Lunedì, 5 ottobre 2015
Marco Ceriani è nato nel 1953 a Uboldo (Varese), dove attualmente risiede. Con i suoi “rari e laconici messaggi”, affidati a due libri (Sèver,
Marsilio 1995; Lo scricciolo penitente, Libri Scheiwiller 2002) e ad alcune riviste («Almanacco dello Specchio», «Poesia», «Anterem», «Atelier»,
«Microprovincia», «Colophon», «Sud»), ha raggiunto “rari e distonici” critici-lettori di poesia. Ha tradotto, con la consulenza linguistica di Vlasta
Fesslová, poesie dell’Holan ultimo, l’Holan “cameristico”: dapprima, in un a solo temerario, Il poeta murato, (Fondo Pier Paolo Pasolini
- Garzanti 1991), e, in seguito, a quattro mani con Giovanni Raboni, maestro del tradurre, A tutto silenzio (Mondadori 2005) (da una nota editoriale Polistampa.com). Prima delle opere citate era apparso, insieme ad altri autori, in un "Quaderno collettivo" su Poesia Uno (Guanda, 1980), curata da Maurizio Cucchi e Giovanni Raboni, da cui sono tratti questi testi. Nella piccola nota introduttiva, con ogni
probabilità attribuibile allo stesso Raboni, si legge:
"Bizzarro, stravagante outsider, Marco Ceriani ci fa compiere un insolito viaggio nella crudeltà ineluttabile e nella grande pietà della natura. Visti dai
greci, dagli antichi egizi, dagli achei o dai micenei, ecco, di fronte allo sguardo imperturbabile eppure interessato del cacciatore, uccelli da richiamo e
soprattutto uccelli da preda, che Ceriani nomina e raffigura con l'obiettività asciutta e il controllo stilistico di un manuale. È notevole il fascino che
egli sa sprigionare da questi spezzoni di una storia possibile, appiattita al livello della pura descrizione, all'interno della quale, peraltro, si
dimostrano più volte, con non certo mediocre meraviglia, momenti di piena luce, stacchi di tono che con la rapidità di un volo improvviso colpiscono il
lettore, lo avvincono alla pagina, lo infiltrano inaspettatamente nel senso, nel cuore della vicenda: « E così a poco a poco ci siamo inerpicati, goduto
l'evolversi in sereno, purezza dei culmini dopo il tempo piovoso giù a valle, alla tangente incontaminata dell'urna alpestre ». Giampiero Neri (ma anche
Ponge, forse, andrebbe ricordato...) è senz'altro il poeta che per Ceriani ha funzionato da rivelatore, da incoraggiante guida su una strada che l'autore
di Iscrizioni dimostra tuttavia di aver già felicemente intrapreso in proprio". Mi pare interessante notare, in margine al dibattito attuale su prosa poetica o prosa in
prosa che si svolge in questi anni, che questi testi, scritti probabilmente alla fine degli anni Settanta, costituiscono quanto meno un ottimo precedente
in termini di contaminazione e poetizzazione dei linguaggi, di innesti di piani narrativi, di "sconfinamento" e attraversamento di codici, ma con molto
meno appiattimento linguistico e raffreddamento comunicativo di molti altri esempi successivi. Naturalmente Ceriani è altro da questo (o non solo questo), come dimostrano anche i suoi ultimi lavori Memoriré (Lavieri) e Gianmorte violinista (Collana Stampa).
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Giovedì, 29 luglio 2010
Un'altra delle mie riletture estive, un pò a "saltafosso" per la verità. Dopo Vitiello, Cattafi e Porta ora Scalise.
l'acqua sigla quei palazzi dove si affacciano uomini fotografati in pose diverse: la lezione di quegli anni è meglio dimenticarla, ha il grigio sapore del vissuto, la polvere vola fra gli alberi di un giardino straniero: le idee le ricavi dai libri, cominciando da capo, e in una definizione senza prospettive quella fatica arde nel cielo: come un quadro la realtà si rovescia, non indica una linea precisa: l'uomo va verso una nuova miseria percorre il cammino di tutti gli errori, prima di sapersi servire di una tradizione sbagliata.
