“L'arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”
Paul Klee, Confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, 2004
I principali scritti contro un realismo chiaramente desueto sono stati sviluppati da artisti figurativi. Questo perché la pittura e la scultura hanno abbondantemente superato il dato reale e l'artista si è trovato, in prima persona, a dover difendere la sua visione dagli attacchi di una cultura a base e limitazione classica dove, con classica, s'intende un'arte legata al realismo, al dato naturale rappresentato fedelmente. Il primo a pagare la sua pittura è stato Van Gogh che ha stravolto, in un mondo culturalmente ancora non pronto, la forma degli oggetti, i cari paesaggi e i volti facendo emergere in essi se stesso, la forza pulsante di un'interiorità creativa. Come tutti gli artisti che, con la loro espressione, hanno anticipato il clima storico in cui sono vissuti, anche Van Gogh pagò la sua innovazione: in vita vendette un solo quadro, comprato dal fratello Theo. Klee, Kandinsky, Haring accompagnarono le loro produzioni con interventi atti a ribadire e a rendere ferma la loro posizione artistica, necessari per difendere una pittura di rottura in anticipo rispetto all'abitudine culturale in cui si sviluppò. Scritti fondamentali per capire il processo creativo e comprendere come la pittura sia riuscita a inventare nuovi linguaggi, paesaggi stravolti dall'interiorità, espressioni al passo con il procedere della storia e che danno, al percorso dell'arte figurativa, una storia progressiva e lineare che procede, dall'imitazione del gesto quotidiano, come nelle pitture rupestri, al dilagare dell'interiorità sul dato verosimile. Questo sviluppo per tappe consequenziali e lineari manca alla scrittura creativa. L'analisi delle produzioni nel tempo rivela l'incapacità di superare il puro impatto oculare e il tentativo di trasformare, citando liberamente Paul Klee, la vista in visione, rimane abortito. Molti pittori considerarono benevolmente il fallimento nel cammino della scrittura riconducendolo alla tangibilità del grafema, alla sua concretezza intrinseca, a una duttilità molto inferiore nel materiale. Ma l'obiezione non può portare a una facile resa e non può essere considerata esaustiva a prescindere. Fatto sta che la scrittura creativa, la poesia in particolare, si è fermata, non ha saputo seguire la linea espressiva dell'arte figurativa, non si è rinnovata e, a un certo punto, dopo le ben auguranti avanguardie del '900, si è riavvolta su se stessa in preda a quella che sembra una preoccupante mistura di ignoranza, faciloneria e vuoto ideativo. Non solo non si è giunti all'astrattismo e neanche lontanamente avvicinati al cubismo ma, la cultura scritta, si è riavvolta su se stessa arrivando, nei momenti attuali di particolare sconforto, a ricollocarsi sulle posizioni di partenza: descrizione del gesto quotidiano, rappresentazione primitiva dell'intorno. La sua attenzione preponderante, sia concettuale che espressiva, è la cosa, oggetto o azione che sia, vissuto nella sua funzionalità basilare, pragmatica e non come punto di partenza per una trasfigurazione personale. Una limitazione a tutto tondo, dilagante fino al buon senso che attribuisce a modeste vedute sui propri dintorni, intenzioni superiori fino al fraintendimento fra proposta di una realtà, la propria, e definizione di realtà assoluta. Una volta per tutte è necessario dire che la realtà in quanto dato oggettivo è negata, impossibile. Tutto ciò che viene proposto in questa direzione è un punto di vista soggettivo. Scendendo a un livello basilare nella spiegazione: due persone litigano, il resoconto di una delle due diventa una poesia, in questo testo le colpe sono date all'altro. Questa non è la realtà, è un punto di vista, è il resoconto di come una delle parti ha vissuto una situazione ma non è possibile definire oggettivamente la scena neanche da una voce super