Il fascino discreto della rilettura consiste essenzialmente, al di là
degli apparati critici o delle ragioni intellettuali, nel chiedersi -
davvero - perchè qualcosa ci piace. Ciò è tanto più vero oggi, quando le
reti "socievoli" (chiamarle sociali mi pare eccessivo) cercano di
costringerti a un semplice click su di un bottone. Sintesi che poi non
porta a niente, come quella di chi pretende di fare politica apponendo
on line un "si" alle idee di altri.
Devo ammettere che di tanto in tanto le riletture hanno per me una
necessità disintossicante, di tutto il leggere (di poesia) troppo e
spesso male. A questo scopo una poesia come quella che trascrivo qui
sotto funziona egregiamente.
Franco Fortini - Il seme (da Questo muro, 1973)
Caduti i cartocci giù
le foglie luccicano come piccioni
della magnolia altissima. Sotto i cedri
dove la luce del pomeriggio è fitta
vedo l'erba crudele acida profonda
e l'interrogazione ritorna
ai colpi di vento si curva
si divide ritorna ma dicono i merli di no
camminando o fermi.
Mio padre
s'inteneriva sulla propria morte
udendo l'allegretto della Settima.
Negli angoli dove c'è a marzo maceria
con gran pianti i bambini seppellirono
gli uccelli caduti di nido. Ma nulla
sa più di noi e discorre da sola
coi suoi corni e le trombe la musica
tra questi muri sudati.
In luogo di lui ci sono io
o mio figlio o nessuno.
Tutti i fiori non sono che scene ironiche.
Ormai la piaga non si chiuderà.
Con tale vergogna scenderò
i seminterrati delle cliniche
e con rancore.
Non è ancora luglio
non ancora scaldato asciutto assoluto
il seme.
La poesia vive, anche, di echi. Ovvero di quegli agganci che non solo ti fanno dire "ecco, questo mi ricorda Saba", ma allo steso tempo arricchiscono quello che stai leggendo, ampliandone il significato. Questo ovviamente non sempre, ma sicuramente quando ciò che stai leggendo attinge artisticamente a una tradizione che non sia "preventivamente uccisa e mummificata", secondo le parole del grande triestino.
E' proprio di lui che sto parlando. Nell'ultimo articolo pubblicato su IE uno dei testi proposti mi aveva richiamato decisamente alla mente una delle poesie di Umberto Saba che amo di più. Si tratta di "Ulisse", contenuta nella plaquette Mediterranee pubblicata nel 1946, e poi ricompresa nel Canzoniere (Torino, 1957), una delle "ultime tra le mie ultime cose" (ma come sappiamo non furono davvero le ultime della carriera di Saba).
Una poesia "facile", se si vuole, e arcinota. Ma anche, a mio avviso, una poesia perfetta.
Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
Elia Malagò è nata a Felonica Po, in provincia di Mantova nel 1948. Ha vissuto a lungo a Bologna, dove si è laureata con Ezio Raimondi, e attualmente vive a Mantova, impegnata in attività didattiche legate alla poesia e alla scrittura creativa. Ha lavorato per la casa editrice di poesia di Giampaolo Piccari Forum - Quinta generazione dalla fine degli anni Sessanta al 1994, curando, oltre alla rivista, testi e antologie poetiche. E’ consulente di Festivaletteratura. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia tra cui Ci dev'essere un posto (Firenze 1967), Saranno gli altri a testimoniare (Forlì, 1968), I discorsi di sempre (1970) con cui ha ottenuto il Premio Cervia, Una carta di re a cavallo (1971) Premio Città di Vita, Di un'impossibile maturità (1975), Buffa sonagliera (1978), Pita pitela (1982), Pirata dentro (1985) Maree (1986), Soprav(v)ento (1996). Di pari passo con l’attività poetica, ha espresso i temi della memoria, degli affetti originari e della vita contadina nella sua produzione narrativa, tra cui ricordiamo: Dieci racconti - gente del fiume (1968), La casa grande (1975), L’ombra ripresa. Quest'anno è uscito presso Passigli Incauta solitudine, la sua ultima raccolta poetica.
I testi che ripropongo sono tratti da raccolte note e del tutto reperibili in rete. Non è quindi proporre il nuovo che mi interessava, quanto rammentare il lavoro di una autrice di gran rilievo e in piena attività, per quanto estremamente riservata, ed invitare ad andare a rileggersela. Quest'anno è uscito presso Passigli "Incauta solitudine", il suo ultimo lavoro che raccoglie le poesie del decennio 1999-2009, dopo una assenza editoriale di circa quattordici anni da "Soprav(v)ento", uscito presso Gazebo di Firenze nel 1996. Nell'attesa di poter pubblicare (spero) qualcosa dall'ultimo libro, ecco qui testi tratti sia dal citato "Soprav(v)ento", sia da "Pita Pitela", apparso per la prima volta nel 1982 per Forum/Quinta generazione e riproposto da Feaci Edizioni nel 2008. Due libri, aggiungerei, in cui è possibile trovare una rara concentrazione di testi di alto valore poetico, e più strutturati e organici di quanto possa sembrare da questa selezione.
La solitudine non è compagna del poeta, appartiene a ogni uomo e la fortuna sta nel diverso grado di consapevolezza che si ha della propria singolarità. Dario Bellezza non è stato fortunato, ha sentito la solitudine così intensamente da renderla indistinguibile dalla sua stessa carne.