*
lo spazio è ricavato dagli alberi: gli altri sono dei cerchi: guarda il vuoto: all'altezza degli occhi le immagini entrano nel gioco quotidiano; vi sono giorni contratti come numeri, il vento ricuce le acque; esser liberi senza ragionamento, esprimere desideri, alzarsi ogni giorno in quel punto esistenziale che ogni notte scende oltre il confine: al mattino scioglie parole, passeri sulle bucce d'arancia, gli alberi sono più dritti, le macchine passano fra le foglie, la casa si riflette nel vetro: lo spazio del tavolo è come un'autostrada, il seme dell'adolescenza non ripete quei gesti: se la maturità è linguaggio c'è una materia opaca che deride i visi tesi, gli entusiasmi
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Mercoledì, 5 maggio 2010
L'elevata temperatura che caratterizza questi primi versi editi di Dario Villa sembra porlo in una suggestiva zona d'incontro tra espressionismo tedesco, beat generation, Dylan Thomas e certe recenti e ormai diffuse esperienze neoromantiche del tipo di quelle ospitate sulle pagine della giovane rivista « Niebo ». Qualcosa, insomma, che spesso naviga con acume e intelligenza tra Stati Uniti e India, tra rock e Mahler. Niente di strano, dunque: un'atmosfera, un volto del presente, del nostro metallico presente, secondo il filtro, l'invenzione, l'ironia e l'autoironia di chi non ha difficoltà a dire « so di non essere in fondo / che un essere autobiografico ». Un humour che preserva Villa da ogni caduta, una vivacità controllata da una robusta cultura che gli permette di esprimersi sempre a un livello di europeo buon gusto. In altre parole, Villa si fa conoscere attraverso uno stile senza impacci e conosce le norme di un suo esatto codice retorico, senza disdegnare le tinte forti né quel tanto di simpatica gestualità che ravviva il gioco, con il minimo d'orrore che la scena impone.
(questa nota, posta in apertura alla prima uscita a stampa di questi versi di Dario Villa avvenuta nel 1980, è probabilmente attribuibile a Giovanni Raboni, uno dei suoi primi estimatori e autore di un appassionato necrologio alla morte di Villa, avvenuta nel 1996)
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Martedì, 14 febbraio 2006
BNL, BPI, Unipol, intercettazioni, furbetti del quartierino, crack e dimissioni: in questo tempo di turbolenze finanziarie (come se le altre non bastassero), mi sembrano quanto mai appropriate le parole di un poeta della finezza del compianto Giovanni Raboni, che vorrei qui riproporre almeno come segno di ammirazione per la sua enorme capacità di osservare il mondo e gli uomini. Risalgono addirittura al 1961, anno in cui Raboni pubblicò ventinovenne la raccolta “Il catalogo è questo” e già allora evidentemente c’era qualche motivo di critica, per quanto poetica e ironica. Le cose non sono cambiate e, scusate il bisticcio, mi sembra in peggio. Incidentalmente, ho ritrovato questo testo, poi ripubblicato anche altrove, in uno dei miei vecchi libri, lo storico e ormai introvabile “Manuale di poesia sperimentale” di Guido Guglielmi e Elio Pagliarani, edito da Mondadori nel lontano 1966. Il libro, che raccoglieva un considerevole drappello di autori, molti dei quali del Gruppo 63, era centrato sulla funzione poetica della lingua ed era diviso in due sezioni, la funzione dell’espressione e la funzione della comunicazione, a sua volta divisa in due sottosezioni, significanti e significati. Insomma un libro interessante, soprattutto se visto in una prospettiva storica che insieme lo data drammaticamente e lo redime. Non è un caso comunque che Raboni, insieme a Giudici, sia presente solo nella prima sezione, quella che comprende, secondo i curatori, “quei poeti i quali lavorano, per così dire, su forme letterarie già costituite, sul solco di una tradizione poetica”, ma “possono rappresentare una direzione di orientamento verso i significati, perseguita all’interno di una poetica più propriamente lirica e privata..”. Ma leggiamo Raboni:
PROPRIO IL VUOTO
Per mettersi a giocare in borsa, non mi sembra
il momento buono: è già difficile
di solito, con tante voci sbagliate, con gli agenti
che comprano sempre al massimo e vendono al minimo
(dicono) della giornata... ma adesso
che soffiano vaghi scandali sul foro
e inchieste abortiscono e c’è ogni volta qualcuno
che vien su pancia all’aria, come i pesci
quando si pesca con le mine,
davvero è meglio, se puoi, starne alla larga. (Ed è, riferiscono
i viaggiatori, una gabbia di matti, dove
non cadrebbe uno spillo
anche se poi, a scoppiare è proprio il vuoto.)
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