partes! Ora, sfogliando una rivista di poesia, i testi presentati sono elencazione di eventi resi con uno stile che deve inchinarsi e riconoscere il suo debito all'ottocento. Autori nati negli anni ottanta esplicitano la loro non necessità parlando di Odisseo/Ulisse e Narciso, si inchinano alla cultura greca; autori nati negli anni settanta non inventano, non creano ma si appigliano a un sociale relativo per giustificare l'atto di devastare l'occhio del lettore con punti di vista buonisti su fatti personali o di cronaca. Il tutto alla luce della più bieca e disarmante retorica a cui l'acculturato della domenica assocerà il buon, inconsapevole Sereni. Come è possibile questo stato narcolettico che ha saltato tutto? da Zanzotto a Porta, dalla Rosselli a Pound, da Ginsberg a Sanguineti a Spatola? Ognuno darà una sua risposta al grande fallimento della poesia odierna. Personalmente ritengo sia necessario ripartire dagli ultimi autori che hanno avuto una spinta creativa e che sono associabili ai movimenti degli anni sessanta. Recuperarli, leggerli, conoscerli per cercare di dare un senso (forse una riduzione?) alla produzione poetica dell'oggi in cui sembra auspicabile una scrittura che banchetta sul cadavere ideativo del secondo novecento piuttosto che una scrittura che clona l'eterna perpetuazione classica del reale-relativo. (Maeba Sciutti)
1
Dunque, va bene, pazienza per le nostre anime i mari freddi, sopr'ì nostri colli nudi tremanti. Mangeremo dalla nostra mano vuota sorridendo vanitosamente. La teiera d'argento è sbattuta; ci siamo liberati subito dalla noia, in un attimo- corsa. Tentacoli di passione corrono come fanno le rose come fiammanti colate di opaca lava rossa. La nostra anima si lacera con passione, suo cammino. Il vento grida uffa! e se ne va. Fummo lasciati soli con nostra sorella ombelico. Bene, dunque impareremo a stuprarla. Sola. Parole nella loro fucina.
11
Gli occhi crudeli dei pochi fortunati erano una benedizione per la bassa moltitudine. Forse hai smarrito il mio cuore, lei pensava quando lui montò il suo corpo, senza il ringraziamento di un sorriso. Intra le scarpe che battono sul suo cuore è il fiume gelato che scorre sotto la tua anima. Un fiume tempestoso ha diviso i loro cuori e un mostro, dagli occhi crudeli, li ha generati e li ha traditi.
Chiamata dalla polizia corse a casa lasciò la festa dei pochi schiamazzanti. Porta con te la borsetta gridò il suo guardiano ciònonostante un'altra occasione generò anche lei.
12
Come senza valore era il suo itinerario alla fama lei collassò all'improvviso dentro la specchiata cornice che fu la storia sordida della resistenza dei pochi al massacro del mondo. Collassa tra e braccia del fratello lungo la spina impeccabile di guai! Così una fanciulla stanca tremava esile tra braccia più soffici di quelle del fratello, le sue forze, scivolose come il pianto del cavallo, le sue speranze tremanti di guadagno collassarono d'un tratto in un nuovo contratto indicibile.
14
tanto varrebbe che tu pensassi una cosa o l'altra di me; io non sto alla mercé della misericordia, né voglio la tua interpretazione, non avendone nessuna io stessa che potesse sopraffarmi. Ti ritiri dentro la tua cella febbricitante, come un angelo microscopico impegni battaglia con i miei pensieri, come fossero al mio rivoluzionario cuore, un campanello promiscuo. L'inferno stesso è quello che vuoi: un ago nella necessità, prevedendo che no sarò meglio di quello che tu mi vuoi.
15
Azioni nel mio cervello: questi verbi, la cui celerità resiste ad ogni dolore. La tenerezza stessa è pericolosa quando fuori diritto; uccelli agili questi verbi reclamano ignoranza. Il ramo nero del pensiero non lascia vita al pensiero; resiste ad ogni gioco con astuzia, spezie, desideri noiosi e cerca, nella sua maniera nera, di non morire.
Spezie troppo insipide per qualsiasi cervello si trattengono dal rabberciare l'affare: un sollievo per le calde membra.
