Giovedì, 21 febbraio 2013
Alessandro Assiri, In tempi ormai vicini, Ed. CFR
Alessandro Assiri, poeta noto e “scafato” nel senso di “avvertito, che ben conosce la poesia contemporanea oltre a quella letteraria, critico ed edotto di
come funzioni la macchina del successo letterario”, si presenta con un libro dal titolo ambiguo: i tempi possono essere vicini perché prossimi a venire e
perché appena scorsi, tanto che ancora ne recuperiamo oggetti, memorie, scaglie usurate d’eventi, frammenti d’identità, pulsioni , evocazioni,
consapevolezze dure come piccole pietre.
Le liriche del libro, suddivise in quattro sezioni dai titoli suggestivi, danno ragione dello sguardo strabico del poeta che coglie frammenti di un passato
prossimo per rivisitare il presente e compiere anche l’azione contraria, dal presente al passato. In questa continua operazione transitoria l’io lirico è
pressoché assente: spia dietro le scelte dello sguardo e si ritaglia il compito del lessico e del metro.
C’è un’ironia amara che pervade l’intero libro, anche le frasi fatte, il raccogliticcio verbale, sono uno strumento affilato di penetrazione dentro una
realtà attuale che non si ama, così come non si è saputa amare con dura consistenza quella della gioventù che travestiva i giorni con un eskimo di sogni.
Nessun rimpianto, però, macchia questi rimasugli, né essi sono utilizzati a pretesto per rimpianti o per acrimonie; anche se non è ben chiaro perché il
tempo abbia spinto in una direzione variata e contraria, la nuova realtà ci colpisce su cicatrici ormai chiuse e il dolore è ottuso dagli antidolorifici.
Ciò che si è perduto non può tornare, può essere rimpiazzato ma l’intervento mostra ancora più chiaramente la il logos e il topos del dolore: “
(…..) Rifatto fino al nome assolvi la vita che hai perduto/ un po’ da militante e un po’ da dissociato/ prima sedicente poi compagno che ha
sbagliato.”.
Questa ironia, riscontrabile un po’ in tutte le poesie, ora leggera ora pungente, riverbera sull’autore stesso al quale resta come un’arma un po’ spuntata
per dire di sé nei tempi , e il suo sé corrisponde a quello di tanti suoi coetanei.
Assiri poeta non ama stupire né recriminare: appartiene alla quota scarsa delle persone che non si chiamano fuori dal gioco o che colpevolizzano sempre gli
altri, il caso,ecc.., per i fallimenti personali e collettivi; la sua denuncia è una autodenuncia e, soprattutto, non ha carte a discolpa né le chiede.
La sua poesia è dimessa. colloquiale, a volte brevissima riuscendo però a sfuggire all’aforisma e alla sapienzialità: “ Sul muretto coi brufoli a parlare fino a tardi/ dell’omino coi baffi con sto nome da birra e sta faccia da schiaffi.”
Chi ha gli anta alle spalle ha vissuto una scena come questa e non saprebbe descriverla meglio: poche parole essenziali, precise, scavate nei meandri della
memoria.
Qualcuno potrebbe obiettare che così operando la poesia non ci porta a nessun passo in avanti. Ma quando mai è successo?
La poesia- azione appartiene alle sue origini, alla sua pratica impellente, da gulag o da frontiera; ci resta una poesia che contiene, quando ci riesce,
l’esubero del sentimentalismo , e i materiali di costruzione dell’identità.
Può dirci dei mali e dei tempi a suo rischio e pericolo: a rischio dell’invettiva o di procreare un ibrido fra un io travolto dal presente e smarrito fra
sirene e miraggi contemporanei.
