Ecco qua l'ultima parte (se non erro) del mini saggio dedicato da Roland Barthes alla poetica dell'haiku e alle questioni di senso e significato correlate, pubblicato nel suo noto libro "L'impero dei segni". Le precedenti "puntate" le trovate qui
TALE
Il lavorio dello haiku consiste nel fatto che l'esenzione del senso si compie attraverso un discorso perfettamente leggibile (contraddizione negata all'arte occidentale, che non sa contestare il senso che rendendo incomprensibile il proprio discorso), di modo che lo haiku non si rivela ai nostri occhi né eccentrico né famigliare: assomiglia a tutto e a nulla. Leggibile, lo riteniamo semplice, prossimo, conosciuto, gustoso, delicato, «poetico», in una parola offerto a tutto un gioco di aggettivi rassicuranti; insignificante, però, esso ci resiste, sfugge alla fin fine gli aggettivi che un momento prima gli avevamo attribuito ed entra in quella sospensione di senso che ci risulta cosa inattesa, perché rende impossibile l'esercizio più corrente della nostra parola, che è il commento. Che cosa dire di questo haiku?
Brezza primaverile
II battelliere mastica
la sua pipa;
oppure di questo:
Luna piena
E sulle stuoie
L'ombra di un pino;
o ancora:
Nella casa del pescatore
L'odore del pesce secco
E il calore;
o ancora (e non infine, perché gli esempi potrebbero essere innumerevoli):
Soffia il vento d'inverno
Mandano lampi
Gli occhi dei gatti.
Pubblico qui la terza parte delle riflessioni, non solo semiologiche ma anche linguistiche e filosofiche che Roland Barthes dedicò all’haiku nel suo noto libro “L’impero dei segni”. le altre "puntate" sono state pubblicate qui e qui
L'INCIDENTE
L'arte occidentale trasforma l'«impressione» in descrizione. Lo haiku non descrive mai: la sua arte è anti-descrittiva, nella misura in cui ogni stadio della cosa è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza d'apparizione: istante letteralmente « intrattenibile», in cui. la cosa, pur non essendo già altro che linguaggio, diventa parola, passa da un linguaggio ad un altro, e si costituisce come il ricordo di questo futuro, per ciò stesso anteriore. Perché, nello haiku, non è soltanto l'evento propriamente detto che prevale
Vidi la prima neve
E dimenticai quel mattino
Di lavare il mio viso
ma anche ciò che a noi sembrerebbe aver vocazione di scena dipinta, di quadretto, come molti ne esistono nella pittura giapponese, per esempio questo haiku di Shiki:
Con un toro a bordo
Una piccola imbarcazione attraversa il fiume
Sotto la pioggia della sera
diventa o meglio non è che una sorta di rilievo assoluto (cosi come si recepiscono tutte le cose, futili o meno, nel pensiero zen), una piega leggera con cui viene pinzata, con un gesto veloce, la pagina della vita, la seta del linguaggio. La descrizione, genere occidentale, ha il suo corrispettivo spirituale nella contemplazione, inventario metodico di forme di attribuzione della divinità o di episodi del racconto evangelico (in Ignazio di Loyola, l'esercizio della contemplazione è essenzialmente descrittivo); lo haiku, al contrario, è articolato su una metafisica che non ha né soggetto né Dio, analogo al Mu buddista, al satorì zen, che non s'identifica assolutamente con la discesa illuminatrice di Dio, ma piuttosto con il «risveglio di fronte all'evento», scelta della cosa come accadimento e non come sostanza, attacco a quel bordo anteriore del linguaggio che è contiguo all'opacità (del resto tutta retrospettiva, ricostruita) dell'avventura (che accade al linguaggio più ancora che non al soggetto).
Pubblico qui la seconda parte delle riflessioni, non solo semiologiche ma anche linguistiche e filosofiche che Roland Barthes dedicò all’haiku nel suo noto libro “L’impero dei segni”. La prima parte è stata pubblicata qui
L'ESENZIONE DEL SENSO
Lo zen, nella sua completezza intraprende battaglie contro ogni prevaricazione del senso. È noto che il buddismo elude la via fatale di ogni asserzione (o di ogni negazione), raccomandando di non esser mai preda delle quattro proposizioni seguenti: questo è A,- questo non è A, - questo è ad un tempo A e non-A, — questo non è né A né non-A. Ora, questa quadruplice possibilità corrisponde al paradigma perfetto, quale l'ha creato la linguistica strutturale (A, - non-A, — né A né non-A [grado zero], A e non-A [grado complesso]); in altre parole, la via buddista è esattamente quella del senso ostruito: l'arcano stesso del significare, cioè il paradigma, è reso impossibile. Quando il sesto Patriarca da le sue istruzioni che riguardano il mondo, esercizio della domanda-risposta per meglio sconvolgere il funzionamento paradigmatico, raccomanda, qualora venga proposto un termine, di portarsi verso il suo termine opposto («Se, nel porvi domande, qualcuno vi interroga sull'essere, rispondetegli con il non-essere. Se vi interroga sul non-essere, parlategli dell'essere. Se vi fa domande sull'uomo comune, rispondetegli parlandogli del saggio, eccetera»), in modo da far apparire il ridicolo connesso allo scatto paradigmatico e al carattere meccanico del senso. Ciò che viene mirato (con una tecnica mentale la cui precisione, la pazienza, il raffinamento e la saggezza attestano sino a qual punto il pensiero orientale ritiene difficile la perenzione del senso), ciò che viene colpito è il fondamento del segno, cioè la classificazione (maya): costretto alla classificazione per eccellenza, quella del linguaggio, lo haiku opera però in previsione d'ottenere un linguaggio piatto, che nulla (come avviene immancabilmente con la nostra poesia) collochi su degli strati sovrapposti di senso, ciò che potremmo chiamare una «sfoglia» di simboli. Quando ci vien detto che fu il rumore della rana a risvegliare Bashò alla verità dello zen (anche se questo è un modo ancora troppo occidentale di parlare), si può intendere che Bashò scopri in questo rumore, non certo il motivo di un'«Ìlluminazione», di un'iperestesia simbolica, ma piuttosto la fine del linguaggio; c'è un momento in cui il linguaggio vien meno (momento ottenuto con grande sforzo d'esercizi) ed è proprio questa cesura senza eco che costituisce ad un tempo la verità dello zen e la forma, breve e vuota, dello haiku.
Pubblico qui alcune delle riflessioni che Barthes scrisse intorno all’haiku nel suo celebre libro “L’impero dei segni”, dedicato alla cultura giapponese. "Perché il Giappone? perché è il Paese della scrittura: fra tutti i Paesi conosciuti, è in Giappone che ho incontrato la pratica del segno più vicina alle mie convinzioni e ai miei fantasmi, o, se si preferisce, più lontana dai disgusti, irritazioni e rifiuti che suscita in me la semiocrazia occidentale" (R. Barthes)
L'EFFRAZIONE DEL SENSO
Lo haiku ha una proprietà un poco fantasmagorica: che ci s'immagina sempre di poterne comporre da se con facilita. Ci si dice: che cosa di piu accessibile alla scrittura spontanea di questo haiku (di Buson}?:
È sera, autunno, io
penso soltanto
Ai miei parenti
Lo haiku fa invidia: quanti lettori occidentali non hanno mai sognato di passeggiare per la via, taccuino alla mano, annotando qui e la delle “impressioni”, la cui brevità garantirebbe la perfezione, la cui semplicità attesterebbe la profondità (in virtù d'una doppia mitologia, una classica, che fa della concisione una prova d'arte, l'altra, romantica, che attribuisce un valore di verità all'improvvisazione)?
Pur essendo del tutto intelligibile, lo haiku non vuole dire nulla ed è per questa doppia condizione ch'esso sembra offerto alle interpretazioni in un modo particolarmente disponibile, servizievole, come un ospite cortese, che vi permette d'installarvi comodamente in casa sua, con le vostre manie, i vostri valori, i vostri simboli; l’”assenza” dello haiku (come si può affermare altrettanto bene d'uno spirito irreale che d'un padrone di casa partito per un viaggio), invoca la subornazione, l'effrazione, in una parola, la voluttà maggiore, quella del senso. Questo senso prezioso, vitale, appetibile come una fortuna (caso e denaro) lo haiku, sbarazzato dalle costrizioni metriche (nelle traduzioni che noi possediamo) sembra fornircelo a profusione, a buon prezzo e su ordinazione: nello haiku, potremmo dire, il simbolo, la metafora, la morale non costano pressoché nulla: soltanto qualche parola, un'immagine, un sentimento, la dove la nostra letteratura richiede abitualmente un poema, un dispiegamento о (nel genere più breve) un pensiero cesellato, insomma un lungo travaglio retorico. Cosi anche lo haiku sembra offrire all'Occidente dei diritti che la sua letteratura gli rifiuta e delle comodità ch'essa gli lesina. Avete il diritto, suggerisce lo haiku, d'essere futile, breve, ordinario; racchiudete ciò che vedete, ciò che sentite, in un minimo orizzonte di parole e saprete interessare; avete il diritto di fondare voi stessi (e a partire da voi stessi) ciò che vi sembra ragguardevole; la vostra frase, qualunque essa sia, enuncerà una morale, produrrà un simbolo, voi sarete profondo; con minimo dispendio, la vostra scrittura sarà piena.