Venerdì, 8 giugno 2018
Joan Josep Barceló i Bauçà - Collegamenti covalenti - Aletti
editore, 2017
Joan Josep Barceló è un poeta catalano, anzi per la precisione
maiorchino, che ha intensi e frequenti rapporti con l'Italia e la sua
poesia. L'ho incontrato di recente a Bologna, dove era uno dei
finalisti del Premio "Bologna in lettere" per l'opera inedita. Ho
ascoltato le sue poesie in italiano, ho chiesto che le rileggesse nella
loro versione originale, in catalano. Lo scopo era ottenere proprio
quello che mi aspettavo, un senso/suono, una musica appunto
"originale", cioè qualcosa che filtra in chi legge o ascolta ad un
livello un po' più sub-limen, più vicino all'atto di creazione. La
poesia è anche questo.
In questo libro, tradotto in italiano (anzi riscritto, non vi è testo a
fronte) dallo stesso autore, ritrovo senso, suono e liricità di quelle
poche poesie ascoltate. La conferma di uno stile, di una disposizione
poetica che mi erano piaciuti, una poesia che sfuma le cose, le
percezioni, le esperienze, le avvolge in una atmosfera vagamente
surreale che le agita. Liriche soprattutto, sì, voci di un io molto
presente però non particolarmente egotico, capace di muoversi abilmente
tra altezze diverse, diciamo tra una terra tangibile, amorosa e
sensuale, e quindi grata e vitale (una "esegesi terrosa che crea la
vita"), e un cielo dove insieme collocare e da cui trarre la parte
volatile, la dimensione extrareale dei nostri pensieri, forse delle
nostre angosce o dubbi circa l'esistere. Come i legami covalenti a cui
allude il titolo (una proprietà chimica, una sovrapposizione, anzi una
comunione di atomi che annoda elementi) gli elementi materiali e
immateriali (come ad es. lo sperma e l'aura sentimentale delle
relazioni amorose) della poesia di Barceló si fondono, creano un
diverso o più forte oggetto. Non è tanto da dove si muove, questa
poesia, quanto dove giunge, dove si realizza - anche velocemente (i
testi sono tutti relativamente brevi), anche semplicemente se si vuole
- "l'artificio che gioca con l'aria". Mi pare che ci sia nella poesia
di Barceló una fiducia sia nel potere evocativo del suo particolare
linguaggio poetico, che per l'autore appare essere tanto più forte
quanto più esso è sfumato, o - come si diceva - "semplice"; sia nel
manifestarsi, con altrettanta immediatezza, dell' avvenimento
poetico in ogni momento, come un fatto naturale su cui
costruire il suo testo. Cioè per Barceló la poesia è ovunque e ovunque
determinata, per quanto molto di essa ruoti intorno a un centro in cui
l'io, poetico e autoriale, si colloca stabilmente. (g. cerrai)
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Mercoledì, 2 agosto 2017
Non c’è estensione più grande della mia ferita, piango la mia sventura e i suoi congiunti e sento più la tua morte che la mia vita.
M. H
Miguel Hernández nacque il 30 ottobre del 1910 a Orihuela, nella regione sudorientale della
Spagna che si affaccia sul Mediterraneo. Fu il secondo figlio maschio di un’umile famiglia di pastori di capre. Ricevette i suoi primi insegnamenti
tra il 1915 e il 1916 presso il centro di insegnamento “Nuestra Señora de
Monserrate”. Completò la sua formazione primaria tra il 1918 e il 1923.
