Domenica, 24 settembre 2017
"Racconti", dice la copertina di questo libro. Sì, certo, racconti,
narrazioni, usiamo per una volta questo termine depredato dalla politica,
riportandolo alla sua originaria innocenza. Ma anche poesia sempre
presente, che affiora in ogni frase, come le risorgive che si incontrano
nella pianura padana. E poi Vitae, dice il titolo, con una
pluralità che già arricchisce, poiché la narrazione è di una voce solitaria
ma che racconta di sé e di altri e altro, di vissuti susseguenti e
paralleli. E quindi racconti, sì, ma nei quali la mera componente finzionale è minoritaria, delegata quasi del tutto alla funzione
poetica della scrittura, all'estetica e alla retorica di essa (siano
entrambi i termini sine iniuria), che Maria Pia padroneggia da par
suo, incorniciando perfettamente il fatto. Il quale è sempre, qui
e altrove nel suo lavoro, qualcosa di memorabile, nel senso originale del
termine, quel che deve essere consegnato ad una forma, un oggetto portatore
non tanto di rimpianti quanto di valore. L'opera di Quintavalla è
quasi sempre una resa dei conti e una dialettica accesa con il proprio
materiale biografico, con le proprie vite, per dirla con parole sue. Questo
mi pare avvenga in maniera molto più accentuata che rispetto ad altri
scrittori. Ma tutto ciò non è mai autobiografismo, c'è sempre una distanza che Maria Pia frappone tra il dato e la sua meditata
elaborazione poetica, basta leggere China o I compianti
per averne un'idea (v.
QUI
), a proposito dei quali scrivevo che pareva "una lotta feroce, non facile,
a tratti eroica, sul fronte almeno doppio dell'affollarsi del materiale
poetico e del linguaggio necessario per ridurlo alla ragione, sempre in
bilico tra tracimazione e condensazione, tra il bisogno di "narrare"
totalmente il fatto o il ricordo di esso, e quello di ridurlo alla sua
essenza poetica, decantandolo". Va da sé che questo libro non può avere né
la tensione drammatica né la compattezza formale di quelli. Va però letto
nel senso che dicevo prima, di affettuoso e partecipato repertorio di
persone, luoghi, eventi e esperienze lavorative che hanno avuto un ruolo
formativo nell'arte di Maria Pia, che sono in qualche modo lei. Un
dipanarsi di storie con la loro verità, anche quando più sembrano
essere inventate. Questo avviene ad esempio nei primi brani della prima
parte, intitolata appunto Storie, "una romanzata storia che di
vero contiene tanto, e autobiografica", scrive la stessa autrice. E'
interessante notare che se di vero contengono tanto, ma non tutto,
è perché in Quintavalla la poesia non può evitare di esercitare la sua
funzione, il suo peso specifico sulla materia prosastica (una cosa tanto
più evidente, come vedremo, nell'ultima sezione del libro) e insieme
innervare il suo indubbio talento di narratrice. E' per questo che sono -
non è paradossale - intrinsecamente veri (e molto belli), sia quando Maria
Pia parla dei suoi amori attraverso l'Italia (Nord-Sud) o del suo
conquistare e vivere il lavoro (Mi piace lavorare) o del suo essere madre
"capofamiglia a sé stessa" (La terribile età) o, ancora, la
disillusione di una relazione (Era stato un amico), in terza
persona ma che non può che essere la sua.