La lucidità di Assiri è preziosa perché non ambisce stupire, né commuovere, neppure farci troppo riflettere: i suoi versi ci fanno ritrovare un amico con
il quale conversare sorridendo con un po’ di amarezza per i nostri fallimenti. E questi anni duemila ci hanno spogliato di ogni ideale e , se la colla è
rimasta, come afferma Alessandro, non c’è più nulla da appendere. (Narda Fattori)
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Lunedì, 15 ottobre 2012
Ricevo e pubblico volentieri questa nota di Narda Fattori, che ringrazio, sull'ultimo libro di Lucetta Frisa. Il testo è già apparso su La poesia e lo spirito lo scorso 1 Ottobre.
Lucetta Frisa, L’emozione dell’aria, CFR
La musica è vibrazione d’aria, aria che si piega, corre su precipizi, sprofonda, risale, volteggia lieve come una farfalla, sfugge alla presa, capitombola,
si muove elegantemente come i cavalli al dressage,…, molto concisamente, forse superficialmente, la musica è aria che emoziona e ci trasporta
dentro, fuori, adagio, solenne, allegra, andante…
Lucetta Frisa si fa penetrare da questa emozione e, mutando il ritmo, il timbro e la melodia, varia il suo dettato, il contenuto dello stesso che può
elevarsi, ma mica poi tanto, perché la musica, arte sottile e matematica, trascende la quotidianità ma mai l’individuo perché di esso è prodotto, arte e
non merce, e quindi è una grazia e una bellezza o un dramma e un abisso che gli restituisce la possibilità creativa, quel prezzo terribile che paga da
quando volle mangiare all’albero della conoscenza. Il titolo stesso è una azzeccata sineddoche: è la persona che si emoziona alla vibrazione dell’aria
nella musica.
Lucetta Frisa ha già trasposto elegantemente le emozioni suggerite da dipinti famosi e anche da essi, in una felice contaminazione artistica, si è fatta
penetrare, è entrata in dialogo.
Con la musica non si può dialogare, puoi solo assumere la disposizione più consona all’ascolto: tecnico se sei musicista, intimo, intrapsichico se sei
poeta.
Ecco come ce lo dice: “voci/ voli/ fiato/ di chi ama o muore/ l’emozione dell’aria trova il suo alfabeto.” È un alfabeto che si può ascoltare, con
il quale, però, non si può interloquire. L’eloquio è fra sé e sé, fra sé e gli altri. La Frisa può dirlo con questa intensità:
“Se i suoni sono specchi
di un detrito astrale
chi evocano
invocano
quale visione
o profezia?
E a noi tocca solo il dolore
o sordità?
se il canto di sirena incantò il tempo in pietra
le nostre voci
affondano
nei vuoti abbandonati
degli astri
……”
Porgiamo un attimo di attenzione alla spaziatura dei versi che, mi pare, cerchino di imitare la disposizione delle note sul pentagramma; la loro apparente
irregolarità è in realtà il loro pregio, la musica che suonano, il ritmo che vibra nella loro scrittura, il fiato , il respiro.
Ma torniamo ai versi: che sa l’uomo di questo suo miracolo, pur essendone l’artefice? Può essere che la profezia che vibra sia diventata incomprensibile e
qui si stia nel dolore e nella sordità?
Se il canto delle sirene trasformava gli uomini in pietre, ora sordi, si cattura il vuoto fra gli astri e, ben sappiamo che il vuoto è molto maggiore del
pieno.
Ecco che la musica apre le porte della riflessione intrapsichica, emozionale, anche filosofica.
“ la musica lascia una scia
d’aria
ed ombra
dov’è il centro?
è solare vento
che a caso muove il nulla
le sue figure?
nella polvere fu concepito il fremito tellurico
ma nell’atmosfera tutto sembra immobile e muto”
Lucetta procede nel suo ascolto che proietta fuori di sé scienza e coscienza, soprattutto molti interrogativi senza risposta, che non hanno risposta.
Tutta la prima sezione, intitolata Basso ostinato si fa carico delle domande “impossibili” e giunge, inevitabilmente, alla fine del
personale (umano) percorso dell’uomo che passerà oltre la Turbolenza e, contrariamente al razionale e percepito, il ponte è un taglio che ci unisce al buio e resteremo con una fame inesausta di musica che dovrebbe sprofondare con le sue partiture sotto la
nostra stessa crosta e ci porteremo via minutaglie, le cose di tutti i giorni, tutti i giochi, gli inganni.
