…VIAGGIO, RACCONTO, MEMORIA, attraverso le fotografie di Ferdinando
Scianna
All’inizio di questo viaggio per immagini nella retrospettiva “Viaggio,
Racconto, Memoria” ai Musei san Domenico di Forlì è la
miriade di scatti e storie, racconti e memorie legati all’universo
fotografico di Ferdinando Scianna: la quintessenza del suo stile, il suo essere attraverso la fotografia a stretto contatto con il mondo,
in presa diretta con la vita e parte in causa della storia che in maniera
estemporanea documenta nel lavoro di reportage. La selezione di immagini
dedicate a Bagheria nella prima sala rende testimonianza alla sua terra
natale, la Sicilia, luogo d’appartenenza e di radici, di fughe obbligate
nel corso degli anni ed ossessivi ritorni, di salti in avanti nel tempo al
presente e riecheggiamenti di un mondo arcaico e vagheggiato simile a
scintille di memoria dall'infanzia o dalla prima giovinezza ritrovate in
fulminei istanti di fuga dal presente.
“
Bagheria, l’odiato-amato paese in cui sono nato, dove ho passato la mia
infanzia, in provincia di Palermo, dove ho vissuto fin ai 23 anni,
dolce e terribile luogo dell’anima dove ho scattato ben più fotografie
di quanto non sospettassi. Ho continuato a fotografare a Bagheria nel
corso degli anni, negli innumerevoli, desiderati ora temuti, felici ora
dolorosi, qualche volta inevitabili ritorni”.
La questione ossessiva quanto inevitabile per Scianna sull’essere siciliano
si lega alla ragione prima, all’essenza stessa del fotografare che per lui
è indiscutibilmente un modo, forse il solo di approcciarsi alla realtà, di
esserci e guardare il mondo nel tentativo di comprendere, fosse solo
qualche istante decisivo, e di raccontarlo attraverso il mezzo fotografico.
Cosa significa essere nati in quel luogo, isolato e isolano, impregnato di
anacronismi e tradizioni, riempito di rituali e affondato in un immobilismo
fuori dal tempo, letargico e fatale, poi andare via, allontanarsene per
gettarsi nel maelstrom del vivente da Milano a Parigi collaborando con
un’agenzia internazionale e prestigiosa come Magnum o nei vari reportage in
giro per il mondo, eppure continuare a guardare, a esplorare la realtà con
occhi da siciliano.
“
Quando partiamo la nostalgia comincia a tormentarci, il lavoro di
trasfigurazione della memoria in un ritorno tanto sognato quanto reso
impossibile. Dalla Sicilia si scappa ma non si lascia mai l’ossessione
delle origini.”.
Origini, radici, la terra di Sicilia
Le fotografie della prima sala scattate negli anni ’60 dalle inquadrature
altamente cinematografiche ricreano ambientazioni, atmosfere, stati
emozionali dell’intrinseca identità dell’isola evocando in scorci
suggestivi immagini giunte dagli anni dell’infanzia o della prima
giovinezza in Sicilia. In “maestro d’acqua”: un uomo di età avanzata appare
seduto tra gli arroccamenti a ridosso del mare sulle coste palermitane
intento a sorvegliare un gregge. Solitario, asettico, inerte all’ azione,
il suo sguardo appare gettato lontano oltre gli altopiani, pensatore
estraniato dal presente. Palermo velata da una tenda è inquadrata in
un’altra fotografia. Dietro quella il profilo di una donna si intravvede
tenendo per mano il figlioletto in primo piano: tendaggi, schermi o reti
mediano lo sguardo e separano, oscurano, pongono dei filtri visivi alla
memoria rendendo quel mondo lontano e fittizio, più distante e remoto. Un
gruppo di uomini in un bar avvolti da una coltre densa e grigiastra di fumo
aspirano lentamente dai loro sigari mentre si soffermano indolenti e
solitari a giocare a carte e a scommettere sul nulla del proprio presente.
