Domenica, 10 dicembre 2017
Strenna natalizia, e per di più gratis: Bloatware I - Incrostazioni (o dell'amor molesto), un libretto. Trattasi di giuoco o sberleffo se preferite, di/a/da/in/con/su/per/tra/fra la poesia come materia più malleabile di quanto possa sembrare e contemporaneamente materiale di scarto, garbage, déchet, rumenta - sia detto con tutta la simpatia possibile verso i poeti, me compreso. Un minuscolo cut 'n' paste nato da perplessità, soprassalti e divertimenti ricevuti nella maggior parte dei casi da poesie di terzi che mi è stato chiesto di leggere in varie occasioni. Frammenti autentici estrapolati e rimontati a piacere ironicamente et sine iniuria. Non so se avrà un seguito, ma roba ce ne sarebbe.
Trovate il pdf QUI. A tutti auguri di buone feste.
Mercoledì, 12 ottobre 2016
Su "Trasversale", il blog/rivista di Rosa Pierno, alcuni miei inediti tratti da una raccolta dal titolo provvisorio di "Luoghi scarsamente popolati", con una acuta e articolata nota critica di Mario Fresa. Ringrazio di cuore Mario e Rosa Pierno per l'attenzione e l'ospitalità.
Ritrarsi e narrare di Mario Fresa
C’è il senso di un’obliqua alterità e la sensibile eco di una lucida, raffinata sprezzatura in questi nuovi testi poetici di Giacomo Cerrai: essi appaiono immersi in un’atmosfera tutta brumosa e anfibia, nella quale gareggiano, alternandosi o convivendo, un’attitudine alla descrizione pura degli eventi e una prospettiva divagante ed enimmatica, tesa al nascondimento e all’elusione del soggetto che pazientemente registra lo schiudersi della realtà osservata. La narrazione-descrizione si fa essa stessa, allora, straniante e sospesa, nel segno di una continua trasfigurazione, misteriosa e mercuriale, di colui che guarda e di ciò che è guardato: una trasfigurazione nella quale, tuttavia, l’epicentro dell’osservazione digrada a poco a poco, e poi sfugge e si ritrae, infine moltiplicandosi e disperdendosi in una dimensione plurima, fitta di specchi e di rifrangenze che spingono l’occhio ad avanzare con movimenti liquidi e ingannevoli. (continua a leggere QUI)
Giovedì, 7 gennaio 2016
Il 30 dicembre scorso è uscito presso l'editrice L'Arcolaio di Gianfranco Fabbri la silloge di poesie "Il tempo che si forma", prima opera a stampa di Luca Lanfredi, di cui ho scritto la nota introduttiva, che anticipo qui insieme ad alcuni testi di "assaggio".
Come dissi a Lanfredi la prima volta che entrammo in contatto, io ignoro se il tempo si formi (ci sono svariate e opposte opinioni al riguardo), se sia
ciclico o lineare, non so nemmeno, con Agostino di Ippona, che cosa sia davvero, sebbene poi il santo qualche convinzione in proposito l'avesse. Quel che
sappiamo è che in poesia il tempo è uno dei tòpoi più ineludibili, e che soprattutto c'è, sta lì da qualche parte anche se non lo nomini,
lasciandosi dietro un po' di scorie, di accidenti e di casualità, e non si lascia misurare se non in termini di istanti.
Mi pare di poter affermare che quella di Lanfredi sia, in effetti, una poesia dell'istante. Non solo per la concisione dei testi ma anche per l'estrema
sintesi dell'espressione, quasi una riservatezza del dire o, meglio ancora, un senso di inadeguatezza del linguaggio nei confronti di questo dire, come uno
iato tra il cuore e la favella che almeno una volta abbiamo provato tutti, o una supposta mancanza di definizione, per dirla in termini
fotografici, a cui la poesia cerca di sopperire o si arrende.
Il testo tipico di Lanfredi è un istante prolungato, un momento in cui qualcosa si realizza in una sua fugace compiutezza, un frame, come
guardare fuori attraverso una finestra in giornate uggiose, uno sguardo non tanto su oggetti, su una realtà non sempre materiale (sono rari o indefiniti i
luoghi fisici) o su un ambiente in cui la vita agisce le sue dinamiche, quanto su un pensiero, una luce, una improvvisa e temporanea lacerazione di un velo
di Maya. Nella loro brevità, che appare essere del tutto funzionale e organica al pensiero dell'autore, le poesie di Lanfredi suggeriscono da un lato la
parziale visione dell'esistenza che ci è dato di vivere, la nostra impossibilità di vederci nella nostra totalità, dall'altro la vaghezza
autotelica anche di quel poco che riusciamo a vedere. In altre parole una schermaglia dialettica elusione/elisione tra realtà sfuggente e scrittura.