L’anno dopo si iscrisse al collegio di “Santo Domingo” di Orihuela, tenuto
dai padri gesuiti, ma molto presto dovette lasciare il corso di studio per
il conseguimento del diploma, a causa del volere del padre, e impegnarsi
esclusivamente nel mestiere di pastore. In questi anni si dedicò alla
lettura di tantissimi autori classici spagnoli e scrisse i suoi primi
componimenti poetici. Partecipò a vari cenacoli letterari di Orihuela,
organizzati dal suo amico Ramón Sijé, in occasione dei quali conobbe
Josefina Manresa, che sposerà qualche anno più tardi e che fu ispiratrice
di molte delle sue poesie. Nel 1934 all’età di ventiquattro anni, pubblicò
la sua prima raccolta poetica dal titolo:
Perito en Lunas. Nello stesso anno si trasferì a Madrid dove conobbe molti illustri poeti,
tra i quali: Vicente Aleixandre e Pablo Neruda, con il quale fondò la
rivista “Caballo Verde para la Poesía”. Le idee marxiste di Neruda ebbero
una grande influenza sul giovane Miguel Hernández che si allontanò
progressivamente dal cattolicesimo per avviare una rapida evoluzione
ideologica che lo portò ad arruolarsi con i repubblicani durante la Guerra
Civile Spagnola, durante gli anni 1936-1939. Nel 1936 pubblicò la seconda
raccolta di poesie, ritenuta da molti critici la sua opera più importante,
intitolata:
El Rayo que nao cesa, nella quale spicca l’elegia dedicata alla morte dell’amico Ramón Sijé. Nello stesso anno sposò Josefina Manresa dalla quale ebbe due figli, il
primo dei quali morì nel 1938. Negli anni della guerra civile continuò a
pubblicare altre raccolte:
Viento del pueblo (1937),
Teatro en la guerra (1937) — raccolta di testi drammatici sulla guerra —,
El hombre acecha (1939). Alla fine della guerra, che vide la sconfitta dei repubblicani e la
nascita del regime franchista, ritornò a Orihuela, dove fu catturato e
condannato a morte. La pena fu commutata in ergastolo. Nel periodo di
detenzione lavorò alla sua ultima raccolta:
Cancionero y romancero de ausencias (1938-1941). Dopo essere stato trasferito in varie prigioni, morì il 24
marzo del 1942, all’età di trentadue anni, nel penitenziario di Alicante a
causa di una grave forma di tubercolosi.
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Domenica, 12 febbraio 2017
Alcune poesie di Juan Larrea (1895-1980), tratte dal libro "Versione
celeste", pubblicato in Italia da Einaudi nel 1969, con la traduzione e
cura di Vittorio Bodini (1914-1970), forse il massimo interprete della
letteratura spagnola, soprattutto barocca e surrealista. Serve
sottolineare innanzitutto che questa edizione costituisce la prima
mondiale della pubblicazione dell'opera poetica di Larrea. Il poeta è
stato uno dei nomi più nascosti (tanto che per un po' è stato creduto un
eteronimo dell'amico poeta Gerardo Diego) della poesia del Novecento,
non solo iberica, che Bodini aveva già preso in esame nel suo importante
testo "I poeti surrealisti spagnoli", pubblicato nel 1957 sempre per
Einaudi, definendolo "il padre misconosciuto del surrealismo
spagnolo". In realtà Larrea è un surrealista sui generis, perché pur appartenendo alla cosiddetta generazione del '27.
di cui l'avanguardia è componente rilevante, se ne è tenuto appartato,
ed è semmai con la sua permanenza a Parigi (dove insieme all'amico César
Vallejo conosce e frequenta Eluard, Tzara, Aragon, Desnos ed altri)
che entra in contatto con il surrealismo militante. E tuttavia, come
scrive lui stesso, "del movimento ho utilizzato solo quelle tendenze che
mi erano affini, ma non mi compromisi mai con esso. Anelavo anch'io a
trasferirmi in un'altra realtà, ma in maniera differente". In realtà,
mentre altri lo annettono ai cosiddetti "creazionisti" o agli
"ultraisti", è proprio Bodini a volerlo includere nella categoria del
surrealismo, pur ammettendo implicitamente che quello di Larrea è un
linguaggio tipico e personale, tanto che "il suo generico debito verso
Tzara non è maggiore di quello di ogni altro surrealista francese e
europeo". L'acquisto principale di Larrea in Francia è invece la lingua
in cui sono scritte molte delle poesie originali del libro, il francese
"che è la lingua franca della rivolta, il segno linguistico della
categoria del surreale che si fa linguaggio internazionale della
comunità dei poeti, data la sottonazionalità dell'inconscio collettivo.
Ciò che egli cerca è l'estensione dell'io sino ad includere i più remoti
angoli dell'universo, l'annessione dell'altra faccia della vita, sogno e
inconscio, la dislocazione di sé, la moltiplicazione del reale in
ipotesi" (Bodini). Ed è lo stesso Larrea ad affermare: "Non invano avevo
iniziato a svincolarmi dalla Spagna degli anni '20, fino ad arrivare a
comporre i miei testi poetici in francese. Mi ero estraniato dalla
poetica peninsulare, come fecero ugualmente nel loro campo i pittori".
