Sabato, 18 agosto 2018
Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018
Avevo già cominciato a parlare brevemente di questo libro, o almeno di ciò
che sarebbe diventato, quando Mugnaini mi mandò alcuni inediti che di
questa raccolta avrebbero dovuto far parte (v.
QUI
). Il titolo era in pratica definitivo, ed in stampa è stato confermato;
mentre solo cinque delle quattordici poesie che avevo letto hanno trovato
la loro collocazione definitiva. Non è più tempo di farne un discorso
filologico, nell'era del digitale, della videoscrittura, di varianti
disperse in qualche hard disk, ma qualcosa vorrà dire di certo. Quanto meno
della cura e della disciplina con cui Ivano tratta la sua materia poetica,
e con essa il discorso che vuole portare avanti. E di quanto sia fedele
alla sua idea di fare poesia che tende innanzitutto a stabilire una
continuità di stile e di tonalità che è parte integrante di quanto intende
comunicare, in altre parole del suo "carattere", anzi - meglio - del
carattere persuasivo della sua scrittura. Riguardo al quale
confermo quanto scrissi riguardo sia a quanto avevo letto degli inediti sia
al suo libro del 2010, Il tempo salvato, (v.
QUI
). Che cioè consiste, il suo convincere placidamente, non solo nel trovare
la parola ancora serena, come ricorda Ivan Fedeli nella
postfazione, ovvero la continua ricerca di un livello comunicativo "medio"
(ma non mediocre) con poco da parafrasare e quindi confortante per il
lettore; ma anche nel riportare il suo mondo complessamente semplice
all'interno di una cerchia per così dire "domestica", e quindi comune
all'uomo, e perciò capace di creare un genius loci, un ambiente
quasi esorcizzante il mondo stesso. Che è semplice e complesso nello stesso
tempo, come si diceva, fatto di quella creta indocile dell'esistere che Ivano tenta di plasmare ad arte,
in sé complessa, ma che si manifesta per fenomeni, oggetti, evenienze in sé
semplici, linguisticamente decifrabili per quanto possibile, e tuttavia
pregni di un'altra e diversa dimensione su cui il poeta è chiamato a
riflettere, e da cui parte in riprese che a tratti mi rammentano Montale e
altri ("Allora, felice di aver capito senza avere / compreso...", "Eppure
non tutto è perfetto, c'è un brandello..."). Riflettere e sviluppare un
pensiero pacatamente, partendo da una salda fiducia nelle scrittura e nelle
radici anche culturali, stilistiche, robustamente novecentesche di essa
(*); è questo il registro principale di Mugnaini, una osservazione anche
dolorosa ma senza drammi (niente di esistenzialista) a cui il poeta
fornisce una trama dialettica nella quale gli accadimenti, i sentimenti, lo
scambio con la natura, la ricerca delle affettività trovano una
giustificazione di senso, non solo loro ma anche di quel esserci
dell'uomo. A questo si aggiunge un sentimento del tempo, generalmente
inteso, quel tempo che già avevo chiamato "il non domesticabile per
eccellenza", il tempo lineare in cui ogni momento, trascorrendo, diventa
subito memoria e quindi identità del vissuto. Mugnaini è poeta che parla
molto del tempo e - in un certo senso - fuori dal tempo si pone, in quelle
parcelle di tempo "salvato" - che poi è la poesia stessa al suo meglio -
che gli assicurano, come avevo scritto, "un'enclave psicologica e di
ethos". Nella quale il mondo si affaccia ed è nello stesso tempo escluso, o
almeno tenuto alla distanza, o forse non combattuto perché inutile farlo,
perché "è muto l'alfabeto del mondo", perché tanto le cose che contano, ci
dice Ivano, sono veramente poche ed essenziali, come ad esempio l'amore di
cui scrive pur sapendo che "scrivere d'amore non è più possibile, non ora,
/ non qui" se son si affronta, di questo tempo/mondo, "il niente (...) che
lasciamo trionfare, becero, sguaiato", e magari "la salvezza è nel riso