Bagheria sono le case arroccate sugli scogli in prossimità del mare,
scavate dentro la pietra in un piccolo borgo solitario e resistente, lì da
secoli esposto alle intemperie e alle tempeste, alla durezza della vita dei
pescatori, costruite l’una a ridosso dell’altra a strapiombo sulla
costiera. È lo sguardo di una donna anziana lucido e acuto in primissimo
piano dagli occhi tempestati di nera ematite rilucente di ghiaccio. Sono i
volti di donne avvolti da veli neri nel sole accecante del mezzogiorno a
ridosso delle case del villaggio. Sono orizzonti, “dalla terrazza della
casa dei miei nonni si vedevano agrumeti fino al mare, dalla cappella di S.
Giusipuzzu la Villa Rosa si stagliava libera contro il monte Pellegrino”.
Elliott Erwitt, “Personae”: un mondo in immagini (visto ai musei
S.Domenico a Forlì)
“Personae” retrospettiva che rende omaggio con un’ampia scelta fotografica
ai capolavori del fotografo americano Elliott Erwitt presso i musei S.
Domenico di Forlì è una molteplicità ironica, a tratti poetica o
umoristica, sempre tuttavia profondamente umana di ritratti: i volti delle
celebrità o quelli di gente ordinaria, cani che prendono spesso le loro
sembianze e fanno loro il verso, infine i volti delle città viste
attraverso punti di vista d’eccezione che li rendono unici, icone come tali
entrate nella storia della fotografia. Nella prima sezione in bianco e nero
fino alla metà degli anni ’70 Erwitt si sofferma in particolare sulla
distorsione del punto di vista, spesso prediligendo quello degli animali
che affiancano gli esseri umani e guardano quella stessa realtà dalla loro
postura, nelle loro dimensioni e posizionamento sulla terra con un
implicito risvolto ironico o parodico.
“
Le cose che mi divertono nella vita...le persone senza dubbio_i
paesaggi meno_ quello che fanno nella vita e come si comportano. Tutta
la mia fotografia riguarda questo. I cani sono un ottimo soggetto
perché sono universali e li trovi ovunque nel mondo. Non obbiettano ad
essere fotografati e non chiedono mai impronte..
”
“New York city”, 1974 ( Taking the shot from a tiny dog perspective”)
Cosa significa essere o vedere la realtà dal punto di vista del piccolo e
del minoritario, del basso e non dell’alto, del micro e non del
macroscopico, portare l’attenzione ai piedi anziché alla testa, volgere le
prospettive come in questa immagine mettendosi nei panni di un piccolo
chihuahua umanizzato. La realtà percepita da quella prospettiva appare a
lui enorme, disumanizzante negli stivali neri di cuoio lucidi e militari e
in grandi zampe simili a quelle di un cammello che gli cammina accanto.
Erwitt gioca con i paradossi e si diverte a ribaltare la superficie
traslucida ed edulcorata, troppo educata delle apparenze per decentrare
costantemente con ironia lo sguardo del suo obiettivo, periferico
sull’animale; in particolare assume la misura dei vari prototipi di
cagnetti antropomorfi, abitati di umanità parodiando la medesima per
parlare del mondo che lo circonda.
Nella fotografia divenuta icona erwittiana di New York (1946) per esempio,
la città è vista esclusivamente attraverso un dettaglio fotografico portato
ed espanso in primo piano: i piedi della donna si mostrano enormi,
ingigantiti all’ennesima potenza attraverso i sandali neri sullo sfondo di
un viale alberato e di alti edifici in fuga prospettica verso il fondo. Il
contrasto appare evidente e scherzoso tra la minuscola postura del
Pittsburgh nano che fissa l’obbiettivo e di cui il fotografo assume il
punto di vista e le dimensioni di una realtà estranea, smisurata qui resa a
lui incommensurabile.
