Venerdì, 29 dicembre 2017Viola Amarelli - Il cadavere felice Viola Amarelli - Il cadavere felice - Edizioni Sartoria
Utopia, 2017
Torno a parlare di Viola Amarelli, che trovate su IE
in altri post
, perché mi piace come scrive e come pensa, semplicemente. Inoltre questo
"cadavere" è anche un oggetto che ha una sua presenza materica, essendo
stato cucito artigianalmente dalle Sarte Utopiche Manuela Dago e Francesca
Genti, e lo vedi sgomitare tra gli altri libri della libreria con lo
spessore delle sue cuciture. In più tende anche a sottolineare la magnifica
inutilità della poesia, perché vive in pochi esemplari ed è orgogliosamente
fuori da certi processi produttivi. È quindi, in questo senso, un oggetto estetico, oltre che artistico, qualcosa che si pone
consapevolmente fuori dalle mappe.
Ah, sì, le mappe. Perché lo dico? C'è qualcosa che assilla (o solamente
interessa) Viola Amarelli, e mi pare che sia la ricerca e possibilmente la
scoperta dell'essenziale che è possibile dire con il linguaggio che ci è
concesso in dote, depurando il linguaggio stesso dai fronzoli che ne
costituiscono il velame primario. Fronzoli che sono anche di fatto
culturali, prodotti di una esondazione del mondo sulla scrittura, in
sostanza alibi quando si rigetta la fatica di sezionare il reale
preferendone il topos o la mera rappresentazione. Scrive Viola:
[gli accademismi, le traduttologie, le lectiones serpentiformi,
i periodi uroborici, l'armamentario lulliano, il bilame
del computo binario, disegnassero almeno una traccia, una via di,
un sentiero, altrimenti di bravi, bravissimi, ce ne sono già tanti]
È evidente la critica, in primis della poesia stessa, ma anche la critica
della critica. Almeno come espressioni del linguaggio, non tanto come mezzi
in sé, visto che tuttavia alla poesia Viola ancora crede. È che
l'essenzialità dell'espressione è essenzialità del pensiero, soprattutto
nel momento in cui la rozza materia linguistica diventa, come una amigdala
di selce, uno strumento. Che deve essere infine consumato:
le parole sono pietre.
tu scheggiale
fino a che non diventano sabbia, polvere.
fine.
Be', qui entrerebbero in gioco altri fattori, diciamo così ideali, a parte
quella chiusa che può essere intesa in diversi modi. Uno di quei fattori è
che rarefazione del dire, frammentazione del verso, sospensioni sintattiche
e altro ancora non sono iconografia nichilista, o rappresentazione di una
realtà sfuggente e spappolata, o balbettio stupefatto dell'uomo. Sono
semmai ammiccamento, anzi avvicinamento al silenzio come perfezione
inattingibile, come forma d'arte suprema, o mistica. Naturalmente Viola sa
bene che esiste un punto di rottura in questo avvicinamento, un culmine
oltre il quale tutto precipita nel vuoto. Come scrittrice, perciò, cerca di
raggiungere semmai l'arte di avvicinarsi al limite e ritrarsi, e questo
significa, ancora una volta, depurare la parola mantenendone da una parte
intangibile il senso, per qualunque orecchio, e dall'altra dandole un
riverbero disvelante o sapienziale (ma siamo ormai lontani da Notizie dalla Pizia). Il limite fascinoso è, in altre parole, una
scarnificazione "pulendo all'ossoessenza / quello che resta, quel che
m'interessa". Processo consapevole quindi, mentre di converso il cadavere
felice, come spiega la poesia eponima, è chi non sa di essere morto, come
un arto fantasma che si illuda di afferrare brandelli di vita, mentre
invece ha subito o accarezzato "uno sciame di mediocrità". Nella visione di
Viola, critica del linguaggio e critica della mediocrità umana
("l'imbecillità dilagante") si sovrappongono, anzi sono indistricabili,
perché è nel modo di dire, nella costruzione facile, nel sintagma assestato
nella consuetudine (gli stessi che Amarelli talvolta destruttura
ironicamente) che precipita la dismissione del pensiero.