Amelia Rosselli nella traduzione di Antonio Porta, Sonno - Sleep, San Marco dei Giustiniani, 2003
Credo che questo articolo, con la sua piccola selezione di testi, possa offrire un giusto contraltare al post "Corporea - Il corpo nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese", pubblicato il 7 settembre scorso (g.c.)
Il corpo segreto chiama il lettore a soffermarsi su una tematica che, pur essendo esposta alle esperienze di ciascun individuo, rimane relegata alla sfera del personale. Quasi inesistente come pensiero pubblico, archetipo condiviso, il corpo maschile riprende, in questa antologia edita da Lietocolle, quell'attenzione che solo la Grecia classica riuscì a dargli pienamente. Prima che assumesse, nel pensiero artistico e quotidiano, un ruolo subordinato alla fisicità femminile. L'antologia curata da Luigi Cannillo invita l'uomo a riflettere sulla sua corporeità, a graziare il proprio fisico con uno sguardo consapevole e rispettoso.
La consapevolezza nasce attraverso percorsi eterogenei: talvolta per confronto, ovvero incontro-scontro con il femminile, altro ma, al tempo stesso, riconosciuto, senza vergogna, parte imprescindibile e intima. In altri casi come dimensione di un movimento emotivo o erotico. Il movimento può stendersi dalla mente al corpo o dal fisico alla consapevolezza, ma l'esito è comunque lo stesso: riportare all'unità la persona.
La cultura consolidata nei secoli ha schematizzato l'essere umano in un ruolo sessualmente dipendente, fortemente limitativo nei confronti delle capacità organizzative, espansive e di crescita personale. Legando le esperienze a pochi ambiti socialmente approvati, la crescita della persona è stata frenata rispetto a quanto sarebbe stato possibile se ciascun essere umano fosse stato pensato senza ruoli prestabiliti e attesi. Così la figurazione maschile prevede tuttora un dominio della ratio e una sottostima dell'importanza corporea (mentre si può asserire l'opposto sulle aspettative legate all'essere donna).
“Il corpo segreto – Corpo ed Eros nella poesia maschile” (Lietocolle, 2008) ha diversi meriti: invita a pensare l'essere umano nella sua totalità; espande le dinamiche mentali dominanti accendendo i riflettori sulla fisicità di genere e chiama a cimentarsi su questo tema poeti (Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Tomaso Kemeny, Elio Pecora solo per citarne alcuni) con voci artistiche fuori dal comune. (maeba sciutti)
Questa scelta di tredici poesie inedite (tranne una) di Maeba Sciutti, forse arbitraria come tutte le scelte, risponde innanzitutto all’esigenza del tutto personale ed egoistica di fare chiarezza a me stesso, estraendo alcuni testi dalla massa inquieta e caotica che avevo ricevuto. Sul caos nulla da eccepire. Leggevo giusto oggi alcune parole di Francis Bacon, uno dei geni della pittura del ‘900, a proposito del suo leggendario studio che somigliava a un fantastico immondezzaio: “mi sento a casa nel caos, perché il disordine suscita immagini”. Il che è anche un’ottima definizione dell’entropia, se vogliamo, cioè il disordine primigenio e creativo. E’ quello che succede nella poesia di Maeba: l’esigenza primaria di combattere il grado zero della comunicazione poetica, le cose che lei odia di più, il già detto, il banale, il trito, il lirismo di risulta, estraendo immagini e temi dal caos, impegnandosia trattare queste immagini e temi con una ricerca inesausta di moduli espressivi adeguati, porta a testi a forza centripeta, cioè capaci di portare il lettore “dentro”. Questa esigenza primaria si accompagna, nel caso di queste poesie, a quella altrettanto urgente di farsi una ragione poetica dell’essere donna e corpo di donna, della crudeltà dei rapporti e delle cicatrici che ne derivano, della “diversità” tra i generi, de “l’ansia femmina di toccare l’armonia”, così spesso frustrata. Trovo del tutto naturale e positivo che queste due spinte primarie, insieme a una giovinezza curiosa e indisciplinata possano portare con sé il rischio di una poesia “urgente”, a volte incontrollata. Accettare questo rischio calcolato vuol dire viceversa ammettere con soddisfazione che i testi di questa selezione – compatti per senso e significato, stilisticamente coerenti, con un’idea dentro, perfino modernamente lirici - sono frutto forse del caos, ma con ogni evidenza non del caso.