I volti delle città allo stesso modo sono filtrati attraverso lo sguardo
erwittiano di questi prototipi canini alter-ego dell’umano. New York è un
viale spazioso nei pressi di Hyde Park democraticamente visto assumendo il
punto di vista del piccolo o del periferico in primo piano. Londra (1966) è
l’interno borghese di un salotto ricoperto di moquette floreale, tappetti
decorati e un sobrio camino vittoriano al centro sul quale troneggia un
orologio a pendolo in suppellettile contornato da minuscole ceramiche e
grandi sontuosi candelabri. Nell’immobilità del luogo un bulldog appare al
centro tra il cinico e il derisorio spossato dal grigiore del lusso
circostante.
Con Chiara Gini è nata un’amicizia “via fotografia”. Ho trovato, come
spesso per caso mi capita, in rete (su flickr) le sue magnifiche
fotografie. Le ho scritto, e lei mi ha risposto. Allora, noi ci siamo incontrati. Trovati..
Tempo fa, durante il nostro corrispondere, Chiara mi ha inviato
queste fotografie – come fossero dedicate – in un documento che
aveva per titolo la mia iniziale. Allora, io provo a dedicare, così, questo
a lei. Per il suo lavoro che sa essere così completo e senza
orpelli né effetti – per me fotografia e poesia: sono sorelle, sì. Non
importa se si tratta di una prosa (aperta e mossa) o di un verso (minuzioso
e di spalle) – quello che mi colpisce è che non vi è alcuna posa negli
scatti di Chiara, ma un talento (per quanto questa sia una parola a mio
avviso abusatissima, oggi più di sempre) che talvolta mi fa pensare anche a
quel grande semplice artista che è Luigi Ghirri.
Ma lei è già lei, è ben sottinteso.
Voglio condividere adesso questo “documento” con te, caro Giacomo nel tuo
“spazio” d’imperfette ellissi. (giampaolo de pietro)
(i versi/didascalia sono di Chiara Gini e Giampaolo De Pietro)
Soundtrack: The Red F - The story (mp3, necessita di browser con flash player abilitato)
Viaggiatrice - io ti ammiro. Musica benvenuta di un'amicizia.
Patti Smith, "Higher Learning" (esposizione fotografica a Parma)
Patti Smith riguardo a “Higher Learning” la mostra fotografica a lei
consacrata in occasione della Laurea Ad Honorem conferitale il 3 maggio a
Parma afferma: “In termini di formazione è l'omaggio a un altra forma di
sapere, l'università della vita, dei libri, dei poeti e dei viaggi”.
“Queste immagini”, spiega la Smith, introducendo la raccolta inedita di
centoventi polaroid in bianco e nero, poi di citazioni e opere letterarie
che hanno ispirato il suo lavoro nel corso degli anni, “sono
rappresentazioni visive del pellegrinaggio e della gratitudine, un infinito
amore e rispetto per quelli che rappresentano le voci della nostra cultura
attraverso le loro più grandi opere e l'umiltà dei loro più piccoli gesti o
strumenti”. Le immagini, scattate con una vecchia macchina fotografia Land
250 Polaroid e stampate in copia argentea ad edizione limitata di dieci
copie raccontano i viaggi, le peregrinazioni, gli spostamenti, tracciano la
storia delle influenze letterarie, la serie di voci poetiche e artistiche
che hanno accompagnato o seguito il cammino della compositrice punk rocker
e poetessa Patti Smith nel corso degli anni. Scandagliano, in particolare,
i dettagli, gli oggetti, una serie di indici e indizi visivi che ci pongono
sulle tracce di una storia culturale condivisa e insieme personale della
Smith come in una inedita creazione letteraria nata da tali peregrinazioni
attraverso il globo. Vi compaiono manoscritti, macchine da scrivere,
interni di atelier o abitazioni dove scrittori e artisti-amici hanno
impresso le stigmate della loro vita e opere, poi corsetti, stampelle,
medicinali, dettagli di luoghi che si riallacciano simbolicamente a singole
biografie - uno per tutti la sedia rilegata in pelle lucida dall’eleganza
assoluta e ineguagliabile di Roberto Bolano -, infine i sepolcri dove
scrittori e poeti hanno lasciato la loro memoria per l’eternità. E ancora
sono polaroid in autoritratto, una vestaglia discinta distesa su un letto,
l’abito nero appeso di Beuys, la bandana di William Burroughs, istantanee
riprese nel corso dei diversi viaggi in Europa, una croce vicino al mare,
le insegne dei caffè che hanno segnato il percorso dell’artista da Detroit
a Berlino, da Venezia a Marsiglia, infine l’eterno Café Ino, nello scorcio
tra il tavolino d'angolo e la finestra. Là è l’antro silenzioso dove la
scrittrice si rifugiava a leggere, riflettere o semplicemente osservare e
lasciar fluire di fronte agli occhi sorseggiando caffè nero in solitudine.