Composto di cinque capitoli ( narrazioni, cronache, dèmoni, fantasmata e cerchi), la maggior parte dei quali inclusi, in tutto o in parte, in Fantasmata e altri inediti di cui avevo già parlato QUI (e quindi rimando anche a quel post, a quanto scrissi e alle poesie ivi contenute), il libro appartiene a quel genere di poesia che se ne frega altamente di essere lineare o assertiva, che cerca uno stile non autotelico (lo scopo in sé) e che se fa ricerca (termine che noterete ho usato solo una volta prima d'ora) è proprio per trovare qualcosa, non foss'altro, al bisogno, come scrivere "una poesia semplice" (trovate il testo nel post sopra citato) o il modo di confrontarsi a testa alta con le cose, ancora le "nudecrude cose" che, loro sì, "se ne fottono o, più esattamente, restano imperturbabili", o con la presenza sempre sotto traccia della morte, tenuta d'occhio e di conto, ma da una distanza "spirituale" e tutto sommato disciplinata. Ecco, credo che questo sia un concetto appropriato, applicabile su più versanti, sul lato soleggiato e sul lato in ombra della collina, per dirla in termini che Viola potrebbe apprezzare. Ovvero su quello della scrittura, per ciò che abbiamo detto prima ma non solo, la cui sintesi espressiva, rarefatta e contundente insieme, non viene contraddetta dai testi più lunghi, quelli ad esempio che è possibile leggere nella bella sezione cerchi; e sul versante dello sguardo, specie quando rivolto all'esterno, come alla sua città e alla gente (qualche esempio ancora in cerchi e nelle poesie contenute ne La disarmata - v. QUI ), sguardo sempre selettivo negli elementi, pochi e fondamentali, che vanno a comporre un'immagine che oserei dire compassionevole e partecipata di un comune destino di impermanenza (purché non si parli di imbecilli, naturalmente! o di certi orrori della modernità). È in fondo la disciplina della misura, che non è ritegno né understatement, è caso mai consapevolezza dei limiti e dei confini, anche di quel silenzio che la stessa parola poetica contraddice, proprio nel momento in cui lo prefigura: "le belle parole / le giuste / le sufficienti / quelle necessarie / finiscono nello stesso / punto dove nascono. / il silenzio - sipario". Nel frattempo però... (g. cerrai) Continua a leggere "Viola Amarelli - Il cadavere felice" Martedì, 23 agosto 2016Viola Amarelli - da Fantasmata, ineditiViola Amarelli - da "Fantasmata", inediti φαντασματα (fantasmata):
immagini sensibili (e in movimento) che Aristotele pone in una zona intermedia tra la percezione e il pensiero, ma libere da entrambi come pure dalla
fredda intelligenza argomentante. Evocate da ricordi, da esperienze, da visioni o da timori, non sono altro che l'immaginazione, la libera creazione,
libera anche di farsi da sé. Non c'è pensiero senza immaginazione o, meglio ancora, poesia senza di essa. E nemmeno immaginazione senza
percezione. I fantasmata stanno lì in mezzo, a fare da ponte. In questa piccola silloge di Viola Amarelli i fantasmi (o i demoni) sono per lo più
larve o barlumi di una realtà, non tanto percepita quanto vissuta e vivente come sintomo o fenomeno accessorio di altro, forse di un passaggio,
forse di qualcosa che travalica una ragione dormiente, come in Goya. Sono, ancor di più, fantasmi di fantasmi, nel senso di una ulteriore riduzione
dell'immagine evocativa ad una frazione di luce o d'ombra che il lettore può solo collocare nel bianco funereo della pagina, può contemplare, può forse
usare come modello, anche linguistico, per gettare uno sguardo sui suoi propri fantasmi.
Fondamentalmente quella di Viola mi sembra una poesia critica, ma critica di un io che è insieme antropocentrato e incapace di porsi davvero come
parte di un tutto consapevole, anche della propria morte ("un ego di muschiato marcescente"). La morte è presenza costante, qui, ma in forma di
contemplazione, di accostamento all'idea e al destino che contiene, elemento di una natura sovrastante e perpetua ("chissà quante altre volte siamo
morti"). È una poesia che vive (e lo fa coerentemente, per quanto possa essere paradossale) quella contraddizione di cui abbiamo appena parlato. Uno dei
nuclei "fantasmatici", forse il principale, a me pare proprio il contrasto tra un io per così dire sociale e un io intimo (quello lirico ha abdicato da un
po') luogo di proiezione di ombre e demoni ("oscuri e privatissimi") sul quale chi scrive vuole appuntare lo sguardo, o tra un dentro e un fuori illusori
("da fuori molto, / tutto, normale"). È la direzione in cui va Viola? Non lo so esattamente, so che in effetti qui non c'è più molto di oggettuale, hanno
perso importanza, da un punto di vista di oggetto ispirativo, anche le "nudecrude cose" di cui avevo parlato
QUI
, se non per il "caos che si riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di prospettive annichilenti" di cui avevo parlato a suo tempo.
Ho l'impressione che comunque qualcosa sia cambiato, si sia in qualche modo evoluto. Altrove Viola aveva detto "la scrittura è dall'origine un fissare, un
dar conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo", aggiungendo "Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce da un flusso e si risolve
in un flusso, quasi una sorta di processo a "doppio cieco" ". Ma qui a me pare che questa ansia sia messa in discussione, sia "criticata". A che pro
averla, se l'esistenza presenta "il conto, infinitesimale, del / macellaio" (narratrice, III)? D'altronde, dice ora, "le cose non vanno come
dovrebbero...le cose non vanno, si fermano, splendono e / piangono".