Come scrive ancora Bodini, "Larrea attinge dal subliminale materiali
psichici junghiani carichi di retroscena, di vicende stregate e amabili,
che ci seducono senza conoscerle, ma fra cui nondimeno s'affaccia con
una qualche costanza una serie di cieli capovolti, di un cosmo
ribaltato, ma senza degradazione, con pazienza, nel fondo
dell'individuo, intrecciato ai suoi fili, alle sue relazioni più
personali". Da questi materiali Larrea trae una scrittura che affascina e
stimola, nella quale "i sostantivi nascono simultaneamente coi loro
sorprendenti predicati, e questo è già il segno d'un poeta di razza. Ma i
predicati sono azioni o relazioni fra le cose: la fittissima rete che
vengono a istituire fra di esse fa sì che l'universo di Larrea, unitario
e sensibile, si risponda da una parte all'altra, pronto a registrare
fino alle più insospettate lontananze il più piccolo evento o la più
piccola coincidenza che si verifichi in qualsiasi punto di esso", dice
inoltre Bodini. Che aggiunge: "ribadiamo la convinzione che ciò che
conta nella sua fabbrica poetica non siano gli oggetti ma le relazioni
che si vengono a creare fra di essi e fra essi e il poeta, la
equidistanza che egli riesce a mantenere, il suo andare e venire fra il
cuore e il cosmo nella loro più rigorosa oggettivazione". Se il testo
può apparire difficile (ma mai artefatto o "falso") quindi è perché, mi
sento di aggiungere, il poeta osa operare "tale prodigiosa dislocazione"
di sé, delle relazioni, del linguaggio. Basterebbe questo per
restituirgli il posto che merita nella poesia del Novecento, non solo
spagnola. (g.c)
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Mercoledì, 28 gennaio 2015
Emilio Coco - Mi chiamo Emilio Coco (Me llamo Emilio Coco)
le gemme – Collezione di quaderni di poesia a cura di Cinzia Marulli Ramadori
Edizioni Progetto Cultura, 13 - 2014
Ci sono luoghi della poesia che riferiscono in modo netto racconti
complessi e angosce filosofiche dell’intero mondo, infatti tracciano
linee creative semplici, ma con profondità e pienamente, partecipando
alla vita direttamente e attraversando le storie degli uomini e delle
cose. Emilio Coco, poeta di Foggia, autore della plaquette nata per la
collezione le gemme curata da Cinzia Marulli per Edizioni Progetto Cultura, dal titolo Mi chiamo Emilio Coco (Me llamo Emilio Coco)
è, a mio avviso, molto coraggioso a consolidare il reale con i ricordi
in un cammino di visione che diviene argomento letterario e, al tempo
stesso, materia spirituale. In queste preziose forme espressive,
introdotte e tradotte da Marco Antonio Campos, sono evocate densità di
immagini e presenze di creature indimenticabili che percorrono
concertazioni di mondi costituendo la mirabile sintesi della
poetica del novecento. Il soggetto e l’oggetto si identificano nella
conversazione diretta e indiretta con Dio: il destinatario/lettore è
l’attore socialmente vicino all’autore che partecipa in modo intimo
allo status elevato di coloro che fanno esperienza della
proiezione del mondo narrata, rivelata. La fusione è totale, intima,
partecipe. L’autore modula la tonalità e l’intreccio della sua voce, non
solo umana e meccanica, ma, soprattutto, voce poetica/corpus esuberante
e creativa, costantemente mista di filologia e natura,
all’irrefrenabile e marcata grazia della Luce: Ti rendo grazie Signore con tutto il cuore (Salmi, 138 di Davide). Coco uniforma tutta la sua silloge alla comunione ritrovata e possibile con la gioia della vita promessa,
per questo motivo ringrazia il Signore evocandolo quasi come fosse
ventre materno, quiete, preghiera e pace necessaria all’ispirazione e
alla libertà di tutto ciò che apparentemente è imbrigliato nello schema
bruto e orrido della società (distribuiva amore/ai neri e agli sbandati/per il modico prezzo di cinque euro).