"Genesi" di Sebastiano Salgado: fotografia e scrittura per immagini ( ai Musei S. Domenico, Forlì)
"Genesi" per Salgado è viaggio alla ricerca del mondo delle origini, la natura tale che ha preso forma e si è manifestata per secoli prima che
l’organizzazione delle società moderne iniziasse ad allontanarci, e renderci estranei ad essa, inconsapevoli della nostra originaria provenienza. Le
immagini di “Genesi” esposte attualmente ai musei S. Domenico di Forlì scattate da Salgado dal 2003 al 2011 nel corso di 25 viaggi e riproposte presso le
più importanti istituzioni d’arte del mondo da Parigi, a New York, da Milano a Buenos Aires raccontano perlopiù di paesaggi terrestri e marini, sconfinano
in regioni remote della terra dove la natura domina limpida, incontaminata nel silenzio della sua magnificenza; attraversano le foreste pluviali e
tropicali dell’Amazzonia, la vastità delle savane o i deserti roventi d’Africa, le distese di ghiaccio nel grande nord delle zone antartiche più rigide
della terra oppure le isole solitarie del Pacifico. Regioni troppo fredde o troppo aride perché la vita umana possa insediarsi se non in contingenze
estreme o attraverso le sue forme più resistenti: specie rare di animali, piante e tribù indigene di popolazioni insediatesi lì da secoli a stretto
contatto e in perfetta sintonia con le leggi prime della natura. Come scrive Salgado: “nel corso di otto anni in cui ho viaggiato attraverso il mondo per
questo progetto ho imparato a lavorare con altre specie che quella umana …non come fossi un etnologo o un giornalista ma per scoprire, mettere in luce,
esplorare o dare voce, visibilità e bellezza al pianeta. Il paesaggio è vivo, immanente all’umano, come i minerali, i vegetali, gli animali, il pianeta è
intrinsecamente connesso in tutte i suoi elementi, vivente a tutti i livelli. Ho capito quanto rispetto gli dobbiamo, un rispetto immenso”.
In questo senso la fotografia per Salgado diviene nelle sue parole “ una lettera d’amore scritta al cosmo , verso una natura in cui gli umani devono
sentirsi parte integrante ”,e, dunque, nel corso degli anni un grido di allarme, un monito sempre più chiaro perché il pianeta non divenga oggetto di
distruzione incondizionata da parte dell’uomo, esposto ai profondi disequilibri del suo eco-sistema generati ogni volta che si perde quella connessione
profonda al mondo naturale perché si impone una logica di sfruttamento, di profitto incondizionato, di uso e abuso senza limiti della straordinaria
ricchezza di risorse che esso ci offre.
Salgado decide nel corso di un viaggio durato una vita di percorrere il mondo a piedi, a bordo di piccoli aerei, di barche, di canoe e persino d’una
mongolfiera per fotografare “ l’immensa bellezza del continente”, i suoi santuari naturali, le sue isole.
“GRADI DI LIBERTA", sulla nostra possibilità d'essere liberi ( visto al Mambo di Bologna, Novembre 2015)
“Gradi di libertà, dove e come nasce la nostra possibilità di essere liberi”, mostra collettiva recentemente esposta al Mambo di Bologna, interroga il
concetto di libertà prima che come condizione oggettiva, politica e sociale esterna all'individuo come possibilità del pensiero, lì dove nasce e si
manifesta la nostra facoltà d’essere liberi, in primo luogo dentro la mente di ciascuno di noi, lì dove vengono prese le decisioni o gestite le scelte che
in qualche modo sanciranno, limiteranno o condizioneranno, attraverso l'esercizio del libero arbitrio, la condizione esistenziale o la consapevolezza
individuale di ciascuno a prescindere dallo statuto politico o dalle limitazioni materiali e sociali vigenti.