E il testo corrisponde in modo del tutto coerente a uno "sfilare ordure", a un "disordinare l'ordine", una tela di Penelope soggetta solo ad essere
disfatta, ridotta nel frattempo al minimo essenziale, una scrittura volutamente ossificata che potremmo definire un ulteriore avvicinamento (che dura da
anni) di Viola al "mu", a un versificare "privo di" a cui la "narratrice" riduce le "narrazioni" (entrambi sezioni di questa piccola silloge). Cosa che
avviene anche quando il testo si fa viceversa affollato, come in Cerchi (altra sezione) perchè fatto di costruzioni sintattiche che asseriscono
qualcosa che si compie in sé, non vuole diventare veramente narrativo, perché anche gli arazzi alla fine mostrano l'ordito. Le narrazioni
d'altronde, premette in esergo Viola, "- di cosa parlano? / - al dunque niente. // sorda sirena". Perciò un altro vuoto, o una stasi, o un gioco che
"perso, splendidamente langue / nell'arrocco". Giacché, scrive altrove Viola, "niente è peggiorato", e insieme "nulla qui è migliorato". Anche quando, come
dicevo, il testo si amplifica e si dispiega, rimane la sensazione di una volontaria frattura degli elementi costitutivi del discorso, l'eliminazione dei
connettivi, delle "giunture", nell'intendimento finale che "le parole sono pietre. / tu scheggiale / fino a che non diventano sabbia, polvere. / fine" (cerchi, VIII). È come se Viola dunque macinasse indifferentemente pietre grandi e pietre piccole o piccolissime (testi di uno, due versi). Sì,
forse qualcosa è cambiato. (g. cerrai) Continua a leggere "Viola Amarelli - da Fantasmata, inediti" Sabato, 20 giugno 2015Roberto R. Corsi - CinquantaseicozzeRoberto R. Corsi - Cinquantaseicozze - Ed. Italic Pequod 2015
Queste cinquantasei di Corsi sono proprio loro, le cozze, il Mytilus galloprovincialis, il muscolo, il peocio, il mòsciolo. Il bivalve lamellibranco
che si attacca dove può e si adatta sostanzialmente all'ambiente,
campando nell'acqua che trova. Simbolo qui, più che metafora, di una
situazione adattativa di cui l'autore è il principale protagonista e
anche di una stagione, di una zuppa, di un brodo di coltura, di una
riviera. Tutti metaforici.
Questa raccolta
di Corsi è, se vogliamo, un libro sull'habitat e di come un uomo vi si
trovi e ne sia in qualche modo conformato, in parte conquistato, in
parte respinto. Certo non habitat in senso fisico, ecologico, o almeno
non solo. Si tratta forse soprattutto di una collocazione sociale, di
una medietas che
in altri contesti potremmo definire borghese, ma qui serve a poco altro
che a dare un'idea. Una collocazione neanche tanto drammatica, in cui
cioè la vita sembra scorrere con molti dubbi, qualche perplessità,
alcune insoddisfazioni, qualche conflitto esistenziale (e forse
esistenzialista: "il macigno del non vivere") fatto di domande di senso
rispetto a momenti che scivolano via come un sasso lanciato a pelo
d'acqua (il sasso però, ricordiamocelo, finita l'inerzia affonda).
La vita che scorre in questi versi è, come quella di tutti, ordinaria. Proprio perciò diremmo emblematica, come quella dell'Ulrich musiliano (come allude opportunamente Viola Amarelli su suo blog, citando L'uomo senza qualità - v. QUI), ma è una vita in qualche modo collaterale, di una collateralità
di cui Roberto è peraltro consapevole. Una vita che trascorre per lo
più in momenti di relativo edonismo, in cui c'è poco posto per altre
emergenze del vivere - torno
a dire - ordinario, non c'è ad esempio che qualche riferimento al
"resto" della vita come il lavoro o i legami veri e anche l'amore non è
qui connotato singolarmente, come cioè forza affettiva in qualche
maniera "universale", ma come pluralità di trascorsi con troppe
soluzioni di continuità, troppi vuoti in cui il rammarico galleggia. In
questi testi, distesi in una versificazione lunga e a volte lunghissima
(che però basterebbe un qualsiasi enjambement per riportarla ad un
"ordine" novecentesco) con affioramenti di metri "classici" e con
l'ausilio di un linguaggio a volte colto, a volte ironico,
spesso basso/colloquiale legato in un impasto che a tratti mi ricorda
Gadda, con qualche accumulazione in brillanti barocchetti, in questi
testi - dicevo - c'è spesso il mare versiliese,
c'è la spiaggia e la sua fauna, c'è un'aria estiva ripercorsa anche con
ricordi di infanzia, c'è un paesaggio urbano di struscio, c'è il
calcio, c'è il cibo, ci sono insomma tutta una serie di fondali (intesi
sia in senso scenico che marino) su cui scorre la soggettiva (sì, in
senso cinematografico) del soggetto Corsi. Cosa avviene in questi
scenari? Ciò che appunto "accade", secondo l'etimo del termine, l'
"incidente" la cui occasionalità
è poi oggetto e materia di riflessione. E' una realtà visibile e
tangibile quella che cozza (appunto) e rimbalza sul soggetto. Niente di
metafisico né trascendentale e questo, per un verso, è cosa buona e
giusta. Una realtà che Corsi vive con molto spleen e non troppo idéal,
potremmo dire se volessimo accentuare l'idea di questo libro come
pessimista e un'altra idea, abbastanza involuta, del suo autore come
colto flaneur equamente diviso tra Firenze e le spiagge versiliesi. Non è proprio così, ovviamente. Se forse la preoccupazione principale del Corsi poeta è governare il caos piccolo, quello che in fondo è a portata di mano, quei momenti di incoerenza tra il fenomeno e lo spettatore poetante, e se a tratti affiorano una passività di fondo molto ben regolata/temperata da non poca autoironia e da un qualche spritz
di divertente narcisismo, e l'edonismo di cui si diceva un po'
preoccupato ma autocosciente, tuttavia Roberto non si accontenta (e
nemmeno noi dovremmo) di una superficie. La percussione di questo tipo
di realtà crea un rimbombo grave e pensoso che quasi sempre nel finale del testo precipita e deflagra in schegge di dubbio (di una esistenziale irrilevanza,
ad esempio, più volte evocata), per poi
spegnersi. Corsi analizza questa sorda eco, cerca bravamente di
capirne il significato, di capire come stare dentro - adattandovisi
- a questa realtà che certo in gran parte si è costruita, che forse ha
scelto e che non ostante questo è piena di ombre agitate. Cerca insomma
di comprendere (e ha ragione ancora V. Amarelli quando parla di "sostanza essenzialmente tragica" del libro) che cosa non ha funzionato,
tra la vita e lui, lui personalmente, senza la presunzione di parlare a
nome di una generazione di mezzo con problematiche troppo eterogenee e
diverse e men che mai di farne una poesia "civile", anche se non manca
qualche aggancio alla storia politica e sociale del nostro paese. Corsi,
anche per questo, per la assoluta centralità del soggetto, per certi
versi "cantati", per una scrittura abile e icastica spesso musicale, in
fondo è proprio un lirico, per quanto un lirico (e Roberto capirà
l'ironia) sicuramente di tipo irregolare. (g.c.) Continua a leggere "Roberto R. Corsi - Cinquantaseicozze" Sabato, 4 aprile 2015AA.VV - La disarmataAA.VV. - La disarmata - CFR Edizioni,2014
Un libro divertente, e mica è poco. Be', non soltanto questo,
naturalmente. Una collettanea uscita da un incontro tra amici, tutti
uniti dall'esser nati a Napoli, "pur se in maggioranza migranti", e di
avere un comune amor critico verso questa città. Viola
Amarelli, Francesco Filia, Vincenzo Frungillo, Immo (non chiedetemi chi
è, non ne ho la minima idea) e Gianni Montieri si sono divisi il compito di mettere in
versi una specie di attraversamento, non solo topografico, della città,
partendo ovviamente da loro "sentimento" o ri-sentimento nei suoi
confronti. Un attraversa,mento, o un ghirigoro, che secondo Flaiano è
in Italia (figuriamoci poi a Napoli) la linea più breve tra due punti,
un giro tra pubblico e privato, tra presente e passato, tra possibile e
improbabile, tra sociale e politico ma senza ridondanze, un piccolo,
personale sguardo, ma senza voyeurismi, sul corpaccio cittadino.
Non aspettatevi una "guida" di Napoli. Anzi, ci sono elementi
sufficienti per perdersi, eventualmente, come si conviene in poesia. E
non aspettatevi nemmeno la camorra, o Scampia, o cose del genere, e
anche di munnezza ce n'è poca. L'approccio è ovviamente soggettivo,
potremmo dire intellettuale o, proprio a fare i difficili, borghese, ma
senza dubbio anche emotivo nei confronti di questa città "disarmata"
(una speranza?, una constatazione di impotenza? uno smantellamento?) e
complicata. Complicata talvolta anche per il fatto che ci si aspetti a
torto la "narrazione" napoletana, che vi si cerchi sempre una
napoletanità, una eccezionalità. E invece gli autori sono stati bravi a
darne uno sguardo per così dire laterale, anche ironico, anche onirico,
anche metalinguistico (una città può essere un linguaggio, magari più
della sua lingua?). Certo poche città come Napoli si prestano a farne
una metafora, anzi una allegoria, mica si può fare un libro così su
tutte le città, non certo su Firenze, figuriamoci su Pisa, magari forse
su Roma, che ormai però non ha più una identità se non quella della
corruzione politica e urbana. E come c'è qualcosa di attrattivo, anche
nel ricordo, per qualunque forestiero che abbia sostato almeno un po' a
San Gregorio Armeno o sul Decumano inferiore, certamente c'è qualcosa di
ombelicale tra un napoletano, anche se migrante, e Napoli, qualcosa di
cocciutamente persistente in quello che ho chiamato amor critico,
resistente oserei dire a qualsiasi mutazione antropologica.
Poi naturalmente in questo quadro ognuno ci mette del suo, con i suoi mezzi: Viola Amarelli
nella sua sezione "rettoriche" usa il linguaggio come una installazione
in una via della città, quasi un corpo estraneo da cui la realtà, le incrostazioni di materiali vengono
estrusi e ricollocati, reimpostati nel suo stile attraverso il valore
sibillino e insieme accusatorio dei nomi, degli aggettivi che denotano
all'infinito (ipoteticamente possibile) gli attributi del luogo e le sue
rogne; Gianni Montieri immagina, in "turisti americani", il probabile (perché
no?), un piccolo Grand Tour di cui Partenope dovrebbe essere tappa
obbligata, e letteraria più che turistica, dei "suoi" autori (Roth,
McCarthy, Carver, DeLillo, Bolaño ecc.) collocandoli in posti
strategici della città, in punti rossi su una mappa ideale (you are here ►), ma come una location,
un esterno giorno dello sguardo e del pensiero dell'autore come se
fosse interpretato suggestivamente da altri, con un'aria un po' così, un
po' di come se, un po' straniera, o viceversa immaginando "il pensiero
quotidiano dei presenti viaggiatori, leggermente sorpresi, ma attenti"
(Elio Grasso, nella postfazione); anche Francesco Filia,
nella sezione "stradario", sceglie l'incrocio di vie, i luoghi, una
toponomastica però in questo caso del tutto personale, legata ai
ricordi, alle sensazioni, alle esperienze, uno scenario anche teatrale
popolato di gente, di affinità e differenze anche sociali, di "strati"
di cose e persone, di storie però per così dire "ripetibili", non del
tutto relegate al passato, non del tutto fissate nel presente, che
appaiono essere non meno organiche a questa città delle sue strade
ortogonali; la geografia "vissuta", ma da una prospettiva differente, è
anche la scelta di Vincenzo Frungillo, nella sezione
"zona est" ("storico insediamento di un proletariato industriale
spazzato via dalle logiche postmoderne", nota degli autori),
essenzialmente un luogo quasi senza nomi, uno spazio fisico e mentale in
cui la storia "assurge a testamento personale e popolare, contiene la
mai programmata transizione fisica della poesia" (ancora Grasso), ma col
peso del dolore patito direttamente, sia esso della morte di qualcuno
amato, della "dismissione", o dello sfregio ambientale di quel medesimo luogo che grava sulla
morte stessa, che inquina le acque e gli animi ma che non impedisce
tuttavia quella traduzione in versi a cui allude Grasso; mentre il
registro di Immo si distanzia sensibilmente
dagli altri, nella sezione "ci stanno un napoletano un napoletano e un
napoletano, ovvero: 8 poesie ma 9 pagine (come higuain) sul significante
NAPOL", pur non interrompendo "la corrente tra poeti della stessa
foggia" (sempre Grasso): non la interrompe infatti, semmai raccoglie
certi materiali decantati dagli altri e li "curva nell'invettiva pop e
amarissima" (da una nota degli autori), magari ci cazzeggia un po', li
rappa, li performa, li mette in "musica" (e non ci scordiamo che piazza
musicale è Napoli, da sempre), proletarizza il tono, ma li mantiene in
tensione, recupera delle maschere, compresa quella del folle
Scardanelli, l'eteronimo con cui Holderlin tentò di prendere le distanze
da sé stesso e dal suo passato. Ma in fondo non ci sono distanze da
prendere. Per tutti Napoli, anche quando non nominata, è insieme reale e
sfuggente, ma sostanzialmente, per quanto possa sembrare
contraddittorio, qualcosa di rassicurante, che bene o male c'è, con una
sua perdurante presenza nell'anima, per tutti orgogliosamente un ubi consistam, un fondamento. (g.c.)
Continua a leggere "AA.VV - La disarmata" Sabato, 26 ottobre 2013Francesco Balsamo - Tre bei modi di sfruttare l'aria, nota di Viola AmarelliMi fa piacere riproporre qui la nota di Viola Amarelli sul libro di Francesco Balsamo (Tre bei modi di sfruttare l'aria, Ed. Forme Libere, 2013), già apparsa sul suo blog (v. QUI). Ringrazio Giampaolo De Pietro per avermela segnalata, anche perchè mi permette di rimandare al post che pubblicai nel maggio del 2010 a proposito dell'altro bel libro di Balsamo, "Ortografia della neve" (v. QUI), che vale la pena di rileggere. Segnalo inoltre che l'autore, come è possibile vedere dalle immagini qui presenti, è anche un raffinato artista visivo.
(La luminaria delle dita, carboncino, olio e matita su carta)
La cronaca di una metamorfosi, carsica, e desiderata, sottotraccia, in un apparente minimalismo dove crepitano lampi e pensieri e lo sforzo di liberarsi di
un io già diventato corsivo, così si delinea “Tre bei modi di sfruttare l’aria” (Edizioni Forme libere, 2013) di Francesco Balsamo libro che già negli
eserghi di Ceronetti e Duncan, pone il tema del mutamento e delle forme.
Non a caso la prima sezione del libro ruota intorno a un “devo” (devo starmene tondo), che insieme all’orologio e ai miracoli, altro lemma ricorrente, tende ad azzerare - dilatandole – le dimensioni del quotidiano con il mai di un angolo di orologio (che) libera tutti in aria . Se questo è il punto di partenza del viaggio (e del resto, più avanti esplicitamente ciascuno in sé/ ha una strada premuta nell’abbraccio) le tappe si snodano intorno alla sospensione dell’ascolto e alla pazienza, configurando una sorta di laici esercizi spirituali. Non che manchino gli inciampi: i muri, ad esempio, come anche i lampi, energia repressa che pure occorre accudire, le candele e l’a picco e a piombo ritornano compulsivamente in molte delle sezioni, formalmente organizzate attorno a parole chiave che consentono all’autore di strutturare ognuna di queste tappe come variazioni su poemetti minimi. sopra una lumaca
(è una poetica)
io è ancora in viaggio
sottobraccio ha alberi
Continua a leggere "Francesco Balsamo - Tre bei modi di sfruttare l'aria, nota di Viola Amarelli" Venerdì, 4 ottobre 2013Scolpire d'affetto - Viola Amarelli letta da Giampaolo De Pietro
una lettura a Le nudecrude cose e altre faccende di Viola Amarelli, leggendo quasi di seguito Cartografie della stessa autrice
Per naturale conseguenza e coincidenza, si vuole qui rapportare le scritture di Viola Amarelli alle sculture, appena appena scoperte (solo con un secolo di ritardo) di Germaine Richier. Fosse anche solo per la presenza (in presenze) di figure in osmosi – umane, animali – fantastiche e reali; insomma: viventi e anche brutali, piccole, bronzee, per l’appunto - contraddittorie, imperfette. Scrivere è dialogare con loro. Considerare il materiale possibile, e quello felice, da cantare lo stesso e pertanto (memori di ogni incontro), da ascoltare intanto e sentire sempre. Si può scoprire che Germaine Richier era solita ripetere “Amo la tensione, il secco, il nervoso”. Le Nudecrude cose e altre faccende (L’arcolaio, 2011) hanno una loro successione, una loro partecipazione e “imitazione” (dell’intorno, di ogni avverbio che le vede e le prende a titolo e ad esempio), una metamorfosi necessaria, di gesti e mimica. Un ritmo incessante abita i versi, il verso “distaccato” dall’io (almeno un io che se ne va, tra un rigo e l’altro), e quello di un tempo da ritrarre così com’è, mitico di per sé. Le Nudecrude si lasciano ritrarre, portare sulla carta, fotografare, ancora imitare mentre “se ne fottono”. “Dietro,” – hanno – “l’oceano”. “Il fuori oggi è come il dentro”: così parte il “discorso” di chi se ne appropria (stavolta in prima e loro persona), quello della Amarelli che ferma uno dei suoi ritratti con un verso come “Siamo vivi”e scava, richiama superficie e osserva, a puntino il continuo film del vicino, lasciandosi toccare – “D’affetto aperto”. “Distolgono gli occhi e si tappano le orecchie” – forse hanno un sesto e settimo senso, anzi, lo hanno di certo, forse quello del loro stesso corpo, materia che sono, trattabile, friabile, scolpibile. E tante: ciottoli, schegge, sassi, massi, selci, rupi. Sono forse, come le piccole sculture bronzee della Richier, bisognose di uno schermo, ricoperte o circondate da ragnatele di fili. “L’immaginazione necessita di un punto di partenza”, sosteneva ancora la scultrice e disegnatrice francese. Qui i punti di partenza, e anche i segni d'interpunzione hanno un corpo e un nome, lettere alfabetiche e personaggi in dialogo. “A volte l’affetto è molto semplice”, fa Viola Amarelli - "per lieto contrappeso" c'è sì, "grazia e gioia" in questo libro e nella sua poesia.
Il ritmo, fino a non straripare, nel ritmo
L’altro libro dell’autrice. appena uscito, in cui sembra aver preso corpo, ancor di più se possibile il racconto, o ritratto si intitola “Cartografie” (Zona Contemporanea, 2013). Qui probabilmente l’orchestrazione prosastica amplia il suo scolpire figure, sceglie di agire, o forse pure di reagire alla scrittura stessa, spessificandosi, stratificando scene e confini. Ancora figure. Stavolta di carta, strade e strati di realtà a soggetto. Forse che la prosa in Amarelli sta come il disegno in Richier e la poesia come "fine" da scolpire?