rubato alla ragione", il mondo è esorcizzabile "lasciando che il sole /
entri negli occhi e nella mente a petto nudo". C'è in Ivano spesso un
richiamo a puri elementi naturali che lo riconnettono con la naturalità
della vita, c'è un elemento spirituale, come avevo già detto, una pietas anche autoriferita che tende a superare, poeticamente,
anche inevitabili contraddizioni, ad esempio tra il mondo muto e il mondo
decifrabile che parla attraverso sprazzi di sole, visioni di donne, colori
, incontri, oggetti o "cose" tuttavia non inanimati, che sono lì per
"qualcosa". In molti sensi la realtà di Ivano è tutt'altro che complessa, e
se c'è un dolore alla fine è quello basico, fondamentale e quindi
"semplice" ma insidioso del pavesiano mestiere di vivere. Contro il quale
Mugnaini non grida, ma sul quale medita, non escludendo niente in verità di
quello che è concesso osservare, e quindi vivere con in fondo una certa
gratitudine, come scrissi, verso la plastica indocilità di quella creta. (g. cerrai)
(*) Cultura non esibita, con quella certa timidezza che, conoscendolo, gli
somiglia ma non lo condiziona. Un indizio: la mancanza di note al testo,
pur essendo diversi i richiami. Una specie di ritrosia a mostrare cultura
(ad es. un insospettato, insolito, Alfredo Giuliani dei Versi e non versi in Un'altra siepe di spine)
Continua a leggere "Ivano Mugnaini - La creta indocile"
Sabato, 14 marzo 2015
Nicola Ponzio - Il mio nome nel tuo nome - Oèdipus 2014
Un libro di non facile approccio, che ha bisogno di uno sforzo
interpretativo non indifferente per essere accostato, e uno sforzo più
di ragione che di sentimento. Poichè con ogni evidenza è con la ragione
che è stato costruito da Ponzio, un lavoro che copre l'arco di un
decennio a riprova di una robusta idea o concetto che si ritrova nella
compatta sostanza del libro. Voglio dire che dieci-dodici anni non hanno
minimamente influito sulla varianza di stile, come forse avremmo potuto
aspettarci. Un libro, per così dire. perseguito tenacemente.
L'idea narrativa è quella di un dialogo, a distanza probabilmente di
luogo e di tempo, tra due entità il cui scambio comunicativo è segnato
graficamente dal corsivo e dal tondo alternati, come in certi
testi teatrali. Una delle quali, si scopre fin da subito, è il cadavere
di una donna che si sta lentamente decomponendo in un ambiente
acquatico; e l'altra è un soggetto non esattamente identificato (ma è
l'autore, il "mio" del titolo) il cui compito è "leggere" questo
disfacimento, forse interpretarlo, in senso aruspicino forse, o forse
meglio come "giacimento" di segni e di nessi, di nomi e di azioni, di
fenomeni e di epifenomeni. Ma naturalmente tutto ciò non è che il
livello superficiale (il pelo dell'acqua) del libro, come avverte nella
postfazione Giampiero Marano. Già il titolo dà qualche indicazione,
denotando un rispecchiamento (il mio nel tuo) di un
"nome", che però non è quello che ci identifica come persone, non è
l'identità, ma è il nome delle cose, quello di cui dobbiamo riprendere
possesso per tentare di "comprendere" il mondo visibile e invisibile.
Concezione, che come sappiamo, è biblicamente antropocentrica,
provenendo da Dio la potestà all'uomo di dare un nome alle cose. Nel
dialogo tra i due soggetti è la trasformazione, subita e osservata, che
costringe a riconsiderare i fenomeni, a riportare l'attenzione sulla
potenza descrittoria - e quindi sul potere - delle parole. Sono - quindi
- il linguaggio e forse la poesia i nuclei fondanti e gli oggetti veri
della complessa allegoria rappresentata dal libro, come ricorda Marano. E
prima di essi, ovviamente, la scrittura, che trova la sua ragione
d'essere, e la sua salvezza, secondo l'autore, solo nell'affondare con
coraggio (e freddezza) nelle viscere delle cose, reali o immaginarie,
come in quelle di un cadavere.