Liberandosi da ogni artificio poetico, con immediatezza di espressione,
posa lo sguardo sul quotidiano contemplandone i cambiamenti,
valorizzandone le differenze temporali, le valenze comunicative nella
freddezza della vita di una prostituta o di una commessa, senza mai
giudicare. Il principio della semplicità è la regola che
orienta tutta la forza di questi versi che sanno affrontare il tempo e
lo spazio fuori e dentro la memoria: solo in questo modo è possibile
comprendere quanta promessa possa farci la vita e quanto desiderio possa
essere recuperato e contenuto dall’energia vitale del creato. (rita pacilio)
Continua a leggere "Emilio Coco - Mi chiamo Emilio Coco, nota di Rita Pacilio"
Giovedì, 8 agosto 2013
Canto e demolizione, otto poeti spagnoli contemporanei, a cura di Alessandro Drenaggi, Lorenzo Mari e Luca Salvi - Thauma Edizioni, 2013.
Otto poeti spagnoli (José Maria Gomez Valero, Juan Antonio Bermudez, Laura Casielles, Miguel Angel Garcia Argüez, Carmen Camacho, Pedro del Pozo, Manuel Fernando Macìas, David Eloy Rodriguez), per lo più della generazione nata intorno agli anni Settanta, con stili e poetiche (e anche riuscite) molto differenziati che sembrano confermare, in Spagna come in Italia, l'inesistenza di scuole o movimenti o perfino di linee di tendenza capaci di fare massa critica, di dare una visione coerente e critica del tempo che stiamo attraversando. Ma, ovviamente, certo il panorama poetico iberico non si limita a questi nomi ed è certamente più vasto di quanto non appaia qui. Va detto, in ogni caso, che iniziative come questa di Lorenzo Mari e dei suoi compagni sono sempre benemerite per l'apporto che danno alla conoscenza di quel che succede al di fuori dei nostri confini.
Pubblico di seguito i testi che personalmente ritengo i più significativi. Non vi è attribuzione del traduttore in quanto, mi è parso di capire, il lavoro è stato affrontato collettivamente. Le versioni originali sono in calce.
Juan Antonio Bermudez
Equivoci, vocazioni
Quasi tutti i documenti in cui vengo nominato mentono. Mi sono visto in fotografie che nessuno mi ha mai fatto. Chi mi elogia o mi insulta non hai mai mangiato alla mia stessa tavola; emanano il loro verdetto senza guardarmi negli occhi come chi firma un contratto senza averlo letto.
Io stesso scrivo in una lingua che ancora non ho imparato; ricordo città che non ho visitato; ho ancora sulle labbra il sapore di una donna che forse non mi ha baciato.
Le mie dita stringono l'aria calda lasciata dalla sua pelle come chi abbraccia il cadavere di uno sconosciuto.
Canzone sensata per una ragazza seria
È strana la vita ed è strana la vita irripetibile di ognuno, questo ronzio cosmico e la breve carezza di una pelle sulle proprie ossa, sulla spugna, sul fango, sulle arance.
È strana la vita, i suoi percorsi. Il ritmo di milioni di molecole (ciò che furono o sono, ciò che saranno) sfocia in noi ed eccoci qui, all'improvviso e nudi. Tutto quadra: le fughe trovano un senso, le tue cicatrici accusano i miei fallimenti e con paura e con ansia e con pigrizia una volta di più inventiamo il mondo.
Laura Casielles
Prima coniugazione
Trovare le parole fondamentali. Imparare come dire perdono nella lingua di chi irrompe, e buongiorno, e prendi e sono venuto a conoscerti, imparare come dire grazie nella lingua anche di quelli che distruggono e che anche si disfano, come dire caffè, amore, patria shalom, salam aalaikum, imparare come si dice vieni, entra, questa è casa mia in un Paese a sud del quale appena restano rovine, imparare obrigada, spasiba, imparare quali colori non esistono nelle lingue d'Africa. E come rispondere di sì a Pechino. Arrivare nelle città e scoprire i segreti del mercato, capire, imparare qual è in ogni terra l'etimologia di anima, e in che modo salutavano la paura i miei bisnonni.
Trovare le parole fondamentali. E poi parlare.