C'è naturalmente, in questi racconti, una vena malinconica, un come eravamo, soprattutto quando Maria Pia ricorda un periodo
irripetibile, una temperie, i suoi incontri con personaggi della cultura e
della letteratura, una Milano che non era solo da bere ma anche da
respirare, da nutrirsene artisticamente, e terreno di lotta quotidiana per una donna che doveva trovare la sua strada da sola. Un serie di ritratti (è il titolo
della seconda parte), tutti molto vividi e belli (Sicari, Campana,
Zanzotto, Porta) che restituiscono bene umanità ed atmosfera ed anche il
perché di un divenire artistico e intellettuale. E' difficile sottrarsi
all'impressione, come lettore, di uno sguardo rivolto all'indietro, di un
recupero e restauro di materiali dolorosi da lasciare o no all'oblio. Se è
un libro rivolto al passato, e forse un libro che potrebbe apparire
episodico, va però ricordato, con Paul Ricoeur, che c'è una responsabilità
(tanto più in un autore) su cosa ricordare e cosa dimenticare, perché non
si può ricordare tutto. E anzi c'è anche un problema di interiorizzazione,
di silenzio, qualcosa cioè che si decide di tacere. E questo oblio
selettivo è proprio del raccontare, è peculiare della narrazione. Ma anche, aggiunge, del perdono, cosa
che - mi permetto di chiosare - è quanto mai importante quando si fanno i
conti, anche per via artistica, con le proprie vitae.
E proprio l'ultima parte del libro, intitolata Da China in prosa è il recupero più significativo, sebbene
quantitativamente minoritario. Che è sia recupero di materiali poematici
sia un dietro le quinte che torna utile a chiunque abbia apprezzato come me China alla sua uscita nel 2010 per i tipi di Effigie. Si tratta,
come spiega Maria Pia stessa di "una sezione da China in prosa,
prima che il poeta Franco Loi mi convincesse che era metro e poesia, e a
riscriverla in China". Già questo processo transitivo prosa/poesia
(e forse di nuovo prosa, con qualche intervento, suppongo) è interessante
in sé e seguendolo ci si rende conto di quanto Loi avesse ragione, poiché
il peso specifico della poesia a cui alludevo già in queste righe è palese,
e non potrebbe essere altrimenti. Ma con questa sezione si torna anche in
qualche modo alle origini, si ristabilisce una archeologia e un ordine
delle cose in quella copiosa sorgente di ispirazione che è la famiglia, la
casa, la madre (China), le radici anche dolorose e complesse che a suo
tempo chiamai autobiologia o anche il lessico familiare di Maria Pia.
Nata prima, molto prima dei Compianti, come lei mi scrisse, China, posta proprio in fondo, a sigillo del libro, immagino
voglia chiudere - qui - un cerchio, scegliendo, come dicevamo, che cosa
responsabilmente consegnare alla memoria o all'oblio. (g. cerrai)
Maria Pia Quintavalla - Vitae - Ed. La Vita Felice, 2017
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Martedì, 28 settembre 2010
China (Ed. Effigie 2010) è un romanzo in versi con cui Maria Pia Quintavalla continua a sviluppare il suo personale lessico familiare e forse lo
conclude cronologicamente, concludendolo forse anche artisticamente quando "I compianti" (di cui qui si è già parlato) troveranno una loro forma
definitiva e una pubblicazione. Non so in effetti cosa venga prima o dopo nella travagliata cronologia lungo la quale MPQ ha costruito la sua resa dei
conti, ha voluto affermare "la sua volontà di guardare in faccia la realtà, di rivisitare il passato, di riaffrontare con amore la propria vicenda",
come dice Franco Loi nella prefazione ad Album feriale (Archinto, 2005), un altro dei capitoli di questo percorso poetico. Ma credo che questo libro,
dedicato alla figura della madre scomparsa, assolutamente centrale nella sua esperienza poetica e di vita, chiuda in effetti una vicenda. E, per
ragioni extra poetiche, è proprio quello che auguro a Maria Pia.