Certo, fin dal primo testo, non sembra che le "cose" debbano essere
rinominate, se si accetta la lezione suggerita da Marano. Ponzio fin dal
primo testo, affidato al corsivo del cadavere, stabilisce il privilegio
dei nomi e la signoria dell'autore su di essi. Il testo, infatti,
esordisce con una accuratissima sfilza di vocaboli attinenti al processo
post mortem: "saprofagi, lividi, antremi. / decremento del calore /
e del pH: ipostasi, fenoli / ammoniaca. / l'apparire annualmente di
foglie. // poi mi sono seduta. ho aspettato. [...]" Competenza
scientifica, che si dispiega ampiamente nel libro, in aggiunta - direi -
a necessità nominalistica, e si torna al potere definitorio (ma anche
costrittorio, incasellante) delle parole. Tuttavia è proprio da questo
processo, dice il cadavere, che "iniziavano i nomi". I nomi hanno una
vita successiva al processo, che va avanti inesorabile anche senza di
essi. Se il mondo fosse vuoto di nomi, la morte continuerebbe in
silenzio la sua opera distruttrice.
Ecco, questo è un altro punto. E cioè se davvero, anche dal punto di
vista dell'allegoria che Marano accredita al libro, quella descritta da
Ponzio sia davvero una "distruzione". Può apparire singolare che sia
proprio la figura femminile, quella che tradizionalmente e culturalmente
è generante e vivificante, ad essere morta. Escludendo una ipotesi di
misoginia, direi che forse è segno di una morte non vera, nel senso di
una ricostituzione degli elementi altrove, di una rigenerazione. I
testi, che sono salvo qualche eccezione tutti brevi, sono in effetti -
nella dinamica dialogica - uno scambio di prospettive, di
"informazioni", una dissoluzione / ricostituzione, un rilasciare /
raccogliere indizi. Cosa che è, in effetti, a ben pensarci, la capacità
modulante della sintassi. Al fondo c'è anche un'idea di risanamento della
parola, che la società attuale ha danneggiato e impoverito al pari
della natura, dell'ambiente, dei rapporti umani. E' - nelle intenzioni
di Ponzio - una "anamorfosi", come titola la prima delle cinque sezioni
del libro: un formare di nuovo, un riformare e insieme, tornando al
linguaggio scientifico, una rigenerazione spontanea di certi organismi.
Ma è anche, e Ponzio non può ignorarlo, una deformazione prospettica (v.
"Gli ambasciatori" di H. Holbein il Giovane QUI)
che restituisce all'osservatore (il voyeur, come Marano chiama il
"vivo" del libro, ma anche il lettore) la responsabilità di ricomporre
il senso. Un gioco ambizioso che non è detto che riesca a dare i frutti
sperati. E infatti Marano avverte opportunamente che proprietà
dell'allegoria "è l'impossibilità di stabilirne a priori l'esito
finale".