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Lunedì, 27 febbraio 2012
Nel solco
della consueta attenzione che Imperfetta Ellisse ha verso la poesia
contemporanea di altri paesi, pubblico qui alcune poesie del giovanissimo poeta spagnolo Javier
Vicedo Alós, tratte dalla raccolta Ventanas a ninguna parte (Ed. Pre-textos, 2010) e tradotte
da Antonio Buccelli (Antonio Bux), italiano in terra di Spagna. Altri testi, tratti dalla stessa raccolta e tradotti e introdotti sempre da Buccelli (che ringrazio per la sua gentile collaborazione), erano già stati pubblicati QUI
UN SOLO OCCHIO SU TROPPE FINESTRE
Ho conosciuto la poesia di questo giovane poeta nativo di Castellón ma residente a Madrid spulciando, come mio solito, tra le pagine web non solo
italiane, ma anche estere, alla ricerca di qualche valido verso sparso qua e là tra le innumerevoli galassie del mondo interattivo.
Quando ho incontrato i versi di Javier Vicedo Alós, non ho avuto tentennamenti; la trasparenza delle tematiche e del linguaggio di questo poeta non
lasciano dubbi di sorta: è questa una poesia straripante e diretta, che non indugia in futili narcisismi; una poetica bella così come appare, nuda e
cruda, quasi spavalda, che aumenta di tono nel suo esaurirsi, quasi a voler lasciare appositamente interdetto chi la legge; come a voler donare, in una
ipotetica sinergia autore/lettore, spazio e voce all’altro.
Sebbene tradurre sia sempre compito arduo e indelicato, e sebbene si tratti sempre di una riscrittura, di una nuova veste per una già cucita idea, non
ho trovato troppe difficoltà di “sintonia” nel tradurre Javier, vista l’affinità poetica che ci lega, né tanto meno spero aver stravolto troppo l’idea
originaria di fondo delle sue poesie e della sua lirica.
Una lirica questa, aspra e diretta, sottilmente aperta all’infinito e alla fatalità dell’esistenza; un dire che si fa in alcuni tratti più duro e
sprezzante, quasi intransigente, soprattutto nei confronti dell’uomo stesso, nonostante permanga l’impronta sostanzialmente esistenziale delle
tematiche affrontate. (Si nasce senza parole/e con tutte le parole distrutte /ce ne andiamo. da Omaggio verticale parte II).
Il titolo della raccolta invece, tradotto in italiano suona un po’ come “Finestre su nessun luogo” quasi a voler enunciare che il poeta osservi
l’infinito nella sua inesauribilità da un luogo neutrale, irraggiungibile; da dove fissare le coordinate anche della sua personale ristrettezza,
imposta dalla carne, dalla materia; dirigendo le proprie emozioni da una finestra (a volte totalmente spalancata, in altre solo socchiusa, in alcuni
casi totalmente serrata) che altro non rappresenta che la propria anima in balia di un mondo sempre più vuoto, stanco.
Il poeta ci invita così a percorrere a stretto contatto con sé questa profonda escursione verticale.
Le poesie hanno come tema centrale appunto questa visione ambigua e mutevole della vita: il desiderio d’infinito, ma anche la ricerca della realtà,
difficilmente rintracciabile; condizione da cui scaturisce l’amara riflessione che contraddistingue la maggior parte dell’opera.
E poi la particolarità quasi maniacale che Vicedo Alós riserva alla parola, resa monito, forse simbolo da preservare costantemente, come la finestra,
vera figura centrale di tutta la silloge. La finestra è qui metafora d’anima e di coscienza, una coscienza che non vuole piegarsi all’uomo, ma che
vorrebbe quasi distaccarsene, per magari ritornare a quegli stadi primordiali spesso invocati, in stretta simbiosi con tutti gli esseri della terra e
con il grande vuoto sapienziale dell’universo (Scomporre il mio nome in questa sera/come l’uccello che si schianta in canto/fino a intonare la sua
stessa assenza. da Ambizione).
Anima che comunque ritorna in sé e retrocede a vittima di un’esistenza da cui non si ha scampo, anzi, da dove riaffiora prepotente il desiderio/rigetto
di appartenerle (Rischioso il ritmo della carne/questo salto contro il mondo/ e la sua respirazione di corpi vincolati./Però lì è l’uomo: in quel rischio d’esserlo. da Desiderando mondo).
Una poetica quindi precisa e perentoria nella sua tematica, una riflessione sull’esistenza e sull’impossibilità di immedesimarsi nell’altro, anche
avendone la necessità costante.