La musica, così amata e cosi violentemente amante, ci abbandonerà alla sordità, la terra ne sarà abbandonata.
Questa prima sezione del libro, che ha la struttura di una fuga di Bach (però da inesperta, non vorrei azzardare nessuna analogia) è anche la più aspra e
solenne e il titolo è ben accordato: basso, come il ridere del grillo, forte come la lingua del tuono ( versi di Emily Dickinson), ostinato,
niente fughe ma scavi, ascolti, echi, rimandi, rifrazioni e qualche riflessione.
Poesia coltissima, attenta, controllata ma anche dolente, amara, senza alcuna forma di consolazione. La sezione che segue, Les amusements,
ci accompagna verso musica diversa, se non proprio divertente come promette, capace di penetrare e assolvere le minuzie, le sofferenze, gli antri oscuri
del transito umano. Ogni poesia porta il titolo del brano e il nome dell’autore (Schubert, Chopin, Ravel, Brahms, Rimsky-Korsakov, Bartòk, Astor
Piazzolla,…); musica diversa per tempi diversi ma la non contemporaneità dei musicisti offre la possibilità di raccontarsi, perché questo osa talvolta
Frisa, in modi e con timbri spurgati dall’emotività:
“[…] ora tu suoni
per me per noi
per questa casa saturnina che a ogni nota
si frantuma un po’ di più
[…]
impari e dimentichi
impari e dimentichi
e non smetti mai di suonare.
La terza parte, più breve, intitolata Peace Piece, si sposta con indifferenza fra la musica da camera a quella blues e jazz, ma non sono
indifferenti i temi: in queste poesie Lucetta Frisa esce da sé per guardare gli altri, gli altri come persone e non come mondo, cioè convitati ad una mensa
amara.
E per i bambini, per il loro rispetto, per il loro affetto, per evitare loro le escissioni dei sogni e i morsi della vita, dice” abracadabra/ se potessi”
Ma non c’è magia che tenga, se non questi bellissimi versi che possono solo restituirci un po’ d’umanità.
La dolenzia non è disamore , è troppo amore per la bellezza che si vorrebbe pura come nell’arte e diffusa invece le brutture scorazzano nelle contrade del
mondo e se ne sono impadronite.
Narda Fattori
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Mercoledì, 3 ottobre 2012
Una recensione di un romanzo, per una volta in mezzo a tanta poesia, che ricevo da Narda Fattori e che pubblico volentieri.
Anna Rosa Balducci, La casa color grigioperla, Edizioni Progetto Cultura.
“C’era una volta…”: no, non inizia così il bel romanzo di Anna Rosa Balducci; c’è stato, c’è ancora, un barcone di naufraghi in fuga da fame e guerra che
ha affrontato il mare inconosciuto e periglioso per sfuggire ad un destino che non ha storie, ma finali.
Dal barcone quattordici personaggi sbarcano su un lido ignoto ma inconsueto: non siamo a Lampedusa, a Mazara del Vallo, a Otranto; qui c’è un Adriatico
quasi lagunare, qui c’è un Adriatico che non reagisce alla loro intrusione, un po’ perché da sempre accogliente, un po’ perché distratto e poco interessato
a chi non ha denari da versare. Si capisce abbastanza presto , specie per chi abita questi territori, che siamo a Rimini, in autunno. Dopo un giorno
smarrito sugli scogli, appare un rifugio: una casa lì a due passi, abbandonata e vuota, quasi in attesa della piccola comunità di rifugiati di colore: due
vecchie, due vecchi, due giovani donne, due giovani maschi e cinque bambini, tre orfani e due figli “regolari”; anche i bambini sono differenziati per
carattere e sesso, due femmine e tre maschi , un microcosmo che riflette il macrocosmo.
L’autrice all’inizio, soprattutto, gioca con diversi punti di vista, che non mi pare contribuiscano a dare originalità alla storia, perché il linguaggio
rimane uguale, e il punto di vista si riduce a un commento, non molto di più. La storia è affidata ad un narratore esterno, onnisciente, che conosce gli
antecedenti e forse anche il finale, anche se non lo lascia trapelare. E’ un narratore attento, specie a quanto differenzia i singoli; per quanto riguarda
il confronto con i pallidi cittadini chiaramente esprime che vede soprattutto somiglianze. Come dev’essere fra umani.
Ci viene detto che la comunità viene da un paese africano scombussolato dalla guerra, eppure abbiamo un missionario cattolico che lì si è insabbiato con un
altro bianco misterioso e insieme portano avanti un ospedale, una scuola. Sono figure quasi mitiche, fiabesche sicuramente. Ma entrano a pieno diritto
nell’inframmezzarsi di parole e molti silenzi, silenzi non ritrosi, ma di rispetto, di individuazione.
Già da subito leggiamo l’irruzione della fantasia: il missionario che non è mai tornato in patria, quattro vecchi che decidono di emigrare e sono solo in
attesa della morte; forse rappresentano lo spirito di un mondo antichissimo e lontano che abbiamo sopraffatto ma che non vuole cedere lo scettro della
dignità..
Le due giovani donne sono la forza e la fermezza, sono figure amorose ma non oppressive e non timide o represse; dei due giovani uomini, quello non sposato
ha studiato medicina, l’altro ha imparato le abilità del tirar su case e ponti, cose solide e durature.
Nessuno li disturba nella pacifica convivenza; sono i bambini che per primi affrontano la nuova realtà, creano il primo legame, poi il giovane dottore che
voleva frequentare l’Università di Bologna, per fregiarsi del titolo con la piena competenza derivante, finisce a curare gli ultimi in un ambulatorio
precario e volontario. I bambini, soprattutto, i maschi sono disegnati a tutto tondo, curiosi, pieni di talenti nel corpo, nelle mani, nelle menti.
Poi la storia vira improvvisamente sul fiabesco: l’arrivo di una signora ammalata che vuole godere della loro pacifica compagnia e lasciare qualcosa di suo
ad altri : sarà la cura della pittura per un bambino, l’offerta del denaro per sollevarli dal rischio dell’ elemosina. Infine , con la sua morte,
arriveranno gli agi di una casa da sentire propria, dove vivere e legare il filo della vira che dura, proprio quando lei se ne va.
Il dottore si è innamorato, la vita riprende il suo ciclo.
Non ha un inizio fissato nel tempo, né un finale che chiuda perfettamente il cerchio.
Perché la vita non ha un chiaro inizio né una altrettanta chiara fine: siamo come quanti ( in fisica) che si incontrano, si intrecciano , si lasciano,
creano. Intanto nella storia irrompe la primavera…
E’ un bel libro , questo di Anna Rosa Balducci: un libro che ti invita alla lettura e quel tanto di fiabesco sfuma la pesantezza e l’ammasso del dolore che
le storie di migranti portano con sé.
Ci fa, noi lettori, diventare più buoni, più generosi, più innocenti.
Bastasse un libro….
Narda Fattori
Anna Rosa Balducci
è nata a Rimini nel 1952. Laureata in Lettere Moderne a Bologna, insegna materie letterarie. Scrive da sempre e ha
ricevuto diversi riconoscimenti nei Premi letterari ai quali ha partecipato. Ha pubblicato articoli e interventi su quotidiani e riviste; la raccoltaLa balena e altri racconti (2002); il romanzo Pane a colazione (2007), oltre ai libri di fiabe Pupaz zi, nani, re e anche un tre (2004) e Girasole e altre storie (2010).
Sabato, 21 luglio 2012
Ricevo e pubblico volentieri questo articolo di Narda Fattori, che ringrazio.