Le altre sezioni ampliano e svolgono questa analisi allegorica del
disfacimento e il suo tentativo di "riuso", secondo il principio -
potremmo dire - trasformazionale caro al Lavoisier del "nulla
si crea, nulla si distrugge". Il percorso è articolato e insieme
ricorsivo. Di "Anamorfosi" abbiamo detto; segue poi "Imago picta", una
sezione in cui appaiono per la prima volta nel libro testi - sempre
nell'ambito del dialogo tra i due soggetti - nei quali è il colore
protagonista di una ricerca di elementi basilari ("ontologici", dice
Marano) che legano le cose tra loro, ne avvicinano il senso, fanno da
comun denominatore, e sono insieme indici e simboli di vitalità e
decadimento (e mi viene da sorridere ricordando l'ammonimento di Leone
XIV: mortuorum picta imago non imprimatur et ridens non mortui sed hyeanae facies est,
che non si stampi immagine di morti a colori, l'espressione sorridente è
propria della iena non del morto). I colori naturalmente sono primari e
"saturano" alcuni dei testi più lunghi (sei quartine ciascuno), che
Marano definisce "cataloghi mantrici": il rosso, nelle parole della
morta: "...rosso arboreo, rosso cuore, rosso chimico. / rosso bacca,
rosso acceso, rosso agata. / rosso nube, rosso legno, rosso cimice.
[...]"; il giallo nelle parole dell'osservatore: "giallo siero,
giallo ocra, giallo pallido. / giallo ottone, giallo acceso, giallo
acido. / giallo cromo, giallo antere, giallo iride [...]", e a seguire,
nelle parole del cadavere, il verde. Mentre il blu si affaccia (dopo
essersi palesato con Ponzio altrove, come vedremo) solo nella sezione
"Dell'acqua", come si conviene, ancora con la "voce" della morta.
L'acqua ha una infinità di richiami simbolici, dal battesimo salvifico
all'amnio, ma qui direi che va nel senso doppio di liquido in cui
l'allegorico cadavere si dissolve e di "scrittura che fluisce" e
riordina le "caotiche correnti che ti corrompono". E' nella sezione
"L'urna e la luna" (il cui titolo, insieme all'acqua, non a caso mi
rammenta l'Ophelia di John Everett Millais (1852), capolavoro
della pittura preraffaellita) che lo spettro dei colori decade nel
grigio, nel nero e nel bianco, catalogati rispettivamente dal cadavere,
dall'osservatore e ancora dalla morta, e riferiti con ogni evidenza alla
notte. I colori però non sono l'unico oggetto di questi "cataloghi
mantrici": ancora in "Dell'acqua" Ponzio costruisce un elenco in venti
quartine delle duecentocinquantadue differenti specie (secondo il
conteggio di Marano) di Naviculae che "produttrici insieme ad
altre diatomee di quasi un quarto dell'ossigeno che respiriamo,
costituiscono l'origine, sempre diversa e sempre uguale a sé stessa, in
rapporto alla quale la morte e la dissoluzione della materia risultano
illusorie, inessenziali" (ancora Marano). E infine, nel penultimo testo
del libro, privo di metrica, Ponzio cataloga sostanze, minerali,
composti, liquidi, essere viventi, fenomeni della natura, elementi
(circa centottanta) tutti accomunati, come rileva Marano, dalla
proprietà della trasparenza. Come se tutta l'odissea del cadavere e
della sua distruzione abbia condotto finalmente, sempre secondo Marano, a
rivedere la luce, "dall'amnio alla cromosfera". Il testo appartiene
all'ultima sezione, titolata "Agnizioni", che, come noto, rimanda
direttamente a un topos letterario, al "riconoscimento" (forse dell'
"identità" dell'allegorico cadavere), alla "svolta" nel percorso
narrativo.
