Un mio "pezzo" bilingue sul numero 13 della rivista letteraria francese on line "Secousse" coordinata da Gérard Cartier, che ringrazio per l'ospitalità. Un numero dedicato alla mosca, insetto estivo per eccellenza che forse vi è capitato di vedere attraversare i vostri fogli mentre inseguivate un'idea. Lo trovate QUI, nella sezione Carte blanche - Anthomologie -> Neuves mouches. Il testo nasce in origine da una poesia grafica, una delle cose con cui a volte mi diverto, che potete trovare seguendo il link sulla rivista oppure cliccando direttamente QUI. La rivista Secousse, che ospita opere originali, saggi e recensioni, è comunque interessante, vale la pena di darci un'occhiata. E' interamente scaricabile in pdf.
Pubblico qui "iato/reticolo" e "Altre conversazioni", due sezioni che non hanno trovato posto, per varie ragioni, nella mia raccolta “Diario estivo e altre sequenze”, Editrice L’Arcolaio 2012 (v. QUI). Non pensavo di pubblicarle in altre edizioni a stampa. Appartengono a una produzione in qualche modo trascorsa, ma sono comunque parenti strette di quelle apparse in "Diario". Qualsiasi commento è apprezzato. (g.c.)
Su Nazione Indiana, oggi, Andrea Raos ha
pubblicato la sezione "Alogenuri d'argento" tratta dal mio libro "Diario
estivo e altre sequenze". Lo ringrazio di cuore e ringrazio Nazione Indiana per l'ospitalità. Il post è raggiungibile cliccando sull'immagine.
Dopo i testi apparsi su Les Carnets d'Eucharis, tradotti in francese dal poeta Raymond Farina (v. QUI), quattro altre mie poesie, sempre nella versione francese di Farina, sono apparse sul n.58 (autunno - inverno 2012, dedicato all'artista Gérard Titus-Carmel) della rivista di letteratura "Diérèse", fondata e diretta da Daniel Martinez. Ringrazio ancora una volta Raymond Farina per la sua empatica attenzione, il suo impegno nonché la sua estrema gentilezza. I testi risalgono a vari periodi, tra il 1992 e il 2007, e sono, direi, abbastanza diversi da quanto ho scritto ultimamente, ad esempio nell'ultimo libro che ho pubblicato, "Diario estivo e altre sequenze".
Fine turno
L'amaro in bocca non è neanche fiele ma la polvere delle carte l'ondeggio della polvere in un sole che però è fuori e questo amaro non è neanche un facile cucchiaio d'argento non è medicina ma è tempo che cola come filo spinato l'intollerante tempo ragazzo di quando c'è il sole fuori e il desiderio è oltre i vetri doppi - altrove - . . . E' la realtà quella? Fuori la realtà forse fuori l'immaginazione si incontrano in un prato vero finché desiderato a lungo, forse in una ragazza d'autunno aeroplani di noia lanciati aspettando il fine turno mentre la polvere delle carte si posa il bianco di esse ingiallisce come il sole di fuori stanco così reale perché aspettato così a lungo...
Fin de roulement
L'amertume dans la bouche n'est même pas le fiel mais la poussière des papiers le flottement delà poussière dans un soleil qui est cependant dehors et cette amertume n'est même pas une banale cuiller d'argent n'est pas remède mais temps qui passe comme fil barbelé l'intolérant temps adolescent de quand il y a le soleil dehors et le désir au-delà des doubles vitres - ailleurs -... Est-ce là la réalité? Dehors la réalité peut-être dehors l'imagination se rencontrent dans un pré vrai tant qu'on le désire longtemps, peut-être dans une jeune fille d'automne des petits avions d'ennui lancés en attendant la fin du roulement alors que la poussière des papiers se dépose leur blanc jaunit comme le soleil de dehors las si réel parce qu'attendu si longtemps...
Conoscete il detto "chi è avvocato di sè stesso ha uno sciocco per
cliente"? Sono convinto che valga anche nel campo della critica. O
meglio, dell'auto-critica. Credo perciò che dovrei evitare di parlare
del mio libro che, dopo qualche lettura in anteprima da parte di amici,
qualche tragitto imperfettamente ellittico e con tutto il tempo che c'è
voluto, è finalmente uscito nelle edizioni de L'Arcolaio di Gianfranco Fabbri, nella collana "grigia" Il Laboratorio, diretta da Stefano Guglielmin. Mi limiterò quindi a qualche "nota tecnica".
Che dire? Intanto che non c'è nessuna pre o postfazione, non perchè sia
convinto che a volte lasciano il tempo che trovano (non sempre per
fortuna) o perchè disperassi di trovare qualche acuto ermeneuta (ce ne
sono parecchi). Niente di tutto ciò, semplicemente è andata così. Credo
che chiunque vorrà leggerlo dovrà trovare la strada da sé, senza alcun
viatico.
E poi il titolo. Il fatto che questo libro si chiami "Diario estivo e
altre sequenze" è fuorviante quanto basta. Qui c'è molto poco di quello
che potrebbe suggerire l'idea di estate: sole, ombrelloni e bibite
fresche. Direi semmai che l'estate vale qui per l'ombra netta che riesce
a gettare sulle cose, sugli edifici, sulle persone, creando linee di
fuga diverse, diverse prospettive. "Diario" è una sequenza di
testi, come pure le altre sezioni, nel senso di una serie di brani tra
cui intervengono correlazioni significative o semplicemente l'idea di
fondo che li sostiene. Non sono certo il primo ad usare questo termine
(es. Sannelli), che va inteso, direi, come una espansione del termine
stesso così come è usato in analisi del testo poetico classico.
Sospetto che in me, come in altri autori, ci sia un anelito al poemetto,
o almeno la voglia di contrastare quel che sempre c'è di rapsodico
nella poesia nostrana. Anche "Sinossi dei licheni" e "Camera di
condizionamento operante" (li trovate eventualmente QUI)
andavano in tal senso. Direi che forse è rimasto, appunto, un anelito,
ma del resto di Pagliarani, Majorino o Di Ruscio, ricordati qualche
giorno fa da Biagio Cepollaro, ce n'è pochi in giro.
Suggerimenti di lettura non ne ho. Solo a proposito di "Traiettorie",
una delle sequenze, vorrei sottolineare come la loro forma squadrata e
monolitica, in origine con lo stesso numero di righe che non è stato
possibile riprodurre perfettamente in stampa, ha una sua ragion
d'essere che non è detto coincida con l'idea di poesia in prosa, prosa
poetica, prosa in prosa e via dicendo. Niente versi in senso canonico,
solo blocchi di testo che si debbono attraversare trovando ciascuno il
proprio passo. Per essi l'unico suggerimento è quello dell'esergo:
(inspira ad ogni verso,
mangia il
tuo fiato, misura
l’aria al bisogno.
Se necessario agonizza,
o
trova il ritmo).
Cosa che credo valga per tutta la poesia, qualsiasi forma abbia. Buona lettura.
Sono uscite, tradotte in francese, quattro mie poesie su Les Carnet d'Eucharis (v. QUI). Ringrazio sentitamente Nathalie Riera, che gestisce questa bella rivista di letteratura on line, e il poeta Raymond Farina, che ha tradotto questi testi (e altri qui non pubblicati) con molta sensibilità. Farina è autore di oltre venti raccolte di poesia, nonchè di numerose pubblicazioni in rivista e su siti on line, anche italiani. E' inoltre traduttore dall'inglese (Cummings, Stevens, Gluck, Levertov, Mc Hugh, Roetke e altri), dallo spagnolo, dal portoghese, nonchè dall'italiano (Anedda, De Palchi, Carifi, D'Elia, Ermini, Lamarque, Magrelli, Raboni, Marotta e molti altri).
Su GAMMM un mio "testo", A tribute to John Cage, ispirato al celebre brano 4'33''
del compositore americano. Può essere "letto" (o suonato, se preferite)
a piacere, cliccando sul logo. Ringrazio Marco Giovenale, Michele
Zaffarano e C. per l'ospitalità.
“Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33
come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”.
Chiunque di noi, compresi tutti coloro che non hanno mai preso uno
strumento in mano, lo può eseguire magistralmente. Perché? La domanda è
più che legittima. Basta indossare un abito da concerto (giusto per
entrare meglio nella parte dell'esecutore) e accomodarsi al pianoforte
per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché.
L'esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve
fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica” che viene creata dai
rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse,
scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall'esterno. Cage
ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una
stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì uno
sente almeno il proprio battito cardiaco). Il silenzio sarebbe da
intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4.33
si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il
pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.
“Sentivo
e speravo – diceva Cage – di poter condurre altre persone alla
consapevolezza che i suoni dell'ambiente in cui vivono rappresentano una
musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e
ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora.
Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto
musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo,
radicalmente l'atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad
ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O,
altrimenti detto: è l'intenzione di ascolto che può conferire a
qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un'altra
definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare
qualcosa che non sia musica è musica”. Un virtuoso “rumoroso” come
Yehudi Menuhin, quando era presidente dell'International Music Council
dell'Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica
fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio.
Una
rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha
messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione nel porre la
musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò
venisse motivato da alcun genere di idealismo. La poetica di Cage si può
inserire in quel filone dell'arte figurativa dell'astrattismo gestuale
diPollock, Kline, De Kooning. E se 4.33
non contiene alcun suono, Robert Rauschemberg ha realizzato dei
dipinti, semplicissime tele bianche, che non contengono alcuna immagine
(“questi dipinti diventano aeroporti per le particelle di polvere e le
ombre che sono presenti nell'ambiente), mentre il compositore coreano
Nam June Paik ha girato un film della durata di un'ora, che non contiene
immagini, e Dieter Schnebel ha concepito la Muzik zum Lesen
(musica da leggere), partiture che non sono destinate all'ascolto o
all'esecuzione, ma alla lettura. Tutto ciò, da diversi punti di vista
dunque, ci riporta alla concezione del silenzio di Cage: “Per me il
significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi
intenzione”, una rinuncia alla centralità dell'Uomo, il che implica
l'eliminazione totale del gusto, del ricordo, e del desiderio, una
regressione e una rinascita all'innocenza.
Il
silenzio (“i suoni se ne stanno nella musica per rendersi conto del
silenzio che li separa”), la filosofia zen, l'identificazione dell'arte
con la vita (“la mia opera è intesa come dimostrazione della vita”), il
ricorso alle tecniche aleatorie e casuali (con l'antico metodo cinese
dell'I-Ching) volte a eliminare l'aspetto soggettivo del processo
compositivo, l'apertura totale nei confronti del sonoro (“ora non ho più
bisogno di un pianoforte: ho la 6th Avenue con tutti i suoi
suoni”), la passione per Marcel Duchamp (“gli scacchi non erano altro
che un pretesto per stare con lui”), per i funghi (partecipò anche a un
quiz di Mike Bongiorno), per l'astronomia (per la stesura della
partitura di AtlasEclipticalis, ha usato un atlante astronomico, traducendo la posizione delle stelle in note), per la Finnegan's Wake di
James Joyce, ne fanno una delle figure creative più originali ed
aperte, ancora da scoprire sotto certi aspetti, del secolo appena
trascorso. (Helmut Failoni – L'UNITA' – 08/04/2002)
Che c'entra tutto ciò con la poesia, sopratutto con quella "da fare"? C'entra parecchio, se ci si riflette un po'...
L'autoritratto non si confronta più con Narciso né con la profondità psicologica con la quale il pittore attraverso la vista scruta la propria anima e i colpi della vita sulla propria faccia (la drammatica serie degli autoritratti di Rembrandt, l'autoritratto del 1988 (vedi) in cui Robert Mapplethorpe raffigura sè stesso davanti alla morte ecc.). Cartier-Bresson che allunga la propria ombra nella campagna di Provenza in una foto del 1999 (vedi) offre una forma di snobismo nel defilarsi. Lui non c'è, nella foto, o meglio c'è solo la sua ombra, e tuttavia sappiamo che c'è, per via della forza autoriale (e autografa, nel senso pieno) della foto stessa. Poiché, come dice R. Barthes, "ogni fotografia è un certificato di presenza". Il punto è: presenza dove? di fronte a cosa? in quale ruolo e con quale identità? Se Narciso ha deluso sè stesso, l'autoritratto si confronta semmai con la materia, con luoghi/non luoghi, con attività dell'uomo chiuse o abbandonate, con altre culture, con i diversi livelli della realtà percepibile, con sè stesso come consumatore, come osservatore inane della natura, ecc. O con il mezzo fotografico stesso, ad esempio quando - come Cartier-Bresson, Mulas e altri - si usa quello che nella foto turistica è un errore (l'ombra del fotografo dentro l'inquadratura) come elemento descrittivo/linguistico, un "sè". In altre parole l'operatore, il fruitore, il soggetto (rispettivamente operator/spectator/spectrum, secondo Barthes) si confondono, a volte si sovrappongono, diventando inidentificabili, mischiando le carte del gioco (le informazioni, le emozioni). Sì, forse gioco è la parola giusta, come quello che potete vedere nel seguito di questo articolo. Del resto, come affermava Susan Sontag, le foto "sono incitamenti a fantasticare". Come dire, potrebbero essere l'inizio di una nuova opera d'arte, di una nuova immaginazione. Il che potrebbe valere anche per la poesia, se solo ci si ferma a riflettere su alcune delle considerazioni fatte sopra, ad esempio sulla "presenza" dell'autore all'interno dell'opera, o all'esterno, nei confronti della realtà circostante, dei suoi possibili "territori".
Viviana Scarinci mi aveva chiesto tempo fa qualcosa sulle donne, per VDBD. "Qualcosa" sulle donne...si può immaginare un argomento più misterioso e sfuggente di questo? Una poesia, un racconto, una riflessione di qualche tipo? Non ne avevo la minima idea. Alla fine ho deciso di mandarle un vecchissimo testo che per molte ragioni avevo pensato di lasciare nell'ultimo cassetto, una specie di prologo di un romanzo che non scriverò mai. Una visione impietosa, impersonale e abbastanza oggettiva di come vanno certi rapporti tra uomini e donne. Per fortuna non tra tutti. Mi aspetto qualche polemica. Intanto ringrazio Viviana per la sua amichevole attenzione. Trovate il testo su Viadellebelledonne QUI.
ci stiamo spiaggiando tutti, come balene, ti dissi, senza bussola. Una follia di fondali bassi e parole perdute in mulinelli d’ecolalie e spallucce d’odii minuti come le stesse crune che gli scritti risibili di oggi non passeranno, eppure acuminati. Ci stiamo spiaggiando, agonizzando nell’aria lutulenta delle idee da poco, urlate sovratono, ma come congelate in questo estatico/estetico presente. La sabbia degli schemi non è specchio, e nemmeno rispondono i narcisi, presi a misurarsi i suoi piselli. Nell’infinito io s’è persa, con l’educazione, la calda fuggitiva onda del cuore… 1
G.Cerrai - mar. ’10 illustrazione: The Nothing Corporation, CCL, from Flickr
E' uscita una mia plaquette (Camera di condizionamento operante, L'Arca Felice, Salerno 2009, collana Coincidenze), con prefazione di Mario Fresa e illustrazioni di Roberto Matarazzo, che ringrazio per la loro gentile attenzione. Più che di una silloge si tratta in realtà di uno smilzo poemetto in cui la situazione dei rapporti, tra persone ma anche tra riti sociali, prende atto del fatto che nessuno può agire senza essere a sua volta agito, o condizionato, come avviene appunto sperimentalmente in una camera di Skinner. Si verifica in altre parole "l’interdizione e la confutazione di ogni speranza possibile", come dice acutamente Mario Fresa. E' questo il limite della libertà, o dell'espressione, limite temo invalicabile, come era, da un punto di vista più "sociale" e foucaultiano, in un altro poemetto, "Sinossi dei licheni" (v. qui). Tuttavia ritengo che una speranza in realtà esista, almeno finchè faremo un tentativo di definire poeticamente il nostro esistere. Pubblico qui di seguito uno dei testi (*):
L’acume di che parli si spinge oltre le braccia incrociate in spazi indifendibili, oltre i nodi delle piante puntute, i confini proprietari dei giardini. Risponde per me il merlo beffeggiatore 1 fugge a innocui rumori, divaga, irride a falsi movimenti colti appena dalla fòvea gialla. L’acume, come un notturno metallico che trapassa il timpano, spinge ancora più lontano chi fugge, con il gorgoglìo acquoreo di chi affonda, le spalle voltando alla superficie. Il ferro delle parole non giunge, non giunge implorazione né blandizie. Lacrime allargano cerchi senz’eco su quella stessa superficie, come mine di profondità pietose.
1 W. Faulkner, La paga dei soldati: in realtà F., nelle sue magnifiche descrizioni d’ambiente, parla di un tordo beffeggiatore (Mimus polyglottus, engl: mockingbird) e non di un merlo
Illustrazione: E. Hopper, Room in New York, 1932
(*) Un altro testo è stato pubblicato da Antonio Spagnuolo sul suo blog PoetryWavedream (v. qui). Ringrazio anche Antonio
Enrico Cerquiglini ospita sul suo blog "Tra nebbia e fango" (v. qui) quattro miei testi inediti anche in rete. Lo ringrazio per l'invito e l'amichevole attenzione. Eventuali commenti in quella sede.