Martedì, 25 marzo 2008
Un altro articolo,dopo quello dell'11 marzo,inviatomi da Matteo Veronesi, questa volta dedicato al tema, difficile ma gravido di prospettive, della grazia sotto il duplice profilo etico/metafisico ed estetico/artistico. Colgo l'occasione per ricordare un altro importante articolo (Classicità, sublime, avanguardia) apparso su Absolute Poetry nel febbraio 2007 (v. qui). Ringrazio Matteo e segnalo che il link al suo sito è, da sempre, qui a lato.
La Grazia terribile del Verbo
Come ha sottolineato di recente, nella fondamentale voce "Grazia" della rinnovata Enciclopedia filosofica edita presso Bompiani, un giovane estetologo, Martino Rossi Monti, un nesso sottile ma essenziale congiunge la “grazia” intesa in senso etico e teologico e quella intesa sul piano estetico ed artistico.
Se la prima è uno stato che predispone l’anima alla purezza, al candore, alla luce, all’apertura verso il divino nel duplice senso di avvicinarsi ad esso o di accoglierlo in sé, di abbracciarlo con slancio trascendente o come Danae riceverne dalle altezze del cielo il vivificante effluvio, la seconda (enfatizzata soprattutto, in antitesi al preteso “cattivo gusto” barocco, dall’estetica settecentesca, ma già sottesa alla charis, alla raffinata, dotta e studiata eleganza inseguita, in età ellenistica, dalla poetica alessandrina) è, o sarebbe, invece, nell’arte come nel comportamento, nella musica e nella danza come nella parola, qualcosa di non dissimile, forse, dalla “leggerezza” (peraltro un po’ leziosa, stucchevole, scintillante fino all’eccesso) teorizzata dal neoilluminista Calvino nelle Lezioni americane: un carattere di armonia, di equilibrio, di limpidezza, di compostezza e insieme di levità, di alata soavità, di autodominio e di misura garbati, consci, apparentemente spensierati e negletti, e sorretti, invece, da quella che nella teoria dell’esecuzione musicale si definiva “sprezzatura”, cioè dalla capacità di superare ogni asprezza, ogni ostacolo, ogni difficoltà tecnica con una naturalezza e una noncuranza che erano frutto, in realtà, di studio e applicazione assidui (in quest’ultimo senso, l’ideale estetico della grazia non è poi lontano dal precetto dell’”ars celare artem”, dall'ideale di una pascoliana e luziana “naturalezza del poeta” che trae nutrimento e sostegno dallo studio, dalla ricerca, dalla meditazione, e nel contempo le maschera, le alleggerisce, le filtra, fino a dissimularle e a farle quasi scomparire).
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Martedì, 11 marzo 2008
Ripropongo qui, su suggerimento dell’amico Matteo Veronesi, l’articolo da lui scritto per “Pagina Tre”, la rivista on line di Liber Liber, nel quale prende in esame i recenti lavori degli eteronimi Marco Merlin “Nodi di Hartmann”; e Andrea Temporelli “Il cielo di Marte”, con la sua consueta lucidità critica. Matteo era già stato presente su questo blog con una sua recensione dell’antologia di Daniele Piccini “La poesia italiana dal 1960 ad oggi” (v. qui) e con alcune sue poesie (v. qui)
IL DUPLICE RESPIRO. MERLIN E TEMPORELLI FRA CRITICA E POESIA
Due libri, l’uno di poesia, l’altro di critica (Il cielo di Marte, Einaudi, Torino 2006, e Nodi di Hartmann, Atelier, Borgomanero 2006), giungono fra le nostre mani, direbbe Renato Serra, come un «dono», come un frutto puro, limpido e fresco, madido della stessa linfa vitale e vivificante che pervade i due risvolti e i due dominî (contrassegnati e marcati dalla distinzione, o dall’indistinzione, dell’identità una e duplice – quasi ricoeuriana dialettica di ipse e idem – suggerita dal binomio di pseudonimo e nome) in cui si manifesta e si articola una autentica esperienza esistenziale e creativa.
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Venerdì, 30 giugno 2006
L’amico Matteo Veronesi mi invita a segnalare sul blog un suo articolo su considerazioni in margine alla pubblicazione dell’antologia di Daniele Piccini “La poesia italiana dal 1960 ad oggi”. Lo faccio volentieri perché apprezzo il lavoro di Matteo sia come critico che come poeta. Avevo già avuto infatti l’occasione di segnalare alcuni suoi testi poetici, la raccolta “In treno, a volte…” , di grande interesse. Le osservazioni di Veronesi sul lavoro di Piccini, che già altre critiche aveva sollevato, specialmente sul merito di certe esclusioni e inclusioni e del discrimine temporale del 1960, sono colte e argomentate, come il suo solito, anche se non sempre condivisibili, e si inseriscono perfettamente nel dibattito attuale sulle condizioni della poesia in Italia, una poesia ancora così profondamente “novecentesca”, anzi spero che lo alimentino ulteriormente.
LA POESIA ITALIANA DAL 1960 AD OGGI (considerazioni in margine all’antologia di Daniele Piccini)
Mercoledì, 2 novembre 2005
Matteo Veronesi
è nato a Bologna nel 1975, dove si è laureato ed ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica discutendo una tesi, redatta sotto la guida del
professor Fausto Curi, concernente gli echi e gli influssi della concezione del critico come artista e come scrittore nella cultura letteraria italiana
dall’estetismo agli ermetici.
Ha pubblicato, oltre a diversi saggi critici e articoli, alcuni testi poetici, tra cui Controra (S.Lazzaro di Savena, 1990) e La buona solitudine (ivi, 1993). Altre indicazioni sulla sua attività possono essere reperite all’indirizzo http://it.geocities.com/matteoveronesi/
Gli è stato conferito per due volte, nel 1998 e nel 2004, il Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
In treno, a volte...
In treno, a volte, donne dolci e tristi
guardano il vuoto, oltre i vetri
con gli occhi intrisi d'attesa
e lontananza
Pensano, forse, a un qualche tenue amore
che le attende, o che hanno
lasciato dietro sé
come un fiore essiccato fra due pagine
Ma forse più dolce della meta
è il sospeso languore che trema
nel loro sguardo
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