Vediamo di tirare qualche somma, dopo questo lungo resoconto. Mi pare
evidente che l'impianto dell'opera è concettuale, se non ideologico,
termine sovrapponibile che usa anche Marano. E' poesia di ricerca,
certo, e Ponzio appartiene indiscutibilmente a quest'area, tanto
eterogenea quanto criticamente indefinita, e in particolare a quella
linea il cui oggetto principale se non unico è il linguaggio
"spogliato", depotenziato di parecchie delle funzioni che ad esso si
assegnano tradizionalmente (da Jakobson in poi) e messo spesso in una
condizione metalinguistica, di mezzo che indaga sul mezzo. Un
linguaggio il cui senso va ricercato "altrove", il cui carattere
evocativo è tutto "interno", nel suono che produce (spesso, come nei
cataloghi, mono-tonale come certe musiche primitive) o nella
"ossessione" che trasmette, un linguaggio che diventa emblema e icona
della criticità e della difficoltà di comprendere il mondo. Diventa
allegoria di sé stesso. E' ovvio che il libro, che offre anzi molti
spunti di interesse e di riflessione, non è riducibile a questo, ma la
lettura è anche un gioco di consonanze, e leggendo quest'opera mi sono
tornate alla mente un paio di cose. La prima riguarda un altro libro,
che ho molto apprezzato, ovvero "Serie del ritorno" di Stefano Massari
(v. QUI):
anche lì una struttura dialogica, una contemplazione e un dialogo con
la morte, anche lì segnati graficamente dall' alternanza tra corsivo e
tondo, ma con una ben diversa cognizione del dolore come componente
ineludibile dell'umano, e non solo perché c'è un "io" presente, di uno
che - come scrivevo - si è seduto sulla soglia, quella estrema. Per
sintetizzare, una diversa temperatura. Non si tratta di stabilire
confronti, del tutto inutili. Ma il ricordo mi è servito per capire
altro, ad esempio un certo senso di freddezza che il libro di
Ponzio mi ha restituito, solo a tratti mitigato nei testi in cui l'osservatore sembra interiorizzare il pensiero, rimeditare la parole della morta. Che viceversa è in pratica quella che, paradossalmente, tinge le
sue parole di qualche emotività, di qualche accento lirico, se non
elegiaco, come un rimpianto. Forse sbaglio, forse è un'impressione più da lettore che da
critico (cosa che tra l'altro non sono) ma a me pare che dall'altra
parte, dalla parte del voyeur/autore (e quindi una cosa voluta) ci sia
un osservatore fin troppo distaccato rispetto al "dramma", qualsiasi
esso metaforicamente sia. In realtà non c'è "parentela" (capiamoci, non
parlo di anagrafe) tra queste due voci, come se il vivo "ipotizzasse"
sulle cose del cadavere, come un anatomopatologo, termine che anche
Marano utilizza (e infatti quasi subito si legge, parole
dell'osservatore: "s'ingenera l'effetto di una lente / se si esamina il
perimetro: lieviti, lave / larve intorpidite dalla brina". Il perimetro,
come sa ogni amante di gialli, è la griglia che incasella la scena del
crimine). L'effetto che a me personalmente ritorna è una certa sensazione di latitanza di empatia, o meglio (l'etimo aiuta
sempre) simpateticità verso un oggetto che - a questo punto - è
post-umano, ma con poco Nietzsche. E forse è necessario che sia così,
perchè l'oggetto non è nemmeno tale, il cadavere è una pura finzione
scenica, esattamente come l'allegoria su cui ruota tutto l'intervento di
Marano. Sarà il cadavere della società, o dell'arte, o della lingua, ma
il punto è chi è l'alter di questo, con quale "dolore" compartecipa
alla tragedia. Ammetto che forse non è lecito aspettarsi queste cose da
un'opera che ho definito concettuale, in cui cioè il rapporto tra
l'autore e la sua materia è - per così dire - naturalmente
"anaffettivo", marcato dalla distanza.
E preciso anche che queste considerazioni non investono la particolare
estetica di questa opera che certamente ha il suo fascino e la sua
importanza.
L'altra cosa che mi è tornata in mente e che credo interessante, invece
riguarda l'airone de "Il giardiniere contro il becchino" di Antonio
Porta, che risale a un trentennio fa: "A questo punto, Airone / mi
frughi nel ventre / e trovi umida sabbia e / piccole uova di rettile, /
il tempo, il poema finisce / in punta di lingua (...)". Dice Niva
Lorenzini: "retto per intero sulla struttura contrappuntistica di un io /
tu che si rivela voce sdoppiata del poeta-airone protagonista delle
segmentate sequenze, mette direttamente in scena la scansione del
nascere e del morire, associandola alle aree cromatiche della
trasparenza e dell'opacità". Ecco che si torna a una serie di elementi
(sdoppiamento, colori, trasparenze, vita/morte ecc.) del libro di cui
stiamo parlando. Non so se questo è un ascendente, ma è probabile.
