco. Tuttavia in questo non c'è niente di male, se lo si fa bene, in maniera colta, senza manierismi né soggezioni né egotismi anzi - come qui - trascendendoli ampiamente, se si riesce a fare una poesia che altrove ho chiamato "confortevole", non perchè consolatoria (che non serve a nessuno) o semplicemente leggibile, ma perchè confidente e compartecipe con il lettore. La poesia di Cornali ha queste qualità, ed altre, come ad esempio una sua leggerezza di dettato, una maniera di depurare il linguaggio poetico. E' probabile che sia una poesia che non sottrae nulla al "vecchio" e non aggiunge nulla sull'altare del "nuovo", ma che ha buone potenzialità e segnali di un possibile sviluppo. Poi naturalmente molto dipenderà dalla materia poetica che Agostino vorrà trattare in futuro. (g.c.)
Libro da meditazione, questo di Emilio Paolo Taormina (edizioni del Foglio Clandestino, 2009), come molti vini di Sicilia. Costruito su testi brevi e apparentemente occasionali, con una "scrittura del frammento e della dislocazione" secondo Massimo Barbaro, ed echi ineludibili di Ungaretti, di Montale, di Pascoli e perfino del Gino Paoli di "Sassi", dà subito l'impressione di essere stato scritto da un uomo intento ad odorare, di qualcosa di antico, forse un otium, qui inteso nel senso più nobile del termine e tuttavia niente affatto spensierato o alieno da pene. Libro di odori e profumi, innanzitutto. Non si contano le volte in cui spuntano tra i versi il gelsomino e i limoni, in cui la brezza diventa qualcosa di tangibile e olezzante di salsedine. Il mare infatti è sempre vicino, visibile e udibile, presenza ctonia e testimone di una insularità dell'anima, componente essenziale, come la campagna e le colline, di una natura sempre presente e naturata ovvero familiare e perpetua, che fa da tessuto sinestetico alla scrittura del poeta. Anche quando parla d'amore o di morte l'io è immerso in questa natura, dove l'io stesso abita in maniera inscindibile. E questo essere nella natura non è puro paesaggio o sfondo, anzi implica, se si può dirlo in termini cinematografici, un movimento di macchina o dello sguardo dal circostante mondo all'interno dei sentimenti e viceversa, e con ciò quindi una corresponsabilità della visione della natura nella formazione del pensiero. Che prende forma spesso in testi essenziali, dalla versificazione corta e spezzata fino al limite del singolo lessema, che scende fino all'aforisma e ricorda (ovviamente) l'haiku, ma anche altri maestri della forma "corta" italiana, ermetici e non, nel pieno di una tradizione a cui Taormina non può non appartenere. Un esempio per tutti:
attraversando un campo di papaveri il disco trasparente della luna
Naturalmente il lavoro di Taormina si svolge anche su testi di più ampio respiro, che sinceramente sono quelli che preferisco anche perchè in essi l'idea poetica, pur fulminante già nei componimenti brevi, ha modo di svilupparsi nelle sue sfumature più liriche. Ma in tutti il procedere del linguaggio è lineare e sottrattivo, quasi scarno, fatto di tempi verbali semplici, di sostantivi concreti e terragni, e una aggettivazione non ricercata che rimanda piacevolmente a una koiné familiare, come una confortante aria di casa, anche in quei testi in cui la riflessione si sofferma sul dolore, sull'assenza, sul tempo che scorre inesorabile e a cui siamo legati, tutti, da uno "sposalizio". Perchè, è bene dirlo, in tutte le poesie, anche le più "leggere", anche nelle nature morte guttusiane fatte di poche parole vibranti è presente una costante meditazione e il giudizio non è mai sospeso, pure nei momenti in cui il poeta sembra immerso in una sorta di contemplazione . Questo flusso che attraversa un libro che con qualche ragione possiamo definire filosofico va di pari passo con un flusso armonico di testi - susseguentisi fittamente e la cui separazione è quasi una convenzione - che inviterebbe a leggerlo con una certa avidità. Al contrario, forse più di altri libri di poesia e proprio perchè meditata, questa raccolta va affrontata con qualche lentezza, anche per contrastare un certo effetto di saturazione e di vertigine che la ferrea compattezza stilistica suscita. Va sfogliata cioè come un libro dei pensieri, uno o due al giorno, da leggere sotto una pergola con un bicchiere di Malvasia di Lipari, alzando ogni tanto lo sguardo verso il mare. (g.c.)