Di questo libro, sostanzioso e coinvolgente, si è già parlato in maniera diffusa (v. ad esempio qui e qui). Dire in questa occasione che è un romanzo
in versi è addirittura pleonastico, a questo punto. Romanzo perchè come tale lo si legge e come tale è costruito, con la sua scansione in capitoli, i
lunghi testi in cui domina l'imperfetto (il tempo "femminile", del divenire), e il privilegio dato al fiato narrativo, ai fatti anche quotidiani, alle
epoche e agli ambienti, ai ricordi e alle occasioni. Romanzo forse anche perchè, a mio avviso, qui si nota una maggiore attenzione al dire (e al lavoro
sintattico per dire) piuttosto che al versificare, al polire l'emozione in versi, fatto che certo non esclude i molti momenti lirici, sostenuti da moti
del cuore o ferite ancora molto vivi. O forse perchè il sopravvento del dato biografico assume l'aspetto di una rilettura della vicenda con tratti a
volte cronachistici, di ambientazione, di posizionamento storico, che lascia sul terreno come i detriti di una magnifica scultura.
Mi sembra che l'interrogazione di fondo di questo libro sia l'estrarre tutto l'estraibile dalla vicenda umana dell'autrice, o almeno da questo suo
epilogo familiare: una lotta feroce, non facile, a tratti eroica, sul fronte almeno doppio dell'affollarsi del materiale poetico e del linguaggio
necessario per ridurlo alla ragione, sempre in bilico tra tracimazione e condensazione, tra il bisogno di "narrare" totalmente il fatto o il ricordo di
esso, e quello di ridurlo alla sua essenza poetica, decantandolo. E' l'elaborazione di un lutto (quello della madre), come è stato notato, ma anche
metabolizzazione di conflitti forse mai del tutto composti. Il rimpianto (o il compianto, per rimanere a un termine che è ormai "suo", di Maria Pia) è
molto spesso contrappuntato da sottolineature di incomprensioni o contrasti, in modo che il rimpianto è anche e contemporaneamente l'impossibilità,
sancita dalla morte, di poterli infine conciliare ("sono tante le cose che non ti ho detto, / il testamento andava scrivendosi piano..."). Il libro è
anche la storia di un confronto tra donne. Non tanto tra una diversità o una distanza di età o di ruoli all'interno di una qualche gerarchia
madre/figlia, piuttosto tra diversi modi di essere donna, tra diverse priorità (una per tutte la scrittura, così aliena e "altra", così indispensabile
e vitale nelle diverse sensibilità delle due deuteragoniste.
Il corso del "romanzo" è in parte il corso degli eventi, strutturati appunto narrativamente, con prologhi, epiloghi, ripetizioni, passi indietro (come
nota Ottavio Rossani: "a passo di gambero: uno avanti, uno indietro, cioè una proiezione verso il futuro liberato dalle ombre e, poi, un’estrazione
improvvisa dal cilindro della memoria"). Si inzia dalla fine, dalla morte avvenuta, dall'ospedale, da una specie di preghiera laica ("..oh madre / che
riposi oggi nella conoscenza, / stai serena e guarda noi piccoli. / se salvatrice, accoglici...") o anche da un dubbio che assale chiunque abbia
perduto una persona cara ("come ci senti, dove ci ricordi, / hai bisogno di noi, o ne sei offesa sfinita" o anche "dove ti trovi oggi, madre, / sei
nell'ineffabile dell'aria tra i campi, /...o resti qui tra noi diversi, divisi ancora / dalla tua grande, e atroce vita"). Poi , tornando indietro, la malattia, le visite dei parenti, spettatori
più rituali che confortanti, a volte destinatari di lemantele che coinvolgono ancora Maria Pia, e quindi il conflitto, in una sezione intitolata "I
parenti, il perdono". Perdono di chi nei confronti di chi? Non è chiaro, non c'è traccia di perdono, se non convenzionale ("bisogna perdonarsi tutti,
/ genitori e figli. Lascia andare!", dice una cugina alla madre), se non quello delle parole della poesia o quello di accudire, "ricambiando il rito",
cioè una qualche inversione di ruoli madre/figlia che l'infermità comporta, non necessariamente con affetto. E ancora più indietro, alle origini del
conflitto, in una sezione intitolata "Il decalogo di una bambina" in cui si marcano le diversità, si delineano i caratteri, si fissano i contorni del
dissenso, si cerca disperatamente di far capire "che cosa a un bimbo / non si può mai fare". Torna prepotente il problema della scrittura come costante
di vita inalienabile per l'autrice, non percepita invece dalla madre, e perfino oggetto di incidenti (o forse distruzioni freudiane), come quando il
padre "nel repulisti annuale, i bei quaderni / caddero nel fuoco". Ma sullo sfondo non c'è solo questo, si intravede anche un naturale attrito
generazionale, tra ribellismo da una parte ("Al Sole e alla Luna, scrivevo / ai nonni materni / ... / Al caro Hitler e al caro Stalin, / l'intestazione
di missive ai genitori veri") e dall'altra una consolidata idea, anche estetica e etica, di figlia femmina, un orgoglio ("... Io, ti ho fatta / così
bella, rivendicavi...") a volte non abbastanza confortato dai riscontri che ci si aspetta, mischiati in sentimenti ambivalenti nei confronti di chi,
invece, "voleva / da lì muoversi, salpare".
Bambina, adolescente che cresce e si muove tra scuola e famiglia. La sezione "Interni, totem" è forse quella più densa da un punto di vista narrativo,
gli interni in cui si muovono i personaggi e avvengono i mutamenti sono (forse, forse) quelli della "casa" che poi Maria Pia chiuderà ne "I Compianti",
il totem non è solo, probabilmente, il nome di un orsetto, ma anche il corpo, di cui l'autrice in questo periodo inizia a percepire non solo le
pulsioni accese, ma anche le potenzialità di spirito guida, di libertà e di liberazione, o almeno di qualche infantile riscatto o richiamo
d'attenzione. Certo, dapprima il corpo della ragazzina è esibizione di un dolore che esige il conforto della madre, come quando, dopo un incidente
quasi cercato a scuola, "lei arrivò, / incurante in tailleur snello, così sembrava", e per l'autrice "la mia gloria, in quella tenera mattina, / era
che lei per me, noi sole, / potessimo una volta stare accanto" (ma, avverte Maria Pia, "non si ripetè il miracolo"). Poi l'infanzia svanisce, il
corpo diventa altro, nei giochi si insinua la curiosità sessuale, nella naturale schermaglia "al buio i maschi spingevano le bambine per baciarle",
ancora non chiaro il confine tra bene e male. La madre sorveglia, la madre nota e addita i primi toccamenti, come una ricerca di altri affetti, di
altre "braccia" che non fossero quelle materne. E poi altre attrazioni, anche fraintese, e il buio dei cinema, e i ragazzi, le avances. "L'amore - dice
Maria Pia - era per me già gioco duro / di una me che non sapeva perdere leggermente / né vivere all'oscuro". Su tutto, sempre, la scrittura:
"tacevano squittivano nel buio / dei quaderni, i versi".
Il trasferimento a Milano di Maria Pia (la sezione "Milano, poi") è narrazione della malattia, conoscenza, sua e dei suoi piccoli ricatti,
prefigurazione della morte. Ma anche ulteriore discontinuità nella comunicazione, difficoltà, ancora, di intendersi, dubbio della madre che questa
difficoltà sia ingiustificata (v. "La consegna del silenzio) o un atto mancato. A volte eventi come la nascita della figlia dell'autrice rompono certi
silenzi, e offrono spazi ad affetti delegati, a volte chi scrive ammette, come un linimento, che "le distanze acquisite mi facevano protetta", o che al
telefono si va molto più d'accordo. Eppure la distanza, come direbbe Stefano Guglielmin, è immedicata. Diventa un territorio in cui i ricordi della
vita familiare, in quella casa ora lontana ("in quella che appariva una spaziosa casa"), si affastellano, la televisione, i quiz che amava il padre, il
quaderno dei conti della madre "cui il padre obbligava, in doganale sguardo", i rituali stagionali, la cucina, i "leggendari pranzi di Natale" da cui
la madre usciva spossata, fino all'ultimo. In altre parole la distanza, anche se nella narrazione, tra i ricordi, emergono ancora gli atti o i discorsi
di recriminazione e la malattia e i medicinali diventano un corpo solo, ritorna ad essere appello di affetti, necessità di quegli incontri (o
re-incontri) che Maria Pia non esita a definire "visitazioni".
Forse la sezione del libro più "affettuosa" è "Parlavi per intonare una tua antica voce". E' la narrazione nella narrazione, il racconto dolce di una
madre affabulatrice, di sè, della sua infanzia anch'essa alle prese con una madre "sempre lontana e dura", della guerra, del padre "dolce hidalgo, di
antichi fasti orfano", di "altre storie più lievi, fiabe gentili", di leggende locali in cui parole dialettali, così poeticamente feconde, "nel
dondolare della lingua / si mischiavano al carnale, selvatico di Parma / ne rotolavano giù per terra, / come un bimbo cade sopra un prato". Una, qui,
rimpianta madre che, dice l'autrice, "eri inesausta nel narrare, tutto rapivi / al volo nei dettagli, di un'epica solenne: / noi là vinti - ad
ascoltarne il verbo, il verso".
Al suo epilogo il libro, in una sesta parte titolata "A sud, speranze", vira malinconicamente verso una riconciliazione del ricordo. Al sud, luogo di
villeggiatura negli ultimi anni, le speranze si ricollegano alla possibilità di un dialogo, complice una maggiore pacatezza dell'età, all'approdo di
una ricerca ("per una vita ti ho cercata, / in luoghi già vissuti") o all'ultimo bilancio di ricordi felici, alla fissazione di essi, infine, in poche
immagini definitive ("cara madre, / dai foulards in pervinca azzurro"), quelle che ci serviranno a stabilire, al di là di tutto, un amore, un'amorosa
assenza in cui finalmente "non c'è acredine o ira, né silenzi, ma danza / dell'uno verso l'altro", dolci immagini sullo "sfondo ideale di una
famiglia", "storia che ci lega, / invisibile ai più".
Continua a leggere "Maria Pia Quintavalla - China"
Sabato, 28 novembre 2009
Non
è agevole parlare di un libro che, in un certo senso, non c'è. Non ha
ancora forse la sua stesura definitiva, la sua struttura organica,
forse nemmeno il suo titolo, e vive nei dilemmi della sua autrice. In
questo corpo ancora in mutazione come quello di un adolescente non è
facile dire cosa venga prima e cosa dopo, attorno a quale nucleo
temporale l'ispirazione dell'autrice si sia addensata.
Ma non importa, basta incominciare a leggere. Questo libro, che per
comodità ipotizziamo di chiamare "I Compianti", nasce dalla penna di
Maria Pia Quintavalla. E nasce, come mi dice Maria Pia in un suo
messaggio, da un evento luttuoso e dalla conseguente chiusura di un
"luogo", in senso non solo metaforico ma anche fisico. So per
esperienza cosa significa, dopo la morte dell'ultimo genitore rimasto,
non solo chiudere una casa, ma anche svuotarla di cose, oggetti a cui
siamo legati, ricordi tangibili e concreti, suppellettili, insomma una
vita intera, "quel groviglio di mobili e cimeli", dice Maria Pia. Il
compianto che ne nasce è rimpianto, nella migliore delle ipotesi. E'
rimorso invece quando, nella peggiore, ci si lascia sommergere dalla
sensazione che attraversata quella soglia, fisica o metaforica che sia,
ogni comunicazione (il non detto ma soprattutto quello che avrebbe dovuto
essere detto) sia interrotta per sempre. E' questo forse il nucleo
centrale di questo libro: la radicalità degli eventi, quando la poesia
rimane un'eco, uno strascico, perchè il distacco è definitivo. Si parla
da soli, nessuno risponde, e in questo la poesia assomiglia a una
preghiera recitata contro il muro del pianto.
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