Curiosamente, è possibile ritrovare gli aironi, accostati a termini
tecnici cari a Ponzio, in un interessante lavoro del 2007, "Esercizi del
rischio" (v. QUI): "Isomeri – arenaria / sottile impastata con l’acqua / specchiante due flebili aironi". Questi
elementi tuttavia risultano, anche nel corpo della raccolta, per lo più
"assiepati" nei cataloghi. Che certo, d'accordo con Marano, assumono un
ruolo importante, ma possono anche apparire in qualche modo - per così
dire - "innestati".
I cataloghi, che dal punto di vista del discorso che facevamo sulla
scrittura di ricerca sono esemplari, lo sono però anche in termini di
ascendenti letterari. I quali certo esistono, e forse sono quelli nobili
che cita Marano, da Omero a Dante alla Rosselli fino ai Veda, ma tra i
quali bisogna ricercare lo stesso Ponzio. E' davvero probabile che il testo che elenca le duecentocinquantadue Naviculae sia ispirato al Catalogo delle navi
del secondo libro dell'Iliade, come osserva acutamente Marano. Ma i
"cataloghi mantrici" dei colori e degli elementi provengono direttamente
da una certa ossessione poetica che Ponzio ha espresso più volte
nell'ambito della poesia di ricerca (continuo ad usare forse
impropriamente questo termine). Anche solo limitandosi a quanto è
possibile reperire in rete, si può trovare il blu in un testo del 2013
(v. QUI), il bianco in uno del 2011 QUI,
(dove forse l'ispirazione è extraletteraria: Yves Klein, Piero Manzoni, tanto per
citare due nomi che certo Nicola conosce bene), un altro interessante
testo catalogatorio, questa volta dedicato al tempo, del 2012 (v. QUI). Tutti testi o modelli di testi che hanno trovato una ricollocazione, una rimodulazione, un "innesto" come ho detto prima, nell'opera.
Insomma un libro complesso, con non pochi spigoli, un libro che non
consente molte vie intermedie, anche per quanto riguarda il suo
apprezzamento. Uno di quei libri che se fosse al centro di un dibattito
(e non è detto che non lo sarà) sarebbe definito controverso. (g.c.)
Continua a leggere "Nicola Ponzio - Il mio nome nel tuo nome"
Sabato, 23 agosto 2014
Scrittore onnivoro, come è stato definito, e molto altro (come Lunetta, vedi post del 2 agosto), Gentiluomo ha detto di sé "Sono un manipolatore di parole, mi piace giocarci, metterci
le mani, sporcarmi". Quindi sta bene tra questi post estivi (con Lunetta appunto, e Villa) che riguardano una scrittura di ricerca, che appunto manipola il linguaggio ma che è anche ilare o drammaticamente ironica e che spesso si fa beffe del linguaggio stesso, lo contamina con inserzioni che "stonano" il tessuto poetico (o quel che comunemente si intende tale) e tendono a farlo scoppiare dall'interno. Di modo che poi a chi legge rimane una specie di ansia da completamento, una voglia endogena e maligna di ordine che però, per il bene della poesia, di questa poesia, va fieramente combattuta. "Sul più bello della storia d'amore la memoria / si disfa, si sfilaccia, si tagliuzza e non c'è più modo / di ricordarsi cosa succede dopo". Cosa che in effetti non importa sapere, va bene così, la poesia - come quasi sempre - è "un altro pezzo del mondo staccato e corroso", la parte per il tutto impossibile da abbracciare, da scrivere. Giusto quello che volevo dire. E' ciò che fa il poeta quando, come qui, mette in campo o finge di mettere in campo il proprio io non come "esemplare" (il tutto di una parte come nella lirica), ma come "pezzo del mondo", ivi abitante e (parola che ricorre) in transito. (g.c.)