Sei poesie di Rita Regina Florit, in parte inedite. Una presenza costante della natura che mi ricorda il Pier Luigi Bacchini delle “Contemplazioni meccaniche e pneumatiche”( v. qui ), un vecchio poeta che i cosiddetti “giovani”, che tendono a leggersi tra loro, ignorano. Ma la natura, in queste poesie di Rita, nasconde sempre un’ulcerazione che affiora nella scelta di parole “dure”, di vario peso semantico (drago, irrequieto, ustorio, appassendole, artigliate, spietato ecc.) che stemperano il lirico e che ci dicono attenzione, persino gli iris nascondono qualcosa, anche la viola porta con sé un dolore. Insomma, un correlativo oggettivo che ha ancora una funzione memoriale, di rielaborazione del dubbio, ma con una punta di moderna, sana “cattiveria”
Suddiviso in nove parti come Mediterraneo di Montale, Meridiano Ovest racconta in versi le ore che intercorrono tra un venerdì sera e un sabato mattina: uno dei tanti venerdì notte in cui i ragazzi italiani, dopo una settimana di lavoro o di studio, si riversano nelle discoteche o nei locali notturni, forse con la speranza di trovare, per mezzo di quella esperienza, «una direzione / possibile solo dopo una veglia» (VIII). Il monologo pensante di Del Sarto prende avvio da una corsa «sull’asfalto dell’autostrada», in macchina, a musica accesa, con i «battiti che si ripetono nell’abitacolo» (I), e termina ancora in macchina, mentre «una stazione FM» risuona «nel vuoto / delle cose» (IX); la scrittura scaturisce con la luce intensa e infuocata del tramonto che getta le ombre lunghe sul guard rail, e si arresta, specularmente, quando l’alba trapassa il parabrezza, mentre l’auto procede sugli stessi viali che avevano dato il titolo alla prima raccolta del poeta trentacinquenne di Massa (I viali, Borgomanero, Atelier 2003); […] l’io che il lettore accompagna nella sua traversata notturna è un uomo solo, inquieto, nevroticamente in attesa di quel simulacro d’affetto che è l’sms, «gioia nervosa» o «desiderio di calore, corpi» (V). […] il poema di Del Sarto somiglia a una lastra fotografica nera impressionata da una galassia di luci, naturali o artificiali, senza che tra le due tipologie esista una qualche differenza sostanziale di significato. Dalla luce, infatti, Del Sarto sembra ricavare quella fiducia che lo salva dalla disperazione cui pure il nulla che si annida dietro le cose, montalianamente e rilkianamente (Duineser Elegien, VIII), parrebbe doverlo condannare. (dalla prefazione di Massimo Gezzi)
Respiro quest'inverno sospeso
e tutto fuori è pieno di te.
Chiara appare
l'immagine del tempo
un imbroglio che passando
cambia solo ciò che vuole.
Conservo i ritagli dei miei sogni
per un puzzle
da fare insieme
un giorno
davanti al fuoco.
Cade dall'agenda un altro anno
l'erba cresce ancora
e le persiane
restano chiuse.
IN CHE MODO
Lo sai
sono per te
i petali del mio cuore
per te che fai
un passo avanti
e dieci indietro
che t'affacci
tenero
al balcone di notte
e chiudi le imposte a mezzogiorno.
Io tengo in un vaso
i tuoi pensieri
e i miei a mazzi
raccolti nei cassetti
ma non so ancora
in che modo
il bucaneve
sopravvive all'inverno.
Di Teresa Ferri ho scoperto per caso che si tratta di una poetessa cha avevo già avuto modo di notare, seppure sotto un pseudonimo, quasi otto anni fa, quando i blog non esistevano e io mi divertivo a curare la sezione poesia di un defunto sito letterario, I Fogli nel cassetto (ne ho già parlato qui tempo fa). Mi fa quindi piacere pubblicare qui qualche suo testo, di un lirismo limpido e contenuto, fatto di parole "senza orpelli", di "qualche nota (...) dallo spartito uscita".
Teresa Ferri insegna “Teoria e pratica del testo letterario” nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Nel 2001 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Fiori di corallo (Pescara, Tracce); successivamente Alfabeti a perdere (Roma, Il Filo, 2004); una terza raccolta di liriche, Campanile d’aria, è uscita di recente per i tipi di Carabba (Lanciano). Diverse sue poesie e racconti sono apparsi su riviste e in antologie di poeti e scrittori emergenti. Con Fiori di corallo e con alcune liriche inedite ha vinto diversi premi nazionali e ha conseguito varie segnalazioni. Tra i numerosi studi e contributi critici, si segnalano le monografie su G. Pascoli (Pascoli. Il labirinto del segno. Per una semantica del linguaggio poetico delle ‘Myricae’, Roma, Bulzoni, 1976; Riti e percorsi della poesia pascoliana, Roma, Bulzoni, 1988); su U. Saba (Poetica e stile di Umberto Saba, Urbino, QuattroVenti, 1984); su D. Campana (Dino Campana. L’infinito del sogno, Roma, Bulzoni, 1985) e il volume Le parole di Narciso. Forme e processi della scrittura autobiografica (Roma, Bulzoni, 2003). Sia su scrittori otto-novecenteschi (D’Annunzio, Manzoni, Quasimodo) che su quelli contemporanei (Bossi Fedrigotti, Conti, Duranti, Lunardi e Tabucchi), sono apparsi diversi contributi in riviste e miscellanee italiane e straniere. Infine ha curato monografie, antologie e ristampe di testi letterari di autori abruzzesi dell’Otto e Novecento (E. Marcolongo, D. Ciàmpoli, E. Janni).
Un testo di difficile interpretazione, tratto da un libro di cui ho già parlato brevemente qui e a cui dà il titolo. Tuttavia è Montale al suo meglio, un brano "notevole, intanto per la tensione e l'ampiezza di un discorso poetico che si distende, con calibrata regolarità e studiate simmetrie, lungo quattro strofe di otto versi tendenzialmente lunghi, fino alla misura del doppio settenario, tutte allacciate dalla rima, o dall'assonanza, dell'ultimo verso; e ricca di una trama di riferimenti intratestuali a una collaudata costellazione di correlativi e di simboli, dallo specchio all'ombra del giglio rosso, dalla bava d'aria nell'afa alle lenti affumicate (Renzo Cremante, Introduzione a "La casa di Olgiate" - Lo Specchio Mondadori)".