La solitudine non è compagna del poeta, appartiene a ogni uomo e la fortuna sta nel diverso grado di consapevolezza che si ha della propria singolarità. Dario Bellezza non è stato fortunato, ha sentito la solitudine così intensamente da renderla indistinguibile dalla sua stessa carne.
Allorché il male non è riconoscibile in un oggetto esterno ma abita il corpo (corpo-mente o corpo-oggetto che sia) diventa impossibile trovare un nemico diverso da se stessi e, quel qualcuno da maledire o combattere di cui l'uomo cerca storicamente l'esistenza per placare i propri conati di aggressività implicita, viene a coincidere drammaticamente con il proprio Io. Allora il teatro quotidiano diventa la lotta fra l'amore estenuante per la vita e la consapevolezza di averne nel corpo, nel cuore, nella mente, la propria fine. Questa condizione non è eccezionale, ancora una volta ciò che fa la differenza è la comprensione. Dario Bellezza sa di essere il proprio avversario, di portarlo nel corpo come un male inguaribile. Impossibile ipotizzare un dramma più grande e infatti il poeta tracima, sviene, si rialza, barcolla ma resta sempre sull'orlo pericoloso della dissolvenza. Anche quando grida la rabbia verso “altri moribondi normali”, contro le “segrete immense rivalse della invidia poetica”, quando dice l'indicibile per l'uomo civilizzato e “contabile” che ha ancora qualcosa da perdere e cerca nella mediazione la sua salvezza personale, paradossalmente il lettore sente che Dario Bellezza può farlo perché non ha nessun futuro da barattare, perché ha raggiunto il culmine della sincerità nelculmine della disperazione (e forse il lettore-uomo medio non eroico pensa, con intima indignazione, che effettivamente il culmine della sincerità può esserci solo nel culmine della disperazione quando questa è intesa nel suo modo più pieno, più concreto e fatale: assoluta mancanza di speranza, assoluta assenza, certezza del non futuro).
“...Ora lo sento il tempo distante da me che vivo
fuori del tempo e nessuno mi ha in simpatia,
neppure quando grido che in Italia si può
essere, o ironia di una citazione!, solo
ideologici o arcadici. Sempre al servizio
di qualche re buffone, arlecchino dalle cento
piaghe...”
Coraggio nel fondere simbolo e suono trovando un linguaggio non già codificato ma personale nella sua espressione più piena. La formula sperimentata da Silvia Comoglio non ha equivalenti culturali di riferimento: l'autrice dà vita a trame leggere con grande, squisitagrazia immaginativa offre al lettore la sensazione di potersi avvicinare, per semplice abbandono sensoriale, all'infinito. Quella che si sprigiona da Ervinca è una poesia che si pone come momento di rottura sia nei confronti del linguaggio riconosciuto come codice culturale condiviso, sia nei confronti della tradizione poetica a matrice classica. Le poesie di questa raccolta sembrano, per l'uso che si fa di simboli e spazi, calligrammi estesi a rappresentare l'infinito e non più solo il figurato e, anche nello sguardo primo che precede la lettura, hanno il merito di suscitare nel lettore un' eco sensoriale.Ma, cito dalla nota di lettura, “Ervinca non si risolve solo in questo. E' un mondo in cui chi vuole può addentrarsi, provare a scoprirlo e decidere cosa sia. Tenendo però sempre presente che in Ervinca hanno un ruolo importante il suono e la ricerca fonetica, perché il suono è il tempo che continua, la vita che non si arresta”. (Maeba Sciutti)
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