Ugualmente, nel percorso espositivo, il concetto di libertà non è visto come paradigma statico appartenente a una realtà storica determinata, a un
ordinamento sociale dato, allo statuto di un individuo o al modo di funzionare d’una società quanto, in primo luogo, come processo mentale, qualcosa che
avviene e si esplica nella capacità di discernere, analizzare e prendere decisioni: quell’ insieme di scelte che compongono il tessuto stesso della nostra
esperienza nel pensiero e nell’azione quotidiana. L'atto d’una mente riflessiva e razionale oppure i momenti fulminei in cui improvvise intuizioni si
realizzano e consapevolezze immediate prendono forma, dunque posizionamenti netti, decisioni di un si o di un no, di un andare o fermarsi, di un aprire o
chiudere una porta, del prendere un sentiero o un altro, dello svoltare in una direzione o proseguire.
Il paradigma dell’essere liberi o dell’affermare una condizione democratica per un popolo appare come un percorso non lineare visto in una serie di
divenire, nel realizzarsi di piani successivi di consapevolezza, di soglie e di attraversamenti che conducono a implicite metamorfosi nel pensiero e al
superamento di limiti interni a una realtà o a una soggettività. Tali passi si percorrono nella “tensione verso”, nell’ipotesi o nell’aspirazione
libertaria di un individuo o un gruppo che lotta per avvicinarsi al proprio divenire umano, libertario e democratico. E’ prima di tutto un movimento e una
pratica del pensiero al quotidiano, un divenire consapevole, “libero da” , altro rispetto una serie di condizionamenti identitari, ideologici, o
strutturali che si pongono come sbarramenti impliciti all’io e barriere occludenti al nostro vivere sociale.
Perché la libertà, sembra suggerire la mostra bolognese attraverso i percorsi incrociati d’opere d’arte, installazioni d’oggetti e video documentari nel
doppio sguardo di scienza e arte, la si acquisisce per gradi, dialetticamente scrollandosi di dosso lo stato di assoggettamento, di interiore schiavitù, di
mancata presa di potere o riscatto, di mancata affermazione della propria coscienza individuale, politica e identitaria. La si acquisisce nel mentre dell’
“essere nel pensiero e non stare ancora pensando”, ogni volta nel ricominciare a pensare, nel porsi dall’inizio quella domanda, nello scontrarsi con quell'
interrogativo posti di fronte un mondo di limiti e di idealità, di scelte individuali, immanenti all'esserci e di barriere o muraglie, fisiche e
metaforiche, materiali o spirituali apparentemente insormontabili che solo un pensiero libero da forzature o condizionamenti può ancora permettersi di
affrontare. Tale esercizio quotidiano al pensiero travalica categorie storiche e gabbie ideologiche per immergersi nel flusso vitale dell’esistenza come
movimento del pensare dentro le forze di vita, dentro i corpi e contro le manipolazioni esterne, mediatiche e dei regimi politici vigenti. Condizionamenti
a tutti i livelli sono iscritti profondamente nella nostra mente, permeano quasi la struttura molecolare delle nostre cellule, del nostro DNA dalla nascita
e nelle memorie cellulari delle generazioni precedenti. Sono anche gli schemi, le gabbie sociali, gli abiti che ci vengono messi addosso in seguito a un’educazione, al funzionamento d’una società uniformandoci in ruoli e posizionamenti, simulacri, simulazioni e
maschere. Sono infine le conseguenze che subiamo d’uno scenario politico mondiale fatto di violenti conflitti e di forze che agiscono sulle nostre vite
indirettamente, qualche volta brutalmente senza che riusciamo a rendercene conto, non potendo ne prevederle ne controllarle . La libertà è prima di tutto
uno stato in divenire del pensiero, poi uno statuto d’essere, del dirsi o volersi nel mondo, anche e soprattutto quando essa è messa in discussione, in
pericolo o in stato d’allerta, anche e soprattutto contro le manipolazioni politiche, i lavaggi del cervello mediatici, le aggressioni o le irruzioni di
forze estremiste e violente, distruttive o incontrollabili. Spazi di libertà in ogni mentre e in ogni dove, nel mondo, sono quelli aperti dallo sguardo e
nel luogo dell’infanzia, del gioco o della creazione che poi diviene movimento dell’arte, dell’azione e della lotta politica.
