Mercoledì, 29 luglio 2009
Giuseppe Cornacchia, sul suo blog Nabanassar, ripropone l'ebook che nacque nel 2006 dalle "bacheche" di La costruzione del verso, cioè dalla rubrica pressochè settimanale (33 puntate) in cui Gianfranco Fabbri invitava e presentava poeti giovani (o meno giovani..) e/o esordienti. Dice Cornacchia: "Fu un punto alto della nostra -come nabanassar- esperienza comunitaria, probabilmente il piu’ idillico e aperto. Ne fu informato un prodotto che univa esperienze diverse nel segno del medium blog, riportando anche i commenti alle poesie, il tutto filtrato dalla competenza di Fabbri. L’e-book aveva una forma canonica: introduzione stilistica, singoli cappelli agli autori e i commenti dei lettori; ebbe un discreto riscontro, addirittura ne fu fatta una presentazione dal vivo a Forli’, sempre per idea e merito di Gianfranco Fabbri. Presentare un libro che non esiste su carta fu un’altra bella scommessa, in anticipo sui tempi". Un'esperienza interessante, e anche divertente, anche grazie a quella comunicazione che si stabiliva con chi leggeva attraverso i commenti, nell'ebook appunto giustamente riprodotti.
Gli autori presenti: Massimo Orgiazzi, Stefano Guglielmin, Massimo Sannelli, Luca Ariano, Matteo Fantuzzi, Salvatore Della Capa, Mimmo Cangiano, Matteo Zattoni, Tiziana Cera Rosco, Giuseppe Cornacchia, Fabiano Alborghetti, Vittorio Pergola, Adriano Padua, Filippo Amadei, Francesca Serragnoli, Giacomo Cerrai, Luca Frudà, Marco Ricci, Antonella Pizzo, Cristina Babino, Fabrizio Centofanti, Nicola Riva, Roberto Ceccarini, Giovanni Tuzet, Davide Nota, Daniele de Angelis, Sabrina Foschini, Danni Antonello, Christian Sinicco, Alessandro Ramberti, Paola Turroni, Gabriele Pepe, Sebastiano Aglieco. Prefazione analitica di Gianfranco Fabbri.
Venerdì, 5 dicembre 2008
Credo di partire da una posizione di leggero vantaggio nel parlare di "Interno, esterno" di Salvatore Della Capa. Per due ragioni: la prima è che Salvatore è già stato presente su questo blog nel 2006 in due diversi post e quindi non è per me uno sconosciuto; la seconda è che alcuni dei testi che pubblicai (v. qui e qui) sono stampati ora in questo libro. E' inevitabile quindi che per prima cosa saltino agli occhi (almeno a me) alcune varianti tra quei testi e questi pubblicati in questo libro. Per quanto sia un pò troppo presto per dedicarsi allo studio filologico del lavoro di Salvatore, bisogna almeno dire che, quasi con certezza, esse sono opera dell'editore (e in questo caso editor) Gian Franco Fabbri. Un lavoro teso essenzialmente alla leggerezza del verso, alla limatura di certi spigoli. Non è il caso di dilungarsi, ma rilevo la cosa perchè mi interessa ribadire che l'editing è operazione necessaria tanto più per i poeti che, essendo le persone con la più alta autostima, giudicano intoccabili anche le congiunzioni da loro scritte. Per quanto ne so, Fabbri ha però avuto la fortuna, con la sua piccola casa editrice, di avere a che fare sempre con autori intelligenti, e della Capa è tra questi. Ma vediamo il libro, brevemente.
E' lo stesso Fabbri che suggerisce (v. qui), più incisivamente di quanto a mio avviso faccia il prefatore Guido Monti, una possibile lettura del libro di Salvatore, orientata sulla violenza che permea i testi, anche quando il dettato è sintatticamente "quieto". Una "bestia" sotterranea e presente, a volte "sensuale" nell'accezione piena del termine (e quindi animale), che agisce ed è agita all'interno e all'esterno di sè, violenza osservata, subita, qualche volta eticamente compassionata. Ma è anche, va rilevato, una violenza nello stesso tempo continua e rapsodica, presente e frammen/taria/tata come una cluster bomb. Non elevata a simbolo o metafora (nella sezione "parabellum" avevo invece intravisto a suo tempo -cito- "l'inizio perfino di un poemetto intensamente civile"), si coagula in testi tassello vaghissimamente eliotiani, stilisticamente limpidi, "quieti" appunto o "passivi" come nota Fabbri, in una sorta di antologia di momenti o, se vogliamo, in una poetica della latenza, o della coabitazione, in cui si rischia di parlare di violenza come qualcosa che "si sa", cioè quella violenza che più che esperire, grazie a Dio, come intellettuali e poeti percepiamo e soffriamo nondimeno e la denunciamo moralmente. In un certo senso, è quando l'esperienza si fa più personale che il registro cambia, come si avverte leggendo, in chiusa al libro, la bella oasi lirica di "Eleonora", dove anche in gesti quotidiani il dolore si cancella per qualche momento in versi luminosi. Solo qualche momento: l'autore ripristina l'allerta, i suoi "sensi da felino", e ansia, paura, sangue sono le parole che ci colpiscono dall'ultimo brano del libro.
Salvatore Della Capa, "Interno, esterno", Ed. L'Arcolaio, collana I Germogli, 2008
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Sabato, 21 giugno 2008
Sabato 28 giugno 2008 alle ore 18.00 a Sermoneta (LT) avverrà la presentazione (v. qui) del libro di Roberto Ceccarini "Giorni manomessi", edito da "L'Arcolaio" di Gian Franco Fabbri (http://www.editricelarcolaio.it/), a cui ho scritto la prefazione. Vi aspettiamo.
Annunciando sul suo blog l'uscita del libro, Roberto si scusa di quella che lui chiama una "marchetta". E' tipico del suo carattere, fondamentalmente schivo. Bisogna ricordargli però che pubblicizzare il proprio libro, un libro di un poeta, cioè di un appartenente a una minoranza non protetta, non è una marchetta. Marchette sono altre, basta accendere la televisione per rendersene conto. Può anche capitare di vedere un "dipendente" di B. che, avendo scritto un libro per la casa editrice di B., lo pubblicizza sulle reti televisive di B...un fenomeno chiamato marchetta a scatole cinesi o anche marchetta al cubo.
Giovedì, 13 settembre 2007
La Gru, mi dice l'amico Davide Nota, rinasce. Ne sono felice, meglio una rivista in più che una in meno, in questa palude che lui stesso e i suoi compagni denunciano. Una rivista con un programma impegnativo e con riferimenti culturali da far tremare i polsi, da Gramsci a Pasolini, da La Voce a Officina. Non so se La Gru corrisponda a quella linea locale, marchigiana o meno, di cui abbiamo già parlato con Davide su questo blog, ma spero vivamente (e ho ragione di credere) che corrisponda ad una linea editoriale. L'elenco dei redattori e dei collaboratori mi sembra offra ampie garanzie. La seguiremo con attenzione.
Ne approfitto per qualche piccola considerazione su nascita morte e risurrezione al tempo della rete.
Che ci sia un'araba fenice (che invece è una gru) risorgente dalla proprie ceneri è un fatto positivo, tanto più che le ceneri, da quel che è dato capire, erano più di tipo per così dire ambientale che ideologico e programmatico e culturale (e basta leggere sia la raccolta dei numeri usciti fino alla sospensione, sia l'antologia "Scorie contemporanee" per farsene una consistente idea)
La rete (è di questa che si parla) è un ambiente mutevole. Me ne accorgo quando faccio una revisione dei miei link. Ci sono anche sparizioni, più o meno dichiarate. Ciminiera, ad esempio, di Davoli, Del Sarto e altri, che pure aveva una sua poetica (trovo ancora interessante e niente affatto superato, ad esempio, un articolo/editoriale - se volete lo trovate qui - in cui si sosteneva la ricerca di un io non passivamente lirico, che parte dal vissuto e dall'esperienza per rivelare un senso del mondo più universale e quindi di tutti). Oppure Scritti inediti, sito davvero ben fatto, che dopo sei anni di attività, si è congedato con un malinconico "arrivederci ragazzi", e non sappiamo se questo arrivederci è l'annuncio di una nuova fenice. O anche Pseudolo, attento a linguaggi anche non verbali o di confine (l'ultimo "numero" era dedicato all'osceno), che dopo due anni di inattività non esiste più nemmeno come pagina fantasma. Oppure ancora L'Attenzione, iniziativa con una proposta forte e ideologicamente connotata nata intorno a un nucleo di poeti e intellettuali di rilievo, che ritiene di doversi dare, come nelle relazioni amorose, una pausa di riflessione a tempo, per ora, indeterminato. Ci sono poi blog che chiudono i battenti o chiudono i commenti, con scelte che vanno da "io non ritengo di dovermi più esprimere in questa forma" a "io mi esprimo, dico la mia, e non mi interessa il dibattito o la vostra opinione", con tutte le sfumature intermedie. Il che potrebbe testimoniare a favore della non necessità della critica, ma anche di un ripiegamento verso aree sempre più private del fare cultura, oppure ancora del bisogno di una "sospensione del flusso. o di (altre, e intermittenti) scritture, laterali rispetto al flusso" (M.Giovenale, v. qui)
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Martedì, 16 gennaio 2007
Ho aggiunto, per chi non avesse sotto mano il libro, una piccola selezione di testi al post dedicato all'ultimo libro di Gianfranco Fabbri (v. qui sotto), in modo da permettere ai visitatori di commentare (e eventualmente confutare) con qualche cognizione di causa quanto da me scritto.
Venerdì, 12 gennaio 2007
Supponevo, aprendo il nuovo libro di Gianfranco Fabbri ("Stato di vigilanza", Manni Editore) che forse non avrei ritrovato quella particolare atmosfera che mi aveva colpito leggendo "Album italiano" (Campanotto, 2002), la felicità narrativa, il viaggio anche metaforico, la familiarità dei luoghi, il lirismo un pò periferico, il treno anche come occhio che scorre sul paesaggio, che richiama in certi punti topici, come ebbi a dire, il Giudici di "La stazione di Pisa", ma anche, direi ora, su un altro versante letterario, il Cassola (qualcuno ricorda Cassola?) di "Ferrovia locale". Qualche indizio, raccolto in parche anticipazioni in rete, diceva che lì c'era la serena malinconia di chi perlustra un mondo quasi disabitato ma nostro, riconoscibile, umanizzato, in qualche modo parte della nostra identità anche storica; qui c'è il riconoscimento per indizi del mondo come teatro del dolore, della difficoltà del vivere e dei rapporti; e c'è il conseguente tentativo, che è l'impresa principe della poesia, di dare un senso a tutto questo con la parola, farne una sua rivendicazione di verità, come direbbe Gadamer. Del resto, Gianfranco ci avverte: ”Si riparte secondo una logica diversa”, fin dall’inizio del libro.
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Martedì, 7 febbraio 2006
Mi piacciono le poesie di Gianfranco, e questo è il primo fatto e forse il più importante poiché non sono un critico militante, come ho avuto modo di dire altrove, ma (forse un po’ snobisticamente) solo uno che legge e scrive. E’ anche un fatto, poi, che sotto questa superficie estetica ci siano motivi di apprezzamento per me validi. Comincerei col dire della forza narrativa che emerge da “Album italiano” che mi ha portato a scegliere di pubblicarne un’intera sezione, “Venezia in tre atti”, in cui questa forza emerge con particolare compattezza, ma che vale per l’intero libro, che ci riporta anche ad un altro tempo, quando il treno aveva più alone mitico, avventura, viaggio, anzi felicità o bisogno del viaggio. Questo attraversamento d’Italia, in cui i luoghi appunto narrativamente si riconoscono e ti ritrovi in una terra a te familiare, è un viaggio anche interiore perché Fabbri non è estraneo alla scena e questo attraversamento lo riguarda personalmente, un viaggio a tappe che si può e si deve poeticamente raccontare. Da qui il linguaggio, “qualcosa di affine al discorsivo”, come Gianfranco sembra affermare programmaticamente (o forse modestamente) all’inizio del libro, che ruotando spesso intorno a un “tu” che sancisce il poeta come personaggio (fattore spesso presente nella poesia moderna) addensa l’espressione poetica in versi limpidi, immediati, icastici, che raccontano forse “personaggi casuali” , “situazioni minime” (Fantuzzi), ma che non sono minimalisti proprio perché l’io (o il tu) poetico, presente ma discreto, è lì a garantire la verità del “viaggio” e del vissuto, la pietas con cui guarda al mondo e agli uomini. Versi che sono a volte trattenuti e concisi, al limite dell’haiku (“Al Tombolo l’alba sorprende / un merci andare verso Pisa.//Tanto sa l’esistenza del suo giorno”), a volte spinti da una felicità che poi esplode in un endecasillabo della migliore tradizione (“Poi dirsi: / quanto è buono il caffè / in un bar di stazione, / mentre fuori convulsa è la tempesta”), il che vuol dire peraltro che Fabbri è assolutamente consapevole dei suoi strumenti. Che altro dire in questa breve nota? Che a proposito di questo libro si è ricordato Penna (Benini Sforza nell’introduzione) e questo è giusto, ma a me è venuto in mente anche il Giudici di “La stazione di Pisa” e non solo per affinità “ferroviaria” (“Stazione di Pisa, il buio brivido / che all’alba ti destava era il segnale / convulso del diretto. / I frenatori, / con gli occhi chiari madidi di nebbia, / accorrevano neri tra i binari: / rispondevano al grido del fuochista.”). Segno questo di una elaborazione critica non solo degli strumenti, come si diceva, ma anche delle ascendenze. Si è parlato anche di fotografia al riguardo delle poesie di Gianfranco. Anche qui più che di fotografia, in questa poesia che io percepisco come dinamica, parlerei di cinema, il movimento, la luce, certi paesaggi che sfilano fuori del finestrino e dentro di noi, con occhi diversi a seconda se ami, soffri, attraversi l’Italia per piacere o per trovare altrove il tuo destino.
Gianfranco Fabbri è nato a Siena e vive da molti anni a Forlì. Ha esordito in poesia nel 1978 con la raccolta Di tutto un niente (Forum). Ha pubblicato cinque raccolte di versi (fra le quali "I ragazzi del Settanta", Campanotto, 1989 - "Davanzale di travertino", Campanotto, 1993 - "Album italiano", Campanotto, 2002, da cui proviene la sezione qui presente) e un breve romanzo, "Jennifer", presso Fernandel di Ravenna, 1995. Esplica il suo amore per la poesia, tra le altre cose, anche attraverso il suo blog “La costruzione del verso” (v. link qui a fianco)
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