Probabilmente questi ritratti sono i disegni preparatori alle sculture. La scultura, fine "primo" della Amarelli: la poesia. C’è l'uomo smarrito, quello
asservito, l'uomo bestiale, quello perduto, quello "venuto male", nascosto da una luce elettr(on)ica o da un cellulare, da una smorfia che lo sottrae
momentaneamente al vivere "male", o "bene" che sia. Pur di stare. Dentro al sesso, come si conviene, a suo modo, magari "naturale", dentro le occasioni di
amare, le persone care, le persone. Fuori da sé, ma per ritornare. Questa umanità, ancora come in Germain Richier è bestiale e fenomenica, naturale,
insomma, e l'autrice non ha remore nel descriverla impietosa e ancora impetuosa di reale angoscia e poi - non è un sotterfugio, ma forse il rifugio della
penna stessa, o della matita che traccia la planimetria del "trattare" c’è il piccolo non dimenticato, mai, ritrovo del sognare, che non è forse ancora
"sognarsi", ma essere dentro a un dialogo col fuori, necessario - possibile, sostenibile per crederci ancora, e ora. Prima di addormentarsi e partire. La
carta (geo)grafica coi segni, le punteggiature come spuntoni tra il percorso tortuoso di una vista, un tatto, un segno, un olfatto e un mai dimenticato
ascolto / udito. E il cuore, con il fin di bene, che non è mai detto / ma sentito, semmai - non illustrato a parola, ma tratto nei segni di una riflessione
inaspettatamente compassionevole. (giampaolo de pietro) Continua a leggere "Scolpire d'affetto - Viola Amarelli letta da Giampaolo De Pietro" Giovedì, 3 novembre 2011Viola Amarelli - Le nudecrude cose e altre faccendeViola Amarelli è stata più volte presente in queste pagine, per cui è quasi necessario rimandare a quanto ho scritto in quelle occasioni (v. il tag "viola amarelli") almeno per alcune cose che rimangono presenti nella sua scrittura. Inoltre alcuni dei testi pubblicati in questo suo nuovo libro (Le nudecrude cose e altre faccende, Ed. L'Arcolaio, 2011) erano già passati di qui poco più di un anno fa, mi riferisco a "incendi occidentali". Il che in parte costituisce anche una piacevole rilettura e forse una riflessione. Viola non ha mai frequentato, fin dalle sue prime prove, una poesia delle occasioni, o prevalentemente lirica, o elegiaca (semmai oracolare), o rapsodica, e ogni suo libro è frutto consapevole di un'idea, e un progetto nel senso pieno del termine. Compresa anche una speciale attenzione per la forma, che va di pari passo con (ed ospita e assiste e nutre) l'idea o le idee che muovono la sua ispirazione. Non è perciò un caso che l'epigrafe posta in apertura sia insieme una lucida dichiarazione di intenti e una (possibile) chiave di lettura, una asserzione di Antonio Porta ("Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne molte"). Naturalmente qui, come in Porta, la forma è funzionale a quel che si dice, è parte significante del dettato, anzi è una sua "dilatazione". E ancora, la "provocazione" della forma è dinamica, varia nel corso del libro. E' cioè espressiva, come un volto che muta con le emozioni. Forme in movimento: grave, andante, presto sono annotate le sezioni del libro.Quindi poemetto quando è necessario, prosa poetica o verso lungo quando il respiro ispirativo o il racconto lo pretendono. Le "nudecrude cose", quelle che come dice l'autrice "se ne fottono o, più esattamente, restano imperturbabili", sono il protagonista latente di questo libro, come un'ombra nella fovea dell'occhio. "Cosa" come sappiamo è un termine tanto generico quanto inquietante. "Cosa" non è "oggetto", è un quid insieme ineluttabile, destinato e sopratutto più longevo di noi, che va oltre la nostra esistenza, e non c'è, direbbe Bourdieu, "persuasione occulta" più potente di quella del semplice ordine delle cose. Ma l'ordine della cose, dice Viola, è un caos che si riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di prospettive annichilenti. O anche la semplice apparizione, per quanto carica di segni pitici, di una campagna d'inverno in cui un sé inquieto si rispecchia. Sempre, o quasi sempre, la donna o le donne al centro di questa poesia: che vivono le loro paure, che aspettano i loro uomini fuori da un carcere, attraversano piazze, tirano ironici bilanci fallimentari delle loro lotte, si affacciano "sull'orlo della fine", vivono la loro "ora delle passioni e del deliquio" o la zona d'ombra delle loro malattie, personaggi e interpreti (e cito i titoli delle sezioni) di convivenze, cure, strabismi, congedi. Ma quello che Viola vuole dire è che le nudecrude cose, se pure se ne fottono, "hanno una loro bellezza, anche quando distorte, lesive, a volte mortali", sono popolate da un "dio disperso". Devono essere vissute. E descritte. Forse riordinate. Lo dice con un nudocrudo stile, pulito e personale, inventivo nel lessico ma non autoindulgente, mai esondante, mai eccessivo, neppure nei testi più lunghi che qui non ho inserito ma che Viola sicuramente predilige, e soprattutto privo di ammiccamenti, di furbizie di mestiere. Sotto molti aspetti un libro pensato per sé, un libro di bilancio che Viola doveva scrivere, che doveva al suo personale ethos umanistico, alle sue sofferenze, per capire. Dice Amarelli nel bellissimo testo finale, "a latere", qui non riprodotto: "...la scrittura è dall'origine un fissare, un dar conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo: il "cosi è" artistico (...) Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce da un flusso e si risolve in un flusso, quasi una sorta di processo a "doppio cieco". Se il primo flusso è quello esperienziale, il secondo è uno sguardo che trabocca (...) Si presta voce a un mondo, a una faglia, all'innervatura di un picciolo, ci si illude, perchè il mondo resta tutto...(...) E' la scrittura spugna, materia che respira: quello che hai ridai. Per questo ogni poesia è sempre, dannatamente, anche nolente, politica". Vedete? Il progetto, l'idea... Continua a leggere "Viola Amarelli - Le nudecrude cose e altre faccende" Venerdì, 22 ottobre 2010Viola Amarelli - Incendi occidentali e altre poesie
In questa sequenza e nei testi successivi Viola apparentemente abbandona lo sguardo pitico, quello per intenderci del suo libro maggiore (v. qui), a
favore di una poetica del frammento che però non è rapsodico o occasionale ma è nucleare, vicino a un linguaggio essenziale e denso di senso,
vicino all'esistenza. Viola ci dice che è ora di guardare alla nostra umanità, di salvare il salvabile, di dire una "parola altissima". E questo è
possibile (o almeno si nutre l'idea che lo sia) accettando la tragedia, perfino la morte, cercando nel contempo di intrecciare nel filo del destino
anche un pò di "affetto aperto". Come metaforicamente fa anche una delle Parche, in un testo che ci rammenta ancora "Notizie dalla Pizia": dismette la
consueta indifferenza verso gli umani, intreccia un diverso filo del destino, rompe una "norma". Perchè in questi quadri ciò che risalta è la
deprivazione, i meccanismi automatici e disumanizzanti, la violenza minuta, ma sta a noi, anche a noi poeti, dichiararli inaccettabili. Anche contro
il pessimismo dell'esperienza, anche contro la resa per disillusione.
Continua a leggere "Viola Amarelli - Incendi occidentali e altre poesie" Martedì, 30 giugno 2009Ancora su "Notizie dalla Pizia" di Viola Amarelli
Ringrazio Viola Amarelli di avermi mandato questo libro. Lo avevo già letto, salvo revisioni, nella sua forma di ebook edito da Vico Acitillo, ma siccome sono della vecchia guardia questo tangibile dono di carta mi dà altre emozioni (Notizie dalla Pizia, Lietocolle 2009) (Questa nota è stata poi ripubblicata sul sito di Lietocolle, qui)
Continua a leggere "Ancora su "Notizie dalla Pizia" di Viola Amarelli" Venerdì, 28 marzo 2008Viola Amarelli - Poesie edite e inedite
Poesia matura, perché - per quanto corredata dagli inevitabili rimpianti e malinconie – è poco incline a sentimentalismi e anche, tutto sommato, poco lirica, con poco io, anzi poco ego. Poesia disillusa e consapevole di non essere affatto taumaturgica e lenitiva (o forse un “soffio che resiste / insistere senza sgomento / né speranze”), e perciò in grado di avere anche un’aura sibillina, di dare al lettore informazioni che sono ambigue (etimologocamente parlando) perché vivono delle ambiguità del lettore stesso (e non è un caso che una delle raccolte di Amarelli si intitoli “Notizie dalla Pizia”). Che dire infatti di poesie come “varco”, se non che evidenziano antinomie che sono quelle della vita di tutti, bivi rispetto ai quali nessuno ti può consigliare quale strada intraprendere, andare arrivare, passaggi attraversati dal fare e dal dire (e se è vero che “non ha parole la vergogna”, è anche vero il contrario, grazie a Dio). Rispetto alle cose il poeta è un dio minore, capace semmai di defilarsi “scansati gli umani”, e “battendo le mani” scomparire, tanto “il mondo attende che nulla accada”. E tuttavia questo dio minore consiglia “tieni il valico aperto sul non detto”, “danza oltre te stesso”, cioè consiglia di essere poeta , che non di altro si tratta, guardare oltre. Certo sul piano simbolico le antinomie (vedi “et in Arcadia ego”: chiudere cerchi aprendoli. vecchia/bambina, buio/stelle) non denotano solo l’ambivalenza delle opzioni davanti a cui ci troviamo, ma anche la definizione del linguaggio poetico, non solo quello di Amarelli ma (spesso) in generale: sapienziale, connotativo, sfumato, allusivo, allegorico, lasciato da ultimo alla responsabilità/interpretazione del lettore/postulante. Certo, si può tentare di usare sulla realtà la ragione (v. “ratio”), il “rasoio della mente” (sì, proprio il famoso rasoio di Occam, suppongo). Ma la ragione non ha dimensione “poetica”. Anche se “la mente giunge, arriva, precipite / e sicura ed è compiuta”, essa non è “sazia”, è vittima di un tarlo che rosica “finché s’arrende e apre le braccia”. E in questa apertura, in questo varco, forse, passa la poesia stessa.
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