Come afferma una delle canzoni che compongono l’archivio interattivo visibile e udibile d’una raccolta di 100 brani popolari provenienti da diversi
contesti nel lavoro di Susan Hiller “ Die Gedanken sind frei”: "Le idee sono libere, chi può prevenirle, esse sorvolano come ombre notturne,
nessuno può conoscerle, nessun cacciatore le colpirà. Sopravvivranno. Die gedanken sind frei. Penso quel che mi pare e tutto in silenzio è come
capita. Cose che desidero e voglio, esse sopravviveranno. E se qualcuno mi getterà in un’oscura prigione sarà semplicemente fatica sprecata perché i miei
pensieri spezzeranno le barriere e abbatteranno i muri. Voglio scrollarmi di dosso per sempre la paura e mai più lamentarmi per le inferiate. In cuor mio
posso ridere e scherzare e ripetere ancora: i pensieri sono liberi”.
Vanessa Beecroft
Schiere di modelle danno vita a performance fotografate come “tableaux vivants” dove i corpi assumono sembianze di statue classiche o di manichini
inanimati. In PV26 i corpi femminili vestiti identicamente di sole calze bianche, scarpe con i tacchi alti e biancheria accuratamente scelta appaiono nella
loro demoltiplicazione distribuiti sullo spazio performativo come figure inanimate, manichini di corpi perfettamente identici ma indeterminati, svuotati,
macchinici quasi nella loro anonima ripetizione attraverso lo spazio. Invisibili, trasparenti allo sguardo appaiono volutamente fotografati come simulacri
di loro stessi, figure plastiche rivestite da una sorta di patina chirurgica di rifacimento figurale nel loro apparire attraverso l’immagine. Il corpo e il
femminile sono là volutamente esposti, interrogati o posti di fronte “all’illusione della loro presunta libertà”: manipolazione voluta dei corpi, nella
loro reificazione e riduzione a stereotipi imposti dai modelli impliciti del codice sociale. Lo scatto fotografico inevitabilmente ironizza sulla tendenza
delle figure femminili a uniformarsi come oggetti dello sguardo in una serie di metaforici travestimenti, divise o vesti ufficiali, qui parodiate
attraverso l’uso delle sole calzature e intimo bianco.
Allo stesso modo in “One year performance” (1980-81) l’artista taiwanese Tehching Hsieh attraverso una serie di azioni auto-imposte nel corso di un anno_
timbrare un cartellino una volta all’ora per 360 giorni e registrare accuratamente la propria azione performativa_ approda a un concetto di libertà
paradossale raggiunto attraverso una forma di auto-coercizione. Solo esercitando quella disciplina assoluta sul proprio corpo e privandosi parzialmente di
alcune ore notturne di sonno perviene a portare a termine la propria pratica performativa. Tale azione minimale, insignificante, ripetuta all’ennesima
potenza e protratta con ostinazione nel corso di un periodo prestabilito giunge, tuttavia, ad alterare o stravolgere i ritmi normativi di un'esistenza ed è
per l’artista scelta consapevole all’interno di quello che lui percepisce come un esiguo spazio di libertà individuale. Diventa il suo modo di iscrivere e
riaffermare tale differenza, o spazio di creazione al quotidiano paradossalmente passando attraverso la coercizione e la disciplina di un’azione
auto-imposta. Il suo modo minimale di re-inventarsi l’arte giorno per giorno elude ciò che il mondo dell’arte si aspetta che egli faccia. Decide di creare
un oggetto e un’azione performativa a partire dall’irrisorio di un’azione ripetuta con automatismo ogni giorno come il timbrare un cartellino nella gabbia
del lavoro in fabbrica. Minuscola azione, il lasso di tempo di qualche secondo, e già si iscrive la sua scelta di dire no, di affermare sé stesso in
quell’esiguo margine di libertà: “Non voglio fare ciò che il mondo dell’arte si aspetta che io faccia, questa è la mia uscita, questa la mia libertà”.