Continua a leggere "Paolo Gentiluomo - da L'onnivoro digiuno"
Sabato, 2 agosto 2014
Quattro poesie di Mario Lunetta, un poeta (e molto
altro) che piaceva molto al compianto Luigi Di Ruscio, quattro brani che mi paiono utili per rinfrescare la mente
in questa stagione bischera e mi sembra vadano bene per il tempo
ordinario, ma con poche speranze, che viviamo. Testi nei quali tra ironia e
cattiveria Lunetta, partendo da eventi anche apparentemente minimi che rapidamente deragliano verso la catastrofe, mette in scena la sua particolare critica della
realtà attuale.
Dice Francesco Muzzioli, nella prefazione a "Magnificat", Ed. Tracce 2013: "Nella
sua fase recente, diciamo all’incirca nell’ultimo decennio, la
scrittura di Mario Lunetta – questa formidabile “scrittura ininterrotta”
che senza posa attraversa tutti i generi, dalla poesia alla narrativa,
dal teatro all’aforisma, dal saggio critico all’antologia e via dicendo –
si è attestata su di una visione assolutamente disincantata e
sarcastica della degradazione economica, morale e culturale del nostro
mondo odierno. Diagnosi senza speranza, è vero, però lucida e attiva,
che non conduce nel vicolo cieco della rassegnazione, né tanto meno alla
rinuncia del silenzio, ma insiste a percorrere in lungo e in largo il
panorama dell’orrore contemporaneo esercitando ad ogni passo la sua
“scherma fantastica” (la fantasque escrime di cui parlava Baudelaire)
contro la moltitudine delle storture e delle stupidità sociali. Chi
supponesse che questa poesia “virata al nero” diventi monotona, perché
la lingua andrà sempre a battere per forza là dove il dente duole,
sarebbe in errore. Non è affatto così, sia perché all’uniformità
dell’omologazione imperante risponde una corrispettiva diffrazione e
variazione stilistica; ma soprattutto perché il divenire abitudine
dell’orrore (il fatto che ormai ne siamo anestetizzati e l’ennesimo
scandalo provoca una sensazione di déjà vu), non essendo altro che
l’ispessirsi dell’orrore medesimo, è proprio il bersaglio che s’intende
colpire. Naturalmente, nessun palliativo è accetto e nessuna facile
illusione di orizzonti luminosi o di carismatici messia in arrivo, né
tanto meno di “luci in fondo al tunnel”. I margini di manovra sono
assolutamente stretti – Lunetta lo sa bene, in un panorama dove i pochi
compagni di lotta stanno scomparendo ad uno ad uno – e sono tutti nei
termini di un minimo “tuttavia”, o “todavía” come ormai preferisce dire
l’autore, al modo di un donchisciottesco hidalgo". Da aggiungere,
come ovvio corollario, quanto Lunetta ha affermato in una intervista
rilasciata a Simone Gambacorta, in risposta alla domanda sul "fare"
poesia: "Detesto il lirichese, oggi così di moda in questo nostro
stupido paese. Mi ritengo un poeta dialettico, che non guarda solo il
proprio ombelico e non celebra le proprie pulsioni individuali. Il mondo
è vario, anche se sempre più omologato nella volgarità, e un poeta deve
avere il coraggio e la consapevolezza di guardarlo e confrontarvisi.
Per farlo, occorre rinunciare alle scorciatoie del lirismo e dell’elegia
– Baudelaire diceva che “tutti i poeti elegiaci sono delle canaglie” –
per misurarsi coi linguaggi complessi. Quindi, non emozionalità di primo
grado, ma lucidità e straniamento".
Continua a leggere "Mario Lunetta - Quattro poesie"
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