Allorché il male non è riconoscibile in un oggetto esterno ma abita il corpo (corpo-mente o corpo-oggetto che sia) diventa impossibile trovare un nemico diverso da se stessi e, quel qualcuno da maledire o combattere di cui l'uomo cerca storicamente l'esistenza per placare i propri conati di aggressività implicita, viene a coincidere drammaticamente con il proprio Io. Allora il teatro quotidiano diventa la lotta fra l'amore estenuante per la vita e la consapevolezza di averne nel corpo, nel cuore, nella mente, la propria fine. Questa condizione non è eccezionale, ancora una volta ciò che fa la differenza è la comprensione. Dario Bellezza sa di essere il proprio avversario, di portarlo nel corpo come un male inguaribile. Impossibile ipotizzare un dramma più grande e infatti il poeta tracima, sviene, si rialza, barcolla ma resta sempre sull'orlo pericoloso della dissolvenza. Anche quando grida la rabbia verso “altri moribondi normali”, contro le “segrete immense rivalse della invidia poetica”, quando dice l'indicibile per l'uomo civilizzato e “contabile” che ha ancora qualcosa da perdere e cerca nella mediazione la sua salvezza personale, paradossalmente il lettore sente che Dario Bellezza può farlo perché non ha nessun futuro da barattare, perché ha raggiunto il culmine della sincerità nelculmine della disperazione (e forse il lettore-uomo medio non eroico pensa, con intima indignazione, che effettivamente il culmine della sincerità può esserci solo nel culmine della disperazione quando questa è intesa nel suo modo più pieno, più concreto e fatale: assoluta mancanza di speranza, assoluta assenza, certezza del non futuro).
“...Ora lo sento il tempo distante da me che vivo
fuori del tempo e nessuno mi ha in simpatia,
neppure quando grido che in Italia si può
essere, o ironia di una citazione!, solo
ideologici o arcadici. Sempre al servizio
di qualche re buffone, arlecchino dalle cento
piaghe...”
Ripescare ogni tanto le poesie che semplicemente piacciono, esercitando solo la memoria. Ecco, appunto: poesia, questa, di memoria e sulla memoria, in cui l’osservazione della natura (che in Sereni ha sempre avuto una grande importanza), osservazione anche casuale, non necessariamente speculativa, innesca il meccanismo associativo, il “formicolio” da cui emerge il ricordo “ronzante”. Non è tanto una poesia d’occasione, intendendo “occasione” in senso montaliano. Montale – riferimento a cui non è agevole sfuggire quando si parla di Sereni – era molto più “freddo” in questo senso, artisticamente calcolatore. Diceva infatti che “ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta”. Sereni opera questo spostamento, che non assomiglia nemmeno lontanamente al correlativo oggettivo, in pratica sul solo titolo, quella “malattia dell’olmo” che non è solo dell’albero che si squama, ma anche metafora dell’uomo, qui vittima di una memoria “molesta” (ma è meglio dire dolorosa), che “non si sfama mai”, come il parassita dell’olmo. Cos’è che mi piace di questa poesia costruita in due parti che ruotano intorno al verso centrale “guidami tu, stella variabile, finché puoi...” (verso che tra l’altro dà il titolo alla raccolta a cui la poesia appartiene), la stella variabile dell’ispirazione, simbolo del difficile equilibrio del rapporto tra vita e arte? Un testo costruito con grande maestria, con attenzione ai rimandi semantici e linguistici (“se ti importa”e“ma più importa”, l’albero che si squama e il gabbiano che si sfoglia; i roseo gialli petali e i sempreverdi immobili, il fiume del tu poetico e il fiume della gente in allegria (senza dimenticare, ancora con Montale, che “i grandi fiumi sono l’immagine del tempo, / crudele e impersonale” - L’Arno a Rovezzano). E poi il lampo di candore del gabbiano che, attraverso la stella, passa al pullulare delle luci, grazie a una baluginante fusione, e da lì scocca come una scintilla un atomo ronzante che – quindi e logicamente -punge e brucia, come uno spino o meglio come un aculeo di un fastidioso insetto. In altre parole, partendo dalle più basse radiazioni dello spettro luminoso (il giallo, il verde), una pressoché ininterrotto tragitto sinestesico dall’occhio alla fitta al cuore che il ricordo provoca. Al cuore il poeta chiede un lenitivo conforto, facendo affidamento a quella componente del ricordo stesso che è la tenerezza del vissuto. Nel fiume della vita niente è completamente bianco, niente è completamente nero, l’importante è aver vissuto quella vita “fino a ieri a me prossima / oggi così lontana”. Se c’è da pagare un prezzo lo si paghi: “tolto l’aculeo, non/ il suo fuoco”, che permane. Un’ultima nota: questa poesia non è solo memoria, è anche ricordo del ricordo, come sembra indicare il finale. Ci accorgiamo infatti che c’è uno scarto temporale effettivo tra l’inizio, in cui il poeta pone sé stesso in riva al fiume (“eccoti”), e le due strofe finali: la luce si affievolisce, la tenerezza invita il poeta al sonno, e il poeta scivola con essa nel sogno. Forse il sogno proprio di questo ricordo, o forse è la vita stessa, come dice Calderòn, che è il sogno del poeta.