“In ogni istante il nostro cervello sceglie tra una miriade di alternative possibili o virtuali” afferma uno dei brevi video che interpongono un punto di
vista scientifico al concetto di libertà illustrato dalle opere artistiche. Tra la miriade di stimoli cui siamo soggetti ad ogni momento sulla corteccia
celebrale e tra i lobi pre-frontali del nostro cervello abbiamo la possibilità di visionare simultaneamente strade diverse nella nostra mente, sospendere
giudizi, esitare, valutare vie possibili, immaginare o rappresentare eventi del futuro, rendere espliciti i nostri pensieri attraverso il linguaggio. Tutto
ciò avviene nello spazio esiguo di pochi istanti, nello spazio in cui una decisione viene presa, un’opzione scelta e un’altra scartata, tra una
sollecitazione e una risposta all’impulso, tra uno stimolo e una reazione, l’istante che passa anche tra uno sguardo gettato sulla realtà e lo scatto d’un
obbiettivo, tra il momento dell’osservare, dell’attesa al reale e il momento decisivo in cui la fotografia viene presa e l’immagine fissata su una
pellicola. In quell’istante, sembra dirci il video, esiste e resiste, agisce o reagisce contro l’apparente opposizione della realtà il nostro primo spazio
di scelta, di libertà e d’azione individuale.
Torno sul lavoro di Stefano Lorefice "Frontenotte" (Transeuropa, 2011)
con l'occasione di vederlo da un'altra prospettiva, partendo sempre da
quello che scrissi a suo tempo (v. QUI),
almeno per quanto riguarda i testi. E partendo anche da una
constatazione, o forse solo una percezione, di un diffuso sentimento, in
molti autori, di una certa qual limitatezza della scrittura poetica, di
una specie di esaurimento delle sue capacità iconiche o narrative o
evocative, sentimento che a volte porta a risultati detti, didascalici
("diciamolo meglio"), a volte a percosse e torsioni del linguaggio
insignificanti, nel senso etimologico del termine. E' indubbio che molti
abbiano sentito la necessità di sperimentare altre strade o altri
mezzi, senza tuttavia rinunciare a definire e sentire il proprio lavoro
come "poetico", talvolta recuperando una oralità o vocalità della poesia
che si era persa nel tempo (magari affermando, come nel caso di Lello
Voce, che è l'unica maniera "vera" di poetare), altre volte tentando
delle sinergie con altri linguaggi creativi, sentiti come più moderni, o
escludendo del tutto la parola dal "testo" poetico, dandola in un certo
senso come sottintesa.
Bisogna vedere se queste interazioni sono stampelle, fumo negli occhi,
mascheramento di difetti, ipostasi oppure valori aggiunti. Ma certo la
ricerca in quella direzione ha diritto di cittadinanza (e spesso
consegue ottimi risultati), e la fotografia resta uno dei mezzi migliori
in tal senso. Del resto sono convinto che se "ogni fotografia è un
certificato di presenza" (R. Barthes, in "La camera chiara"), anche la
poesia lo è. Presenza, va da sé, dell'autore dello "scatto".