Nell’ultima poesia di questa raccolta infine, Javier sembra lasciarci apposta socchiuso uno spiraglio verso il nulla ma specialmente ci lascia,
secondo il mio modesto parere, uno spiffero di segreto aperto verso le sue intime finestre; sapremo allora noi guardarvi dentro, ma soprattutto,
sapremo cosa e dove guardare?
Antonio Bux
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Lunedì, 11 luglio 2011
Mesi fa, nell'inviarmi il suo bel libro "Piedras al agua" (TusQuets Editores, Barcelona 2010) Antonio Cabrera allegava un biglietto in spagnolo in cui con molta modestia mi scriveva: "Amico Giacomo, sebbene abbia tradotto Vattimo, la mia conoscenza dell'italiano scritto e parlato è meno che elementare. Me ne scuso". Ebbene, anche io devo scusarmi, perchè mi trovo nella stessa situazione con lo spagnolo. Tuttavia, siccome non credo che questo possa inibire del tutto la voglia di ascoltare la voce lirica di Cabrera, con un po' di ausilii e di empatia poetica, ho provato a tradurre qualcosa da questo libro, che certo meriterebbe una versione integrale e accurata per il pubblico italiano. Chiedo venia per eventuali svarioni. Di Antonio Cabrera avevo già pubblicato su Imperfetta Ellisse, nella ottima traduzione di Emilio Coco, versi da "La meditazione del vetro e altre poesie" (v. QUI)
Continua a leggere "Antonio Cabrera - Pietre nell'acqua"
Lunedì, 21 giugno 2010
Poesia e verità
A Carlos Marzal
Nella natura non c’è niente di malinconico assicurava Coleridge. Sono uscito a guardare tra le nuvole quiete una luce simile alla luce triste che scrivono i poeti. Lo splendore solenne e ripetuto del tramonto al coprire l’aranceto è tutto quel che c’era. Si celava il sole che più volte hanno descritto le poesie che negano quanto sostenne Coleridge, ma il cui profi lo inoffensivo e nobile ho potuto osservare, e non era uno spento cristallo di pena.
Poi ho poggiato i miei occhi sopra alcune più semplici presenze, nel caso vi si trovasse l’alito estinto che offusca le cose essenziali della natura, a cui concede un dono oscuro, una verità ombrosa, già cantata: né nella vegetazione umile, né nelle braccia immobili dell’albero, né nelle pietre —che sono il tempo puro—, né nella casa in rovina dove si annidano gli uccelli, ho visto nel suo dominio la malinconia.
Perciò sono tornato dove ero, persuaso, sereno, e al tempo stesso avvolto interamente nella nuova ignoranza che questa certezza tesse, perché ho visto che nella natura niente è malinconico finché non la pensiamo. Chi la contempla ha, forse come Coleridge, la sola ansia d’essere testimone muto del suo muto fragore, ma nel considerarla, nel trattenerne la luce, si apre lì, irrimediabilmente, nella coscienza, l’esausto fiore mentale della malinconia.
Poesía y verdad
A Carlos Marzal
En la naturaleza no hay nada melancólico, aseguraba Coleridge. He salido a mirar entre las nubes mansas una luz semejante a la luz triste que escriben los poetas. El resplandor solemne y repetido del ocaso cubriendo el naranjal es todo lo que había. Se ocultaba el sol que tantas veces han descrito los poemas que niegan lo que sostuvo Coleridge, pero cuya silueta inofensiva y noble he podido observar, y no era un apagado cristal de pesadumbre.
Luego he puesto mis ojos en algunas presencias más sencillas, por si estuviera en ellas el hálito extinguido que ensombrece las cosas esenciales de la naturaleza, que les otorga un don oscuro, una verdad umbrosa, ya cantada: ni en la vegetación humilde, ni en los brazos inmóviles del árbol, ni en las piedras –que son el tiempo puro–, ni en la casa ruinosa donde anidan los pájaros, he visto en su dominio a la melancolía.
Así que he regresado adonde estaba, persuadido, sereno, y a la vez envuelto enteramente en la nueva ignorancia que esta certeza teje, porque he visto que nada es melancólico en la naturaleza mientras no la pensamos. Quien la contempla tiene, acaso como Coleridge, el sólo afán de ser testigo mudo de su mudo fragor, pero al considerarla, al detener su luz, se abre allí, sin remedio, en la conciencia, la exhausta flor mental de la melancolía.
De "En la estación perpetua" 2000
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