Sandra Vergamini, Il tenero peso dell’ombra, Edizioni Lepisma
Leggendo la prefazione di Maffia a questa bella silloge della Vergamini, poetessa che mi era sconosciuta, mi ero orientata verso un tipo di poesia che non
amo particolarmente perché, se non raggiunge vette sublimi, resta un continuo rimando al sentimentale, al dolente, all’euforico, al carnale, ovvero
all’amore fra uomo e donna che da sempre ci ha donato versi inimitabili; riaffrontare il tema significa cercare di piantare la propria pianticella in un
giardino rigoglioso. Ne resterà soffocata? Il confronto mostrerà nella sua piccolezza?
A dimostrazione che non si debbono mai avere pregiudizi, credo di avere riletto più volte la prima poesia: parlava d’amore o di oltranza? Parlava di un sé
fuori di sé o di altro che non si può mai del tutto conoscere e possedere? Parlava di finestre spalancate o di spiragli? Di un dolore antico e quanto
antico?
Come lettrice, la Vergamini , mi aveva già catturata. La mia lettura è corsa più spedita, mai affrettata però perché la poetessa ha l’abilità di farti
fermare con un improvviso scarto di visione, con l’intrusione di un insospettato elemento e quanto credevi di avere capito doveva essere nuovamente
riassemblato. Come in questo caso:
“ …/L’indicibile appare d’improvviso./ Non c’è tempo/ per calcolare il raggio d’azione./ Solo fermarsi/ sollevare lo sguardo/ e accecati/ vedere
finalmente oltre
. “; l’ossimoro presente , peraltro non inconsueto, dà ragione di una verità che si cela nell’apparenza.
Una caratteristica della poesia di questa silloge della Vergamini è un procedere dalla luce all’ombra e viceversa, mancano i rigurgiti del sentimento,
l’oblatività, gli effluvi dolci e amari: l’amore che dice, con voce ferma e frammentata è indirizzato, ha un oggetto, ma di questo oggetto non sappiamo
nulla ; Sandra ci permette solo di conoscere la selva disordinata e pure fitta e organica delle sue sensazioni e dell’irruzione di visioni e riflessioni.
Irrimediabilmente la poesia mette in scena il sé, il nostro essere dentro le esperienze e il mondo, così come esiste una poesia elusiva che si maschera e
nasconde , una che fa che del proprio sentire il centro del mondo e una che si limita a censire senza affanni e senza ritrosie, che possiede un’umiltà
statutaria non meno vera e assoluta:
Non è per gioco
che il suono scivola nel fango.
E’ che i suoi gusci come fusti leggeri
sono volati al vento.
Dentro
l’anima nera rivendica il suo turno.
S’alternano così la notte e il giorno
fino a quando un’eclissi di memoria
oscurerà il nostro canto.
C’è in questi versi una consapevolezza della fragilità che è anticipatrice di future ombre che una candela non basterà a mettere in fuga, sarà solo tremula
compagna, speranza breve e fumigante.
Il dono d’amore non basterà a porre i giorni sotto il sole; già ora è inquieto e instabile, si presenta e si ritrae , illumina e oscura, presenza- assenza
che duole come ferita che più non sanguina ma che ancora non è guarita.
Anzi, l’amante quasi auspica la conservazione di questo suo stato di dolente insicurezza, perché da questo trae nutrimento: lo sappiamo in tanti che
l’amore felice non ha versi, ma gesti, quello infelice ha lamenti e richiami, tentativi insoddisfatti di ricomposizione di un mosaico frantumato.
La comunione fra due identità lascia sempre qualcosa di taciuto, di sospettato, forse anche di inviso; e quel silenzio scava abissi che poi sono
impossibili da oltrepassare.
Eppure mancano i rimpianti:” Sono felice/ di averlo avuto con te/ il mio spazio d’eterno./ Rimane molto più di quel che pensi/…”
Credo che chi ha conosciuto l’amore possa condividere i versi sopra citati e conservarli nella teca dei tesori. Perché solo a chi è fortunato è toccato in
sorte l’amore.