Nell'osservare le fotografie qui pubblicate, opera di un alter ego (o
eteronimo) di Stefano, e nel leggere i suoi testi, si ha il vantaggio
che in entrambi è certificata la stessa presenza, e aggiungerei la
stessa poetica. Che è quella, come scrivevo a suo tempo, della
osservazione sociale disincantata e insieme dolente, della constatazione
della progressiva riduzione dell'uomo a nullità identitaria isolata,
della stramatura di un tessuto per lo più urbano in cui l'indifferenza
dei più è temperata per quanto possibile dall'occhio (e dalla voce)
cosciente dell'autore, che in qualche modo la interpreta. Le immagini,
in questa occasione, danno forza e sostanza ai testi, aggiungono una
ulteriore significazione, una specie di sinestesia. Pur non essendo
stati pensati insieme, i testi e le foto, a ben vedere, hanno lo stesso
bianco e nero, le stesse sfumature di grigio, lo stesso contrasto. La
grana, in entrambi, è quella che il compianto Seamus Heaney chiamava la
"grana delle cose", la venatura, la fibra stessa del mondo, così come
s'è ridotto. Il limite tra il nero e le alte luci è confine fortemente
simbolico, difficilmente attraversabile. Per la verità, le foto sono più
disabitate, per così dire, di quanto non lo siano le poesie. O meglio
sono abitate da ombre, che proiettate sui muri hanno la consistenza
delle ombre di una Hiroshima surmoderna. Ombre che a loro volta abitano
la notte e l'asfalto, luoghi deputati di un aggirarsi di individui
indistinguibili, in cui perfino i monumenti hanno un incombere sociale,
segnano la differenza di ceto tra chi li costruì e chi li percorre
oggi, e le stazioni non sono più luoghi in cui si arriva o si parte ma
in cui piuttosto forse si aspetta qualcosa in maniera del tutto
irrelata. Dunque qui c'è un'altra certificazione di presenza, la
presenza dell'indeterminato, dell'irrappresentabile anche politicamente,
della massa anonima senza peso per "i lupi / dell’unica democrazia /
che conosciamo". Qui lo spectrum barthesiano, cioè il soggetto
che la fotografia fissa per sempre, è davvero l'ombra, lo spettro degli
"uomini nulli" di cui parla Lorefice nei suoi versi. (g.c.)
L'autoritratto non si confronta più con Narciso né con la profondità psicologica con la quale il pittore attraverso la vista scruta la propria anima e i colpi della vita sulla propria faccia (la drammatica serie degli autoritratti di Rembrandt, l'autoritratto del 1988 (vedi) in cui Robert Mapplethorpe raffigura sè stesso davanti alla morte ecc.). Cartier-Bresson che allunga la propria ombra nella campagna di Provenza in una foto del 1999 (vedi) offre una forma di snobismo nel defilarsi. Lui non c'è, nella foto, o meglio c'è solo la sua ombra, e tuttavia sappiamo che c'è, per via della forza autoriale (e autografa, nel senso pieno) della foto stessa. Poiché, come dice R. Barthes, "ogni fotografia è un certificato di presenza". Il punto è: presenza dove? di fronte a cosa? in quale ruolo e con quale identità? Se Narciso ha deluso sè stesso, l'autoritratto si confronta semmai con la materia, con luoghi/non luoghi, con attività dell'uomo chiuse o abbandonate, con altre culture, con i diversi livelli della realtà percepibile, con sè stesso come consumatore, come osservatore inane della natura, ecc. O con il mezzo fotografico stesso, ad esempio quando - come Cartier-Bresson, Mulas e altri - si usa quello che nella foto turistica è un errore (l'ombra del fotografo dentro l'inquadratura) come elemento descrittivo/linguistico, un "sè". In altre parole l'operatore, il fruitore, il soggetto (rispettivamente operator/spectator/spectrum, secondo Barthes) si confondono, a volte si sovrappongono, diventando inidentificabili, mischiando le carte del gioco (le informazioni, le emozioni). Sì, forse gioco è la parola giusta, come quello che potete vedere nel seguito di questo articolo. Del resto, come affermava Susan Sontag, le foto "sono incitamenti a fantasticare". Come dire, potrebbero essere l'inizio di una nuova opera d'arte, di una nuova immaginazione. Il che potrebbe valere anche per la poesia, se solo ci si ferma a riflettere su alcune delle considerazioni fatte sopra, ad esempio sulla "presenza" dell'autore all'interno dell'opera, o all'esterno, nei confronti della realtà circostante, dei suoi possibili "territori".