Sabato, 14 marzo 2015Nicola Ponzio - Il mio nome nel tuo nomeNicola Ponzio - Il mio nome nel tuo nome - Oèdipus 2014
Un libro di non facile approccio, che ha bisogno di uno sforzo
interpretativo non indifferente per essere accostato, e uno sforzo più
di ragione che di sentimento. Poichè con ogni evidenza è con la ragione
che è stato costruito da Ponzio, un lavoro che copre l'arco di un
decennio a riprova di una robusta idea o concetto che si ritrova nella
compatta sostanza del libro. Voglio dire che dieci-dodici anni non hanno
minimamente influito sulla varianza di stile, come forse avremmo potuto
aspettarci. Un libro, per così dire. perseguito tenacemente.
L'idea narrativa è quella di un dialogo, a distanza probabilmente di
luogo e di tempo, tra due entità il cui scambio comunicativo è segnato
graficamente dal corsivo e dal tondo alternati, come in certi
testi teatrali. Una delle quali, si scopre fin da subito, è il cadavere
di una donna che si sta lentamente decomponendo in un ambiente
acquatico; e l'altra è un soggetto non esattamente identificato (ma è
l'autore, il "mio" del titolo) il cui compito è "leggere" questo
disfacimento, forse interpretarlo, in senso aruspicino forse, o forse
meglio come "giacimento" di segni e di nessi, di nomi e di azioni, di
fenomeni e di epifenomeni. Ma naturalmente tutto ciò non è che il
livello superficiale (il pelo dell'acqua) del libro, come avverte nella
postfazione Giampiero Marano. Già il titolo dà qualche indicazione,
denotando un rispecchiamento (il mio nel tuo) di un
"nome", che però non è quello che ci identifica come persone, non è
l'identità, ma è il nome delle cose, quello di cui dobbiamo riprendere
possesso per tentare di "comprendere" il mondo visibile e invisibile.
Concezione, che come sappiamo, è biblicamente antropocentrica,
provenendo da Dio la potestà all'uomo di dare un nome alle cose. Nel
dialogo tra i due soggetti è la trasformazione, subita e osservata, che
costringe a riconsiderare i fenomeni, a riportare l'attenzione sulla
potenza descrittoria - e quindi sul potere - delle parole. Sono - quindi
- il linguaggio e forse la poesia i nuclei fondanti e gli oggetti veri
della complessa allegoria rappresentata dal libro, come ricorda Marano. E
prima di essi, ovviamente, la scrittura, che trova la sua ragione
d'essere, e la sua salvezza, secondo l'autore, solo nell'affondare con
coraggio (e freddezza) nelle viscere delle cose, reali o immaginarie,
come in quelle di un cadavere.
Certo, fin dal primo testo, non sembra che le "cose" debbano essere
rinominate, se si accetta la lezione suggerita da Marano. Ponzio fin dal
primo testo, affidato al corsivo del cadavere, stabilisce il privilegio
dei nomi e la signoria dell'autore su di essi. Il testo, infatti,
esordisce con una accuratissima sfilza di vocaboli attinenti al processo
post mortem: "saprofagi, lividi, antremi. / decremento del calore /
e del pH: ipostasi, fenoli / ammoniaca. / l'apparire annualmente di
foglie. // poi mi sono seduta. ho aspettato. [...]" Competenza
scientifica, che si dispiega ampiamente nel libro, in aggiunta - direi -
a necessità nominalistica, e si torna al potere definitorio (ma anche
costrittorio, incasellante) delle parole. Tuttavia è proprio da questo
processo, dice il cadavere, che "iniziavano i nomi". I nomi hanno una
vita successiva al processo, che va avanti inesorabile anche senza di
essi. Se il mondo fosse vuoto di nomi, la morte continuerebbe in
silenzio la sua opera distruttrice.
Ecco, questo è un altro punto. E cioè se davvero, anche dal punto di
vista dell'allegoria che Marano accredita al libro, quella descritta da
Ponzio sia davvero una "distruzione". Può apparire singolare che sia
proprio la figura femminile, quella che tradizionalmente e culturalmente
è generante e vivificante, ad essere morta. Escludendo una ipotesi di
misoginia, direi che forse è segno di una morte non vera, nel senso di
una ricostituzione degli elementi altrove, di una rigenerazione. I
testi, che sono salvo qualche eccezione tutti brevi, sono in effetti -
nella dinamica dialogica - uno scambio di prospettive, di
"informazioni", una dissoluzione / ricostituzione, un rilasciare /
raccogliere indizi. Cosa che è, in effetti, a ben pensarci, la capacità
modulante della sintassi. Al fondo c'è anche un'idea di risanamento della
parola, che la società attuale ha danneggiato e impoverito al pari
della natura, dell'ambiente, dei rapporti umani. E' - nelle intenzioni
di Ponzio - una "anamorfosi", come titola la prima delle cinque sezioni
del libro: un formare di nuovo, un riformare e insieme, tornando al
linguaggio scientifico, una rigenerazione spontanea di certi organismi.
Ma è anche, e Ponzio non può ignorarlo, una deformazione prospettica (v.
"Gli ambasciatori" di H. Holbein il Giovane QUI)
che restituisce all'osservatore (il voyeur, come Marano chiama il
"vivo" del libro, ma anche il lettore) la responsabilità di ricomporre
il senso. Un gioco ambizioso che non è detto che riesca a dare i frutti
sperati. E infatti Marano avverte opportunamente che proprietà
dell'allegoria "è l'impossibilità di stabilirne a priori l'esito
finale".
Le altre sezioni ampliano e svolgono questa analisi allegorica del
disfacimento e il suo tentativo di "riuso", secondo il principio -
potremmo dire - trasformazionale caro al Lavoisier del "nulla
si crea, nulla si distrugge". Il percorso è articolato e insieme
ricorsivo. Di "Anamorfosi" abbiamo detto; segue poi "Imago picta", una
sezione in cui appaiono per la prima volta nel libro testi - sempre
nell'ambito del dialogo tra i due soggetti - nei quali è il colore
protagonista di una ricerca di elementi basilari ("ontologici", dice
Marano) che legano le cose tra loro, ne avvicinano il senso, fanno da
comun denominatore, e sono insieme indici e simboli di vitalità e
decadimento (e mi viene da sorridere ricordando l'ammonimento di Leone
XIV: mortuorum picta imago non imprimatur et ridens non mortui sed hyeanae facies est,
che non si stampi immagine di morti a colori, l'espressione sorridente è
propria della iena non del morto). I colori naturalmente sono primari e
"saturano" alcuni dei testi più lunghi (sei quartine ciascuno), che
Marano definisce "cataloghi mantrici": il rosso, nelle parole della
morta: "...rosso arboreo, rosso cuore, rosso chimico. / rosso bacca,
rosso acceso, rosso agata. / rosso nube, rosso legno, rosso cimice.
[...]"; il giallo nelle parole dell'osservatore: "giallo siero,
giallo ocra, giallo pallido. / giallo ottone, giallo acceso, giallo
acido. / giallo cromo, giallo antere, giallo iride [...]", e a seguire,
nelle parole del cadavere, il verde. Mentre il blu si affaccia (dopo
essersi palesato con Ponzio altrove, come vedremo) solo nella sezione
"Dell'acqua", come si conviene, ancora con la "voce" della morta.
L'acqua ha una infinità di richiami simbolici, dal battesimo salvifico
all'amnio, ma qui direi che va nel senso doppio di liquido in cui
l'allegorico cadavere si dissolve e di "scrittura che fluisce" e
riordina le "caotiche correnti che ti corrompono". E' nella sezione
"L'urna e la luna" (il cui titolo, insieme all'acqua, non a caso mi
rammenta l'Ophelia di John Everett Millais (1852), capolavoro
della pittura preraffaellita) che lo spettro dei colori decade nel
grigio, nel nero e nel bianco, catalogati rispettivamente dal cadavere,
dall'osservatore e ancora dalla morta, e riferiti con ogni evidenza alla
notte. I colori però non sono l'unico oggetto di questi "cataloghi
mantrici": ancora in "Dell'acqua" Ponzio costruisce un elenco in venti
quartine delle duecentocinquantadue differenti specie (secondo il
conteggio di Marano) di Naviculae che "produttrici insieme ad
altre diatomee di quasi un quarto dell'ossigeno che respiriamo,
costituiscono l'origine, sempre diversa e sempre uguale a sé stessa, in
rapporto alla quale la morte e la dissoluzione della materia risultano
illusorie, inessenziali" (ancora Marano). E infine, nel penultimo testo
del libro, privo di metrica, Ponzio cataloga sostanze, minerali,
composti, liquidi, essere viventi, fenomeni della natura, elementi
(circa centottanta) tutti accomunati, come rileva Marano, dalla
proprietà della trasparenza. Come se tutta l'odissea del cadavere e
della sua distruzione abbia condotto finalmente, sempre secondo Marano, a
rivedere la luce, "dall'amnio alla cromosfera". Il testo appartiene
all'ultima sezione, titolata "Agnizioni", che, come noto, rimanda
direttamente a un topos letterario, al "riconoscimento" (forse dell'
"identità" dell'allegorico cadavere), alla "svolta" nel percorso
narrativo.
Vediamo di tirare qualche somma, dopo questo lungo resoconto. Mi pare
evidente che l'impianto dell'opera è concettuale, se non ideologico,
termine sovrapponibile che usa anche Marano. E' poesia di ricerca,
certo, e Ponzio appartiene indiscutibilmente a quest'area, tanto
eterogenea quanto criticamente indefinita, e in particolare a quella
linea il cui oggetto principale se non unico è il linguaggio
"spogliato", depotenziato di parecchie delle funzioni che ad esso si
assegnano tradizionalmente (da Jakobson in poi) e messo spesso in una
condizione metalinguistica, di mezzo che indaga sul mezzo. Un
linguaggio il cui senso va ricercato "altrove", il cui carattere
evocativo è tutto "interno", nel suono che produce (spesso, come nei
cataloghi, mono-tonale come certe musiche primitive) o nella
"ossessione" che trasmette, un linguaggio che diventa emblema e icona
della criticità e della difficoltà di comprendere il mondo. Diventa
allegoria di sé stesso. E' ovvio che il libro, che offre anzi molti
spunti di interesse e di riflessione, non è riducibile a questo, ma la
lettura è anche un gioco di consonanze, e leggendo quest'opera mi sono
tornate alla mente un paio di cose. La prima riguarda un altro libro,
che ho molto apprezzato, ovvero "Serie del ritorno" di Stefano Massari
(v. QUI):
anche lì una struttura dialogica, una contemplazione e un dialogo con
la morte, anche lì segnati graficamente dall' alternanza tra corsivo e
tondo, ma con una ben diversa cognizione del dolore come componente
ineludibile dell'umano, e non solo perché c'è un "io" presente, di uno
che - come scrivevo - si è seduto sulla soglia, quella estrema. Per
sintetizzare, una diversa temperatura. Non si tratta di stabilire
confronti, del tutto inutili. Ma il ricordo mi è servito per capire
altro, ad esempio un certo senso di freddezza che il libro di
Ponzio mi ha restituito, solo a tratti mitigato nei testi in cui l'osservatore sembra interiorizzare il pensiero, rimeditare la parole della morta. Che viceversa è in pratica quella che, paradossalmente, tinge le
sue parole di qualche emotività, di qualche accento lirico, se non
elegiaco, come un rimpianto. Forse sbaglio, forse è un'impressione più da lettore che da
critico (cosa che tra l'altro non sono) ma a me pare che dall'altra
parte, dalla parte del voyeur/autore (e quindi una cosa voluta) ci sia
un osservatore fin troppo distaccato rispetto al "dramma", qualsiasi
esso metaforicamente sia. In realtà non c'è "parentela" (capiamoci, non
parlo di anagrafe) tra queste due voci, come se il vivo "ipotizzasse"
sulle cose del cadavere, come un anatomopatologo, termine che anche
Marano utilizza (e infatti quasi subito si legge, parole
dell'osservatore: "s'ingenera l'effetto di una lente / se si esamina il
perimetro: lieviti, lave / larve intorpidite dalla brina". Il perimetro,
come sa ogni amante di gialli, è la griglia che incasella la scena del
crimine). L'effetto che a me personalmente ritorna è una certa sensazione di latitanza di empatia, o meglio (l'etimo aiuta
sempre) simpateticità verso un oggetto che - a questo punto - è
post-umano, ma con poco Nietzsche. E forse è necessario che sia così,
perchè l'oggetto non è nemmeno tale, il cadavere è una pura finzione
scenica, esattamente come l'allegoria su cui ruota tutto l'intervento di
Marano. Sarà il cadavere della società, o dell'arte, o della lingua, ma
il punto è chi è l'alter di questo, con quale "dolore" compartecipa
alla tragedia. Ammetto che forse non è lecito aspettarsi queste cose da
un'opera che ho definito concettuale, in cui cioè il rapporto tra
l'autore e la sua materia è - per così dire - naturalmente
"anaffettivo", marcato dalla distanza.
E preciso anche che queste considerazioni non investono la particolare
estetica di questa opera che certamente ha il suo fascino e la sua
importanza.
L'altra cosa che mi è tornata in mente e che credo interessante, invece
riguarda l'airone de "Il giardiniere contro il becchino" di Antonio
Porta, che risale a un trentennio fa: "A questo punto, Airone / mi
frughi nel ventre / e trovi umida sabbia e / piccole uova di rettile, /
il tempo, il poema finisce / in punta di lingua (...)". Dice Niva
Lorenzini: "retto per intero sulla struttura contrappuntistica di un io /
tu che si rivela voce sdoppiata del poeta-airone protagonista delle
segmentate sequenze, mette direttamente in scena la scansione del
nascere e del morire, associandola alle aree cromatiche della
trasparenza e dell'opacità". Ecco che si torna a una serie di elementi
(sdoppiamento, colori, trasparenze, vita/morte ecc.) del libro di cui
stiamo parlando. Non so se questo è un ascendente, ma è probabile.
Curiosamente, è possibile ritrovare gli aironi, accostati a termini
tecnici cari a Ponzio, in un interessante lavoro del 2007, "Esercizi del
rischio" (v. QUI): "Isomeri – arenaria / sottile impastata con l’acqua / specchiante due flebili aironi". Questi
elementi tuttavia risultano, anche nel corpo della raccolta, per lo più
"assiepati" nei cataloghi. Che certo, d'accordo con Marano, assumono un
ruolo importante, ma possono anche apparire in qualche modo - per così
dire - "innestati".
I cataloghi, che dal punto di vista del discorso che facevamo sulla
scrittura di ricerca sono esemplari, lo sono però anche in termini di
ascendenti letterari. I quali certo esistono, e forse sono quelli nobili
che cita Marano, da Omero a Dante alla Rosselli fino ai Veda, ma tra i
quali bisogna ricercare lo stesso Ponzio. E' davvero probabile che il testo che elenca le duecentocinquantadue Naviculae sia ispirato al Catalogo delle navi
del secondo libro dell'Iliade, come osserva acutamente Marano. Ma i
"cataloghi mantrici" dei colori e degli elementi provengono direttamente
da una certa ossessione poetica che Ponzio ha espresso più volte
nell'ambito della poesia di ricerca (continuo ad usare forse
impropriamente questo termine). Anche solo limitandosi a quanto è
possibile reperire in rete, si può trovare il blu in un testo del 2013
(v. QUI), il bianco in uno del 2011 QUI,
(dove forse l'ispirazione è extraletteraria: Yves Klein, Piero Manzoni, tanto per
citare due nomi che certo Nicola conosce bene), un altro interessante
testo catalogatorio, questa volta dedicato al tempo, del 2012 (v. QUI). Tutti testi o modelli di testi che hanno trovato una ricollocazione, una rimodulazione, un "innesto" come ho detto prima, nell'opera.
Insomma un libro complesso, con non pochi spigoli, un libro che non
consente molte vie intermedie, anche per quanto riguarda il suo
apprezzamento. Uno di quei libri che se fosse al centro di un dibattito
(e non è detto che non lo sarà) sarebbe definito controverso. (g.c.)
Continua a leggere "Nicola Ponzio - Il mio nome nel tuo nome" Mercoledì, 18 febbraio 2015Gabriele Gabbia - Tre poesie Tre testi di Gabriele Gabbia, ci cui avevo parlato a proposito del suo primo libro, "La terra franata dei nomi" (v. QUI).
Il primo è del tutto inedito, il secondo si è piazzato al concorso Poeti e
Scrittori in Lombardia – 50&Più per la Cultura, nel mese di gennaio
2014, mentre il terzo, qui lievemente rivisto, s’è aggiudicata la XXVII edizione del Premio Nazionale di
Poesia Lorenzo Montano.
Scrivevo allora: "La prima impressione che intanto ne derivo è come di
uno scaldarsi i muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con
qualche spinta a tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la
parola - sempre - non è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile). E continuavo: "In
questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che ritengono
che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca - anche a
costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una originalità prima
di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima sezione traspare
l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello che si percepisce,
un concetto più nihlista di quello di Bernard de Cluny (stat rosa pristina nomine...):
il legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il
poeta fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare
segnata - nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse
da una terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno
più nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non
esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice
d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica
dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si
palesa) c'è quindi il nulla". Questo nulla, esistenziale
o filosofico che fosse ma citatissimo nei testi, risultava poi, specie
nell'inoltrarsi del libro "quando il linguaggio si è fatto meno
pitico", essere popolato da "frammenti, lacerti, lembi, brani",
segno che l'esplorazione del nulla, infine, rinveniva qualcosa di
poeticamente consistente a cui la parola riusciva a riagganciarsi,
riscoprendo nei nomi una funzione salvifica, almeno nei confronti di ciò
che è stato vissuto. (per il resto rimando a quel post).
In questi tre testi, forse non sufficienti per capire una svolta, ci
sono dei sicuri motivi di interesse e forse una maturazione, pur
nell'ambito di quella visione di un nulla che avvolge il tutto. Ancora
presenti molte isotopie che quel nulla richiamano: le non poche
negazioni, parole come "vuoto", "nessuna", "arresto", "nulla",
"incompiuto", sintagmi come "tutto non è più". Ma il riavvicinamento
alla realtà, intrapreso nella seconda parte de "La terra franata", è
deciso, seppure essa sia una realtà dolorosa, forse pessimistica o
disperata, in cui i vivi e i morti, uniti come vedremo da un comun
denominatore, prendono corpo proprio dal linguaggio, e l' esperienza
soggettiva dell'uomo emerge. Ne L'arresto le
parole rimbalzano, anche grazie agli enjambements, come dentro una fuga
prospettica o un imbuto che precipita e strozza il suo contenuto. Si
descrive un distacco come un'oscillazione di un pendolo o di un orologio
che solo nel suo moto, fino a quando non giunge al termine della sua
energia di spinta, ha il suo essere. In quel momento zero non ci sono
più parole da dire (fatto evidenziato con la marcatura "nessuna"), non
resta che prenderne atto, convergere sull'evidenza di questo vuoto.
Affiora nella chiusa, mutuata da De Angelis, una nota emozionale che
umanizza l'asciuttezza del testo, sottolineata anche qui dall' accento
(il corsivo) posto su "tu" che vibra come un singulto: in questo
rapporto spezzato, solo tu sei libera, io rimango con i mei rimpianti, rimango forse prigioniero di un sentimento, di una sopraggiunta solitudine.
In Essi, un bel titolo inquietante, quasi
jamesiano, che marca una significativa diffidente distanza, si parla
invece dei morti. In questo testo, a me pare, non c'è niente di
apotropaico, si parla dell'infinito popolo dei morti, perduto in una
eternità "aggressiva" (dice l'autore) che non vale esorcizzare ma che
deve essere meditata come percezione, per contrappunti e
contrasti di luce, di un nulla per così dire più ontologico. Se la luce,
forse del pensiero, gettata sui morti fa risaltare solo un nulla che, incandescente,
ricade come un terribile fall-out nucleare su cose e case spopolate
"ove tutto non è più", invece su quell'eternità chi vive (o chi vive
nella memoria) per contrasto risalta. Ma la luce (certo intesa come
simbolo) questo contrasto totalizzante in cui l'autore appare come
l'unico essere, ha una doppia via. Di ritorno illumina e sostanzia di
"figure" (ricordi, volti, affetti forse) "in cui [invece] il tutto è
stato". Il confine tra vivi e morti (e arriviamo al finale) sta qui dove
Gabbia usa una parola importante: "La lacerazione del / percepito – sì
–: /l’incompiuto". Un finale solido, inoppugnabile. Se, come afferma Merleau-Ponty, la percezione è la realtà attiva e morale della
coscienza di sé dell'altro e del tempo, la morte è questo strappo
definitivo che nega ogni parola, che lascia incompiuto il non detto e il
dicibile, il non fatto e il fattibile, il non amato.
In Mancata figura il discorso sulla morte
viene focalizzato. Il testo, diviso in tre stanze, ruota, mi par di
capire, intorno alla figura della (o di una) madre. Nella prima parte
c'è la rivelazione del lutto, la percezione di un vuoto, di una
nullificazione però questa volta è diversa, perchè tardiva e perciò
bruciante come un rimorso. E' questo bruciare che rimbalza indietro,
fenomeno psicologicamente noto, una sorta di astio. E' la strofa della
cognizione del dolore. L'elaborazione, o l'esorcismo, inizia nella
seconda, aperta con tre versi singolari che rimandano alla arcinota (e
spesso fraintesa) proposizione n. 7 del Tractatus di Wittgenstein, e la
riscrivono in chiave di cordoglio. Riprendendo la chiusa di cui abbiamo
parlato poco sopra, subentra, io credo, una rassegnazione al fatto che
tutte le parole sono state spese, che ogni comunicazione è interrotta
per sempre. Rimane, ed è importante, una serie - anche qui - di
percezioni contrassegnate da parole che appartengono al campo astratto
(afflato, tormento, soprassalto) e che connotano ciò che ancora si può,
girovagando attorno alla perdita. E producendo, passaggio dopo
passaggio, come una stampa a contatto dei ricordi, un "calco" (che è
anche, ricordiamo, maschera funeraria), un'adesione che sia di potenza
evocativa (una speranza credo) interminabile. L'ultima strofa, infine,
descrive un equilibrio, forse precario, postumo e conseguenza
dell'elaborazione, il perturbante insito in questo ripensamento del
lutto, nel tentativo di ancoraggio all'esistente di una materia che
invece sappiamo labile. In altre parole, se i ricordi legati alla morte
sbiadiscono rimane solo la morte: l'abisso da cui il poeta è attratto e
su cui pencola pericolosamente (attratto, rattratto, eccede, aggetta),
forse infine trovando un centro d'equilibrio, librandosi (o forse liberandosi)
in contemplazione "alla luce dell'ombra". E a questo proposito mi piace
ricordare Antonio Porta: "Lo so da sempre che devi scomparire / ma nel
tuo buco d'ombra io non ti seguo" (Poemetto con la madre, 3, in Yellow). Del resto dice ancora Porta (ivi, 2): "Ora mi chiedo se è l'ombra che ti cancella".
Insomma, come mi pare di aver chiarito, in questi testi le parole
perdono la loro "vertigine" astratta per assumere il ruolo di pilastri, e
il vuoto - ecco il comun denominatore a cui accennavo - il vuoto assume
finalmente la realtà dell'assenza, ha in altre parole un senso esistenziale, la mancanza di chi se ne è andato, di chi è scomparso, di coloro con cui non è più possibile compiere l' incompiuto. (g.c.)
Continua a leggere "Gabriele Gabbia - Tre poesie" Mercoledì, 4 agosto 2010Amelia Rosselli - poesie e traduzioni da SleepTorno spesso, nelle mie riletture, su Amelia Rosselli. Una autrice che trovo fondamentale nel Novecento italiano per la carica innovativa, l'uso della lingua (o delle lingue), il contributo, in gran parte inconsapevole, che ha dato per una visione un pò meno provinciale della poesia nostrana. Ripropongo qui alcune poesie da "Sleep", la raccolta in inglese che Rosselli scrisse tra il 1953 e il 1966 e che trovò una prima pubblicazione nel 1989 a cura e con traduzioni di Antonio Porta presso Rossi e Spera e una successiva nel 1992 presso Garzanti a cura di Emmanuela Tandello. I testi attingono a queste due edizioni e offrono l'opportunità di confrontare anche due diverse modalità traduttive, quella più poetica e inventiva di Porta e quella più "letterale" della Tandello, oltre ad alcune di "prima mano" della stessa autrice. Interessanti a questo proposito le osservazioni che la Rosselli fece in una intervista del 1990, nella quale tra l'altro accennava a idee contenute nel suo noto saggio "Spazi metrici": Confrontando le versioni da Sleep di Emmanuela Tandello, tue e di Antonio Porta, gli esiti a tratti divergono. Come consideri i diversi criteri interpretativi? Non ci sono mille modi di tradurre ma di atteggiarsi verso l'originale. Se sono intervenuta sul lavoro di Porta è stato solo su particolari e non per alterarne il risultato complessivo. Non ho mai forzato la sua impostazione fino al punto di pretendere il rispetto per gli enjambements. Mi piaceva l'energia delle sue invenzioni, però faticavo nella lettura perdendomi ritmicamente. Avrei voluto parlargliene: sarebbe stato interessante ascoltare la sua opinione. Purtroppo non riuscimmo ad incontrarci. Emmanuela Tandello ha invece un'idea piuttosto letterale della traduzione. Per il grosso pubblico è bene semplificare fin quanto è possibile, senza raggiungere naturalmente una pura e prosastica letteralità. Rispettando gli enjambements si semplifica, e nonostante l'italiano sia due volte più lento dell'inglese si rispetta il ritmo. Dal 1958 uso questo sistema: l'ho suggerito alla Tandello e mi è parso che le sue versioni guadagnassero in velocità. Che problemi hai incontrato nel tradurre i tuoi testi? Da principio la traduzione era letterale e poi si è andata affinando. L'inglese è una lingua più fluida dove è essenziale l'enjambement, che in italiano si può eseguire o meno. Ma per me è una lingua acquisita. Non mi considero un'eccellente traduttrice dall'inglese. Ho provato dallo spagnolo e mi è risultato facilissimo. Non uso dizionari di sinonimi. Magari sono troppo pignola e attenta al significato letterale. E un andare controcorrente perché oggi piace il rifacimento. Mi incuriosiscono sia l'equivalenza dei termini che la corrispondenza complessiva. Sento di più il ritmo e la fonetica che la ricchezza del vocabolo, più che altro inconscia e direi sofferta. Occorre rinunciare all'attenzione alla metrica per non porsi un problema ulteriore. Non mi interessa riprodurre un'impostazione metrica. Seguendo l'enjambement si riproduce invece il tono generale, la ritmica generale. Di sicuro non voglio distorcere il senso. Anche in certe poesie che possono sembrare caotiche, perché scritte in piena libertà, per gioco e divertimento e senza la preoccupazione di pubblicare, non meno essenziale è l'aderenza al significato. Continua a leggere "Amelia Rosselli - poesie e traduzioni da Sleep" Venerdì, 23 luglio 2010Antonio Porta - da Poemetto con la madre1. Quanto si è consumata mia madre come l'ombra cancella ogni giorno e più l'ombra la invade e vela più mi sembra che pensi la giovinezza l'estate di una carnale bruna bellezza quando nel sogno il figlio le ha baciato il ventre aprendo l'assetata adolescenza infinita. 3. Lo so da sempre che devi scomparire ma nel tuo buco d'ombra io non ti seguo opposto penetro in un ventre che non è il tuo eppure ti ricorda e celebra e nutre il ventre mio sogno d'iniziazione del mattino, nel grande letto della prima comunione. Continua a leggere "Antonio Porta - da Poemetto con la madre" Venerdì, 5 settembre 2008Enzo Bertinazzo, chi era costui?
Mi ero già posto la stessa domanda riguardo a un certo Giuseppe Scapucci (v. qui), anche in quel caso spinto dalla curiosità dei lettori di gialli: vedere come è andata a finire. Ma tutto quello che so di Enzo Bertinazzo, al momento almeno, è che è nato nel 1925 a Modena e che ha pubblicato un paio di libri in dialetto veneto, tra cui una versione, con introduzione di Davide Lajolo, di venticinque favole di Fedro dal titolo El lupo, el leon, la volpe, el cocodrilo (Milano, 1977). Un pò poco, a parte quello che di lui ha scritto Antonio Porta: "S'incontrano nei bizzarri percorsi che il fare poetico compie nelle regioni più impervie della lingua, procedendo nel proprio lavoro di "scarto", di "deviazione", rispetto all'uso della quotidianità, certe voci e certe persone che in un territorio di per sé ricco di sorprese costituiscono, a loro volta, una sorpresa meno prevedibile o prevista delle altre: sono gli irregolari, i senza patria, i fuori linea che mai per questa ragione, di praticare quelli che possono essere definiti i "sentieri interrotti" della poesia, devono essere considerati meno importanti degli altri. (...) Direi che queste caratteristiche corrispondono tutte bene a Enzo Bertinazzo...", oltre a quelle, aggiunge Porta, comuni in poeti come lui, cioè la capacità di metter in crisi, di "straniare" l'ufficialità, di "non avere età", cioè "di maturare le loro capacità espressive al di fuori di qualunque giuoco di successione generazionale", di affermarsi come autori di un'opera "spesso paradigmatica e sempre impersonale", cioè di un "piccolo classico". Basta leggere questo autore, colto, ironico, padrone della versificazione, a tratti feroce, per concordare con Porta.
da Il Ragno, tema e variazioni
I
Il ragno, bene o male, Continua a leggere "Enzo Bertinazzo, chi era costui?" Mercoledì, 23 aprile 2008Antonio Porta - da Yellow
Con questa lingua aerea
Antonio Porta - Yellow - Lo Specchio Mondadori - 2002
(Pagina 1 di 1, in totale 6 notizie)
|
AmministrazioneRicerca veloceARCHIVIO GENERALERecent Entries
Tagsadelphi editore, adriano spatola, alain jouffroy, alessandra sciacca banti, alessandro assiri, alessandro de caro, alfonso berardinelli, alfredo riponi, amelia rosselli, andrea inglese, angèle paoli, antologia, antonio porta, arcipelago itaca, areale italiano, arte contemporanea, avanguardia, bernard noel, bologna, camera di condizionamento operante, carla paolini, caterina davinio, chiara de luca, copyleft, corrado costa, critica, czeslaw milosz, daniele poletti, daniele santoro, danilo mandolini, davide castiglione, davide nota, derek walcott, diaforia, diego conticello, dino campana, domenico ingenito, dominique sorrente, dotcom press, ebook, editrice pequod, edizioni arca felice, edizioni arcolaio, edizioni cfr, edizioni joker, edizioni kolibris, edizioni lietocolle, edizioni oèdipus, edizioni progetto cultura, elia malagò, elisa castagnoli, emilio capaccio, emilio coco, emilio villa, Enrico Cerquiglini, enrico de lea, enzo campi, eugenio montale, eventi, fabio orecchini, federico federici, filosofia, fotografia, francesco balsamo, Francesco De Girolamo, francesco iannone, francesco marotta, francesco muzzioli, franco fortini, gabriel del sarto, gabriella musetti, gemellaggio, georges bataille, ghérasim luca, giacomo cerrai, giampaolo de pietro, gianfranco fabbri, gianni toti, giovanna tomassucci, giovanni giudici, giovanni raboni, giuliano ladolfi editore, giuseppe samperi, giuseppe scapucci, haiku, hanno detto..., HOMEWORKS, ibrid@menti, ibrid@poesia, il foglio clandestino, incerti editori, inediti, italo calvino, ivano mugnaini, jane kenyon, john taylor, l'impero dei segni, lampi di stampa, la vita felice, le voci della luna, lorenzo mari, lorenzo pompeo, lucianna argentino, luigi cannillo, luigi di ruscio, maalox, maeba sciutti, mambo bologna, marco saya editore, maria pia quintavalla, marina pizzi, mario fresa, marsiglia, martha canfield, massimo pastore, matteo fantuzzi, matteo veronesi, maura del serra, maurizio cucchi, michel deguy, mostra, nanni balestrini, narda fattori, natalia castaldi, nathalie riera, news, note acide, noterelle, oboe sommerso, olivier bastide, palazzo albergati, paolo fabrizio iacuzzi, parole in coincidenza, paul celan, pensiero, piero bigongiari, pier paolo pasolini, pisa, pisa university press, pistoia, poesia, poesia americana, poesia di ricerca, poesia francese, poesia inglese, poesia ispanoamericana, poesia italiana, poesia lirica, poesia multimediale, poesia polacca, poesia spagnola, poesia sperimentale, poesia surrealista, poesia tedesca, poesia visiva, poetica, poeti dell'est, poetry slam, politica fragmenta, premio il ceppo, prufrock edizioni, puntoacapo editrice, questionario, raffaelli editore, raymond farina, recensioni, riflessioni sull'arte, riletture, rita florit, rita pacilio, riviste, roberto ceccarini, roberto veracini, roland barthes, rplibri, saggio, salvatore della capa, sandra palombo, scriptorium, sebastiano aglieco, semiologia, stefano guglielmin, stefano lorefice, surrealismo, t.s.eliot, teresa ferri, tradizione, traduzioni, transeuropa edizioni, ugo magnanti, umberto saba, valeria rossella, valerio magrelli, valérie brantome, video, viola amarelli, viviana scarinci, wallace stevens, wislawa szymborska, zona editrice
|