Eppure questa silloge non è dedicata all’amore; a me pare che si spalanchi a quel mondo privato e universale che definisce, ci ulcera e ci lenisce.
La lettura del libro motiva anche il titolo: l’ombra che resta è tenera e lieve, non sottrae, aggiunge.
E’ una bella lezione di poesia e anche di amore, di visione, di emersione e di immersione; un bel libro dove anche l’ombra respira.
Narda Fattori
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Giovedì, 5 luglio 2012
Ricevo da Narda Fattori e pubblico volentieri, ringraziando l'autrice.
Abele Longo, Reversibilità, Edizioni ATd’ O – Neobar
I libri si scrivono perché siano letti e vogliono rappresentare uno spaccato del sentire personale in un tempo, in un luogo. Ma la scrittura, Cassandra
inascoltata, è multiforme, inafferrabile, sgusciante : fra le dita restano solo frammenti del lungo discorso che la agita; la poesia soprattutto gode di
questo statuto di ambiguità, di spregiudicatezza, di salvataggio all’ultimo istante prima della caduta delle lettere sul foglio… e di reversibilità.
La buona poesia, dunque, è un concentrato semantico, talvolta ossimorico, ha visioni nette da analisi al microscopio e altre che trasvolano senza confini
territori estremi, mai estranei, però.
La reversibilità nasce dalla capacità di farci intendere il senso celato, contrapposto , forse solo immaginato, come la faccia oscura della luna.
Anche l’oggetto – libro che contiene le poesie è ibrido: molti versi, illustrazioni infantili, riproduzione di quadri. Buona parte della reversibilità
risiede nei disegni infantili della figlia del poeta, qui assunti non a ornamento e corollario, ma portatori di un loro semantema autonomo, aspro e felice
nello stesso tempo. D'altronde anche la vita ha queste caratteristiche e i disegni ne mostrano la consapevolezza. E se il padre si sgrava dei pesi, il
figlio glielo permette o se li assume?
Il libro è ibrido anche per la pluralità dei temi che affronta: la bellezza della natura, l’ingiustizia sociale, il dolore dell’uomo e di tutte le
creature, l’assenza di comportamenti compiutamente etici,..: l’uomo , argilla manipolata, porta in sé la fragilità della materia da cui è stato tratto e
anche quella impervia categoria della consapevolezza ( a sua immagine e conoscenza – di Dio- afferma la Genesi). Si leggano questi versi:” Lo sposo in chiesa stringeva/ le palline del rosario./ Aspettava la falena/ sotto il lume del calvario.” le asperità tutte sono presenti:
le preci ( rosario), la sposa- falena che si avvicinerà fino a bruciarsi le ali al lume del calvario, dove il calvario non è certo causato- auspicato dallo
sposo ma è preesistente, è nella natura della vita.
Il pessimismo cosmico, se così vogliamo chiamarlo, ha un suo contrappunto felice in attimi di felice innocenza, quando la vita non ha ancora presa certa .
L’angoscia si stempera nella possibile reversibilità, nella taciuta speranza che qualcuno, ancora innocente ne sia esentato.
La incisività del dettato di Longo trafigge senza far male quasi che travasasse un contenuto suo in un contenitore altro perfettamente adattato; è un
grande merito perché avvicina alla poesia anche chi questa tipo di poesia non ama; i versi si fanno strada senza sangue, con taglio netto anestetizzato non
da sostanze estranee ma per loro intrinseca qualità. Raramente usa stratagemmi retorici per richiamare l’attenzione o per épater le bougeois; non mancano
anafore di tipo rafforzativo, né versi ironici, che invitano al sorriso ( amaro), qualche accostamento sarcastico e inconsueto, intere poesie intrise di
perplesso stupore. Alcune poesie possono essere accostate a dei calembour, ma mai scadono in giochetti verbali.
E’ un volume che merita di essere letto. Apre la mente, senza dolore.
Narda Fattori
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