Tuttavia la poesia di Lanfredi non è rapsodica poiché non svaria tra le occasioni, al contrario segue un suo filo di pensiero, una necessità di
speculazione del piccolo per individuare il significato di qualcosa di più grande. Soprattutto sul versante emotivo della vita, nel trascorrere di un tempo
che, essendo come abbiamo detto istantaneo, si realizza per lo più in un quotidiano che Lanfredi dipinge bene e con pochi tratti nel suo inflessibile
riproporsi, nel suo "defluire scostante e senza tempo". Quel che c'è di "occasionale" assomiglia appunto ad uno sguardo che sfiora le cose per poi sfocare
e perdersi verso un orizzonte interiore. Si passa ad esempio nel testo dall'osservazione della pioggia ad una sete dell'anima, all'assenza di qualcosa o
qualcuno; o addirittura assomiglia a ciò che potremmo chiamare un " pensiero di pensieri", cioè un'idea, un'intuizione che rimanda subito ad una piccola
realizzazione epifanica, una impressione (usando qui un altro termine fotografico, e del resto anche l'autore in un punto parla di "istantanee
rubate"). E quasi sempre si segna un passaggio (o una fuga, se preferite) tra una realtà fisica ed quella interiore, non necessariamente una migliore
dell'altra ma che, ammettiamolo, ci trova partecipi come lettori. Tutti, in altre parole, abbiamo sperimentato questo disperdersi, questa perdita di
contatto, al seguito di una mente che aspira a riscrivere una realtà corriva.
Tutti questi passaggi sono veloci poiché, come abbiamo detto, la brevità di 10-12 versi liberi e asciutti è la forma della poesia di Lanfredi, il suo farsi
e il suo perimetro, la sua prassi e il suo stile, entro i quali mette in scena un linguaggio "moderato", per molti versi comune, che da questo punto di
vista potremmo definire "sociale", perché economico, efficiente e non esclusivo nei confronti di chi legge. Giacché io credo che Lanfredi abbia una
convinzione riguardo alla lingua poetica, e cioè che sia strumento - di evocazione più che di sperimentazione - abbastanza potente anche per quel che di
vago, impercettibile e sfuggente c'è nella nostra vita.
L'indefinito, o magari l'indefinibile, è infatti l'altra cifra della poetica di questo libro e forse uno dei suoi temi di fondo. E' quello che mi pare di
percepire scorrendolo: leggendo ci si accorge che è una poesia, questa di Lanfredi, che lascia sospese molte domande (dove, chi, cosa, quale,...) come se
ci si trovasse nel mezzo di una azione scenica già iniziata o gettassimo lo sguardo in un appartamento da un treno in corsa. Siamo spettatori di una
apparizione, non meno di quanto lo sia il poeta, che è il primo a denunciare (in sarebbe come accontentarsi) che "questa vita, poi, [...] appare /
e disappare con uno svaporìo / di indizi", una vita a sua volta disciolta in un fluidissimo tempo/spazio "nel giorno che potrebbe essere dovunque" (in con un tratto di linea i punti). A volte si avvertono, come al di là di una porta, frammenti di conversazioni con qualcuno (dici, avevi
detto,...), spesso senza replica di chi (l'autore) ne registra gli effetti come cerchi concentrici alle sponde di uno stagno (in i vetri, nella
sezione La pronuncia del nome), brani che il lettore è chiamato a ricomporre idealmente; altre volte, come per proustiane intermittenze, cose
minute (uno "slabbrato sentimento dell'istante", un "afferrare le chiacchiere frantumate", un "segno chiuso") precipitano nel giro di pochi versi in una
domanda capitale: "Che cosa faremo, quando non saremo?" (in il narrare del nostro fluire), oppure verso una conclusione apodittica e sconfortata,
un ribadito "Tutto qua" (in ultime notizie; e un altro testo, qua e alle pagine seguenti, esordisce con un identico "Tutto qui").
E' questo palesarsi, in sostanza, che attesta una realtà vissuta in maniera inquieta, proprio perché può essere còlta (e questo è un tratto di molta poesia
attuale) solo per sintomi, più che per cause e radici. Anche la catastrofe, e quindi il dramma, in ragione di quel che c'è di "eventuale"
nell'orizzonte poetico di Lanfredi, può essere insieme istantanea e minuta: "quante volte, la morte è poco più / che un passo non guardato?" magari
nascosta dietro "solamente un gioco di parole", si domanda il poeta (in lettera aperta). La scena è quella di una topografia incerta, anzi
"insicura" dice l'autore, quasi metafisica e insieme ermetico/crepuscolare (ma è poco importante definirne gli ambiti letterari), nella quale, in una sua
"crespa", le parole (o la loro mancanza) sconfinano e precipitano, mentre l'agire si invischia ("piace l'eterna indecisione della azioni", in inventario di una fine estate); o quella di "una stanza vuota (che) non si può dire vuota ma piena di niente" (in qua e alle pagine seguenti), ma che tuttavia vuota non è, anzi, per le ragioni che la poesia deve darsi, vuota non può essere.
Qui, insieme al poeta siamo anche noi, colpiti come mosche da questi segnali intermittenti e affascinanti, da questi istanti significativi; qui, in questa
stanza come mosche "trattenuti, come da un bicchiere capovolto". (g.c.)
Continua a leggere "Luca Lanfredi - Il tempo che si forma"
Venerdì, 11 settembre 2015
Dunque, come accennavo giorni fa, questo è il post n. 800. Che avrebbe dovuto coincidere - tanto per fare cifra tonda, dice il mio droghiere - con il decennale di Imperfetta Ellisse, giorno più giorno meno. Purtroppo la mia idea di mettere insieme un po' di contributi di amici non ha avuto riscontri, a parte due o tre volonterosi, che ringrazio di cuore ma pochi per farne un "numero speciale". Forse era chiedere troppo. In forza di ciò si è dimostrato che non è vero che il nostro sia un popolo di scrittori. Mi pare che sia essenzialmente di lettori, per lo più in attesa. Comunque non avevo bilanci particolari da fare. Il blog ha in termini di visite numeri significativi che non sto qui a snocciolare, oltre al gruppo su Facebook, con più di 600 iscritti a cui arriva regolarmente notizia degli aggiornamenti. Ovviamente non tutti gli articoli sono di una qualche qualità, come ironicamente suggerisce l'illustrazione qui accanto, ma non sono nemmeno tutte "palle", credo. E' sempre possibile dare un'occhiata all'archivio generale (v. QUI). Restano ancora oggi le perplessità - che ho espresso più volte - sull'utilità di tenere un blog di questo tipo nell'era dei social network, ma la cosa continua a piacermi, anche se mi sottrae un po' di tempo. Andiamo avanti e stiamo a vedere. Intanto ringrazio gli amici che quando possono seguono Imperfetta Ellisse. Un abbraccio a tutti.
Giovedì, 25 giugno 2015
Il prossimo settembre Imperfetta Ellisse compirà dieci anni di attività.
Non ricordo quante volte ho pensato di piantarla, perchè spesso è
faticoso mandare avanti un blog da solo (salvo qualche intervento di
amici a cui sono grato), e non poche volte appare del tutto inutile.
Senza contare il tempo che mi prende, per lo più a scapito di altre
attività più creative e forse più "egoistiche", tipo scrivere poesie
piuttosto che parlare di quelle di altri. Ma tant'è, siamo ancora qui.
Molti dei post che ho scritto appaiono oggi ingenui e forse risibili
(come forse erano gran parte dei blog di dieci anni fa, oggi scomparsi),
altri appaiono monchi perché ad esempio fanno riferimento tramite link a
cose che nel frattempo sono state spazzate via dalla rete. E' internet,
un luogo dove ti sembra di trovare tutto ma in cui niente dura
realmente.
Molti altri articoli mi sembrano invece ancora di qualche valore,
specie quelli in cui ho cercato di dare un'idea della poetica e di
quello che l'autore di cui parlavo stava facendo. Spero di essere stato
utile o almeno di avere innescato qualche riflessione nel diretto
interessato o in chi altri leggeva. Spesso non si trattava tanto
di esercitare una critica sul testo quanto di dare un'occhiata ai
meccanismi della poesia, che non di rado sono più interessanti
dell'opera in questione, e del suo autore. Qualcuno mi ha ringraziato (anche qualche
studente che cercava spunti in rete), qualcun altro ha evitato
accuratamente di rispondermi.
Ma non volevo star qui a fare bilanci, semmai li farò a settembre. L'idea era un'altra. Come ho scritto nel titolo, quello che mi
piacerebbe è una specie di richiamo in servizio, o meglio una richiesta di intervento,
anche solo per questa unica occasione. Qualsiasi cosa, da parte di chi
in qualche modo segue il blog (e non sono pochi) e se la sentisse: un'idea di poetica, un
minisaggio, una teoria, una contestazione, un manifesto, un ricordo, una poesia
memorabile (ma dicendo perché lo sia). Anche un vaffa purché
poeticