Giovedì, 20 dicembre 2012
Domenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acque - Ladolfi Editore, 2012
Un'opera prima che non è un assoluto libro d'esordio, grazie a Dio. In
primo luogo perchè l'autore non è per me un nome nuovo, essendo già
passato su questo blog (v. QUI),
e poi perchè Ingenito ha la sua particolare costellazione, e pochi
alibi in odor d'inesperienza o giovinezza, al contrario una cultura che
lo sostiene e nutre. In altre parole, una certa consapevolezza dei mezzi
e poca necessità di dimostrare alcunché.
Un libro ponte, direi. O forse ecumenico, o sincretico. Ovvero
costruito sulla necessità primaria di porsi (come autore) in un centro
geografico, sentimentale, stilistico, culturale, e anche in qualche modo
nostalgico. Come tutti i ponti il suo consistere è fatto di tensioni ed
equilibrii, a volte difficili da mantenere. Del resto Giuliano Ladolfi,
nella nota di chiusura, parla di "provvisoria sospensione tra due
abissi". Ma chi non risica non rosica.
Parlando di tensioni, di centro, di equilibri, ripartirei da quanto
avevo lasciato in sospeso un paio di anni fa. Allora avevo fatto
riferimento, a proposito dei testi di Domenico che avevo pubblicato su
Imperfetta Ellisse, ad alcuni snodi importanti e potenzialmente in progress. Che qui rinveniamo soprattutto nella prima parte del libro, nella quale ritrovo (VEDI) l'emblematica poesia-luogo Lisbòna - Tehràn, doppi
fuochi di una traiettoria anche esistenziale, come anche (e vedremo le
ragioni) "affioramento linguistico di un oblio incantato, dove
l'italiano mi è materia vocalica estranea". Si trattava in breve, a mio
avviso, di un debito che Ingenito riconosceva a una cultura non sua come
quella persiana - o orientale in genere - a cui si era abbeverato, anzi
una qual certa supremazia poetica, icastica, eidetica, una ricchezza
lirica sorgiva che accomuna con affascinante crasi l'antico e il
moderno. Si trattava anche, quindi, di un rovesciamento di identità
culturale, un innamoramento se volete; si trattava di una sostituzione del canone
o della reinvenzione di una tradizione, di un traghettamento. Qualcosa
che a me piaceva definire, esagerando, una reincarnazione, o una
simulazione di metempsicosi. Qualcosa di più, se posso dire, rispetto al
"tentativo di riappropriarsi di una Retorica, quale essa sia; di un
sistema di espressione che ritorni valido e significante soltanto se
scontato dal sangue della propria esperienza" che rimarca Tommaso Di Dio
nella sua prefazione. Certamente sì, anche questo. Ma perchè? Io credo
che, da questo punto di vista, Ingenito faccia parte anch'egli della
"generazione entrante" in cui (cito Stefano Guglielmin) "il sentimento
dell'orfanità (...) attanaglia questi giovani, collocandoli in un limbo
dove il presente è tutto ciò che procura dolore e gioia gestibili, una
volta compreso che sul futuro non si può più scommettere e che il
passato è responsabile di tutto questo". Ma questo orphanage
Ingenito lo risolve a modo suo, spostando decisamente lo sguardo verso
un altro orizzonte che rende addirittura ridicolo il problema
dell'eterno presente, e forse il concetto stesso di modernità. Se il
"passato che è responsabile di tutto questo" fosse per caso il Novecento
italiano che tutti cerchiamo di scrollarci di dosso, Ingenito lo
ignorerebbe bellamente, ricostruendo un altro passato in cui possono
coesistere tranquillamente Gaspara Stampa e Petrarca, l'amatissimo Hafez
o una sconosciuta (per me) poetessa persiana trecentesca. Ingenito,
come ho avuto modo di dirgli in altra sede, è felicemente antimoderno (o
se volete discretamente inattuale, nel senso nicciano del
termine, cioè agendo "sul" tempo e contro il tempo), l'elemento in cui
si muove è principalmente lirico, direi per forza di cose; il linguaggio
è ampio, anche nei testi più sintetici, e comunicativo. Compagna del
lirismo, spesso orfico, è una certa aria di mito che si respira a
tratti, forse di idealizzazione anche della stessa poesia, che però è
idea forte, quasi (si potrebbe dire senza troppi timori) mistica. Lo
stesso presente, con questa lente, diventa diversamente interpretabile, e
forse sopportabile con meno dolore, come per chi affronta il deserto
con qualche libro nello zaino.
Poi Domenico naturalmente si (ci) ricorda di essere anche un poeta dell'oggi. Come per tutti i ponti la missione del libro è l'attraversamento di un vuoto,
sia che esso avvenga con passi pesanti oppure leggeri come il rapido
camminare sulle acque del titolo. Non so se Ingenito abbandoni con
qualche inquietudine la terra sicura della prima sezione del libro,
"L'angelo e il fuoco" in cui optime manebat, si trovava bene,
ma certo hanno ragione altri commentatori, a cominciare dal prefatore
Tommaso Di Dio, a sottolineare la centralità (il fulcro, direi) de "Il
basilisco", seconda sezione della raccolta, dove proprio la doppia
natura dell'animale, reale creatura capace di correre sulle acque da una
parte e figura mitologica dall'altra, diventa simbolo e veicolo di un
passaggio tra diversi mondi, sguardi, tempi. I passi corti e leggeri del
poeta/basilisco sulla tensione superficiale delle cose sono forma
riflessa in una concisione dei testi (e in alcuni versi folgoranti)
quasi aforistica che è tutta moderna (Di Dio acutamente richiama Porta e
io penso a un quasi altrettanto mitico "Airone"), con un interessante
prosciugamento del testo, come se il passare all'oggi fosse inscindibile
da una frammentata visione dell'evento in cui il linguaggio "deve"
rispecchiarsi (ma gli echi che dalla superficie si diffondono sono
profondi, e il vuoto, gli interstizi, anche per noi lettori vengono
alfine attraversati).
La terza sezione, "La mandragola", sembra riassumere una circolarità
dello sguardo, gettato da quel centro di cui si parlava all'inizio, uno
sguardo che ricomprende, nel parlare di amore forse terreno forse
trascendente o magico, da una parte voci e andamenti della terra da cui
Domenico aveva preso le mosse, dall'altra un linguaggio ancorato
saldamente e senza sbavature alla sua stessa ispirazione. Una parte in
cui la ri-creazione di una tradizione su misura consegue a mio avviso un
risultato di rilievo. Se nella mia precedente nota esprimevo in
chiusura il velato dubbio che la poesia di Ingenito, se "depurata" dalla
potenza di una fascinazione culturale (da cui comunque forse qualche
distanza in seguito si dovrà prendere), potesse residuare in un lirismo
non del tutto originale, credo ora di poter affermare come da certe
affinità elettive sia scaturito al contrario un libro personalissimo e
maturo. (g.c.)
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Mercoledì, 21 aprile 2010
Joan Vinyoli i Pladevall (Barcellona 1914 – 1984), poeta e traduttore di Rilke in catalano. Vincitore di numerosi premi, la sua poetica è caratterizzata da una forte oscillazione tra le rotte del sacro e l’abbandono alle forme materiali dell’esperienza mondana. Rielabora la tradizione mistica romanza medievale trasportandola in catalano tramite il filtro dell’espressionismo tedesco. Il Llibre d’amic, di cui qui si propone una traduzione in italiano, è liberamente ispirato al Llibre d’Amic e Amat dagli accesi toni erotico-spirituali del maiorchino Ramon Llull (secolo XIV).
"Le poesie di questo libro furono scritte tra il 1955 e il 1959. Sono il correlato oggettivo verbale di un lungo processo d'interiorizzazione. Hanno significato un'immersione nelle acque più profonde della poesia e della vita. Poesia, questa, che porta in sé un linguaggio indiretto, allusivo. Il vissuto che intende trascrivere esige che i versi si pieghino quanto più possibile al loro stesso movimento. Ed è questo il movimento custodito dal canto. Se vent'anni fa questo testo poteva sembrarmi insolito, adesso mi pare perfettamente attuale nel complesso tessuto della poesia contemporanea." J.V.
Libro dell’Amico
Son naufragato in profonde acque: non parlatemi di rive. Tu, amica, meriti un canto senza sbaglio alcuno.
Cantavan ll’auciell ‘a matina e se scetaie ll’amic, ch’er ‘e matina; e ll’auciell fernettero ‘o canto, e ll’amico pe’ ll’amato murette, ‘a matina.
Ramon Llull, Llibre d’Amic e Amat, 25 Mallorca, sec. XIV
I
Solitudine ormai, e già la fronda,
sì sciolto e insonne d’invocazione
corre il vento, dove acqua divengono
le rocce mentre io m’inalbero
tra le mani del vento.
II
O presenza, per quale cammino andrò
lontano da te?
Si smuove l’albero nel mormorio del vento
tra le foglie, ancora non ti ho visto,
ma ti presento.
Sosterrò Presenza?
III
Fin dove io dormivo venisti
e mi risvegliasti,
e m’invitasti alla sete,
una gran sete per la quale
coppa ti facesti da cui io potessi bere.
IV
Felice il dolore di chi vive
toccato dalla freccia avvelenata dal curaro
del cieco. Perché, ferito,
e mentre per il sangue gli ardono
gli umori brumosi, urla aiuto all’arciere, che s’allontana.
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Venerdì, 2 aprile 2010
Dopo un paio di post "pensosi" torniamo alla poesia. Domenico Ingenito, autore delle traduzioni di Forough Farrokhzad pubblicate qualche tempo fa (v. qui) e anche "poeta giovane e ad un passo dal fallimento" (parole sue, napoletanamente scaramantiche), mi manda un suo cospicuo canzoniere inedito. Ne ho tratto alcuni testi che mi sembravano interessanti, a cominciare dal primo, Lisbòna - Tehràn, un testo teatrale o corale, se vogliamo, che andrebbe bene recitato a più voci, essendo costruito su un impasto linguistico, una contaminazione del dire dell'amore che corre sull'ideale medesimo parallelo che congiunge le due città, una precisa angolazione del sole, un doppio o triplo orizzonte, fascinazione, antipodi erotici e un rovesciamento, come le stagioni, della propria identità culturale. In questo testo e negli altri (sono questi a mio avviso i punti più rilevanti di questo canzoniere) c'è anche qualcosa che il lettore nostrano deve capire, una mistica sottesa molto orientale o, al limite, una specie di metempsicosi linguistica, una reincarnazione, in un giovane occidentale studioso di letteratura persiana, di una parola distante e setosa. Se la stragrande maggioranza dei giovani poeti usciti dalle università italiane ha il problema primario di scrollarsi di dosso la pesante eredità novecentesca, Domenico deve invece fare conti con una cultura altra e affascinante di cui appare fortemente innamorato. Al suo meglio possibile quando ci si immerge, se però si depurano i testi da questa fascinazione, come in altri casi, si ritorna a un lirismo di cui Domenico potrebbe rinvenire esempi più consoni alla sua personale esperienza dalle nostre parti. Sta qui la zona di confine di cui lui dovrà tenere conto.
Lisbòna - TehrànLo sai, potrò coglierti in qualche modo, mai completo, io in questa lingua eppure fortificato, inteiro nello spaccarsi, tra l’altra lingua che le mani mie atravessa e questo petto che strane cose dar bamdàd per te canta al mattino. Costruirò in te la patria del cuore che impazzito si traduce fra i due estremi dei continenti rovesciàti, midunì, dèlam asìre lo sai, prigioniero è il mio cuore con grazia no sossego dos beijos, vou sentir a tua falta sentir la tua mancanza nella pace dei baci asheghané mibinàmet amorosamente ti sguardo. Ho una grammatica di sentimenti da insegnarti purché tu conosca il margine che dos azuis mais cheios encarna-se minh’alma dei più pieni azzurri mi s’incarna l’anima di possederci sempre sul confine estremo con chi parla del sussurro la notte con la voce spezzata dall’argento dove mazra’é-ye sabz-e falàk dìdam-o das-e màh-e now vidi i campi verdi del cielo e la falce della luna nuova. Come dirti ancora violentemente che la casa non è altro che torcia: irrompe nel cuore tra altopiani e valli di papaveri bruciati dal sole dei tuoi baci. Sì, anseio o sabor da tua saliva na minha bocca ardente desidero il sapore nella mia bocca della tua saliva Ma non preoccuparti zàr-o sim rà khahàm feshànd bar del-e faghìr-e durtarìn zaminhà è l’oro e l’argento che spargerò sul povero cuore delle terre più lontane Sfigurare allora l’oggetto che mi offri nella lingua più bella trasmutare il nome in quest’altra costa pienamente azzurra e restituirla ai villaggi perduti riscrivermi così in te nelle mille parole che pur ti riconosco inventare o pronunciare s g r a z i a t a m e n t e quello che n o i, come sai, non apparteniamo a esta ilha no meio do campo quest’isola in mezzo al campo, siamo forse una Triste Razza Cantante spezzata fra le terre che dentro ci abitano, ey sàrv-e siminbàr o cipresso dal petto d’argento ascolta come si scuote il cuore quando nella frattura ti estraggo come più puro rubino delle tue labbra accese di parole non ancora inventate eppure già sfavilla l’ora di volerti nos braços desta janela luminosa nelle braccia di questa luminosa finestra dar mehmanì-ye aftàb, zìr-e roshana’ì-ye setaregàn-e abiràng. nella festa del sole, sotto il fulgore di azzurre stelle Sì, aré, sim, verrò a cercarti, dar talàbet, à tua procura, per apprendere con te, ba to, aprender, teneramente lontani, dur-o latif-o longe la nostalgia, (ghorbàt-o saudad-o sowdà?) di quell’ altopiano tra le piazze e le strade, as ruas e as meydanhà di una città bella, a cidade-e zibà bianca tra le colline, branca dar myan-e teppehà, di silenzio sokùt perco-me em ti dove in te mi perdo.
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Mercoledì, 10 marzo 2010
Otto bellissimi testi della poetessa iraniana Forough Farrokhzad (1935-1967), già presente su IE (v. qui), tratti dal libro "La strage dei fiori - Poesie Persiane di Forugh Farrokhzad", una antologia curata e tradotta da Domenico Ingenito (Ed. Orientexpress Napoli, 2007, collana Le Ellissi). Poesie di una passione e di una liricità impensabile ormai per noi, poichè, come avverte Ingenito nella prefazione "ormai vaccinati e resi immuni alla passione che i versi più antichi della nostra tradizione italiana potrebbero e dovrebbero suscitare, difficilmente riusciamo a comprendere come nella fruizione poetica di gran parte degli iraniani di oggi convivano classico e moderno, secondo uno schema estetico che non ci appartiene totalmente. Guardiamo in lontananza i nostri classici, il canone da cui trae origine la nostra lingua, e scopriamo invece, ancora una volta, come in Iran sia sempre presente adesso la voce del passato, nelle sue molte forme dove nel verso è riconosciuto lo slancio di una continuità". Forse è questa distanza che può suscitare in noi un'impressione, rispetto a questi testi invece modernissimi, di semplicità quasi ontogenetica, preculturale. "Pronto sempre è - aggiunge Ingenito -lo sguardo cinico ad accusare di ingenuità la parola semplice", ma, avverte giustamente, "ancora una volta è necessario evitare di confondere la semplicità con la superficialità", evitando anche, aggiungo, di leggere questi testi a nostra volta superficialmente. E' importante viceversa sforzarsi di penetrarli quasi empaticamente, per coglierne per quanto possibile le sfumature emozionali, i sottili e discreti rimandi erotici, la totalizzante idea di poesia di questa autrice che sfugge perfino ai tentativi di essere ascritta a categorie di genere o assunta a modello di antesignana femminista impegnata.Per le notizie bibio-bibliografiche Di F.Farrokhzad rimando alle numerose risorse disponibili in rete. Domenico Ingenito è dottorando di ricerca (Ph.D. candidate) in Letteratura Persiana presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e membro del Comitato organizzativo di Biennale EST - Europe as a Space of Translation ideata dall'Istituto Orientale di Napoli con la collaborazione di Parigi 8, Vienna, Dresda, Bucarest e Istanbul, un festival della traduzione che si terrà a Napoli nel novembre di quest'anno (sito di riferimento: http://www.estranslation.net). E' traduttore, oltre che dal persiano, anche da portoghese e catalano, nonchè poeta.Colgo l'occasione per ringraziarlo della gentile collaborazione e per il materiale fornito.
Saluterò
di nuovo il sole
Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò
la saluterò di nuovo.
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
Arrivo, arrivo, arrivo,
e la soglia trabocca d’amore
ed io ad attendere quelli che amano
e la ragazza che è ancora lì,
nella soglia traboccante d’amore, io
la saluterò di nuovo.
da Un’altra nascita.
Continua a leggere "Forough Farrokhzad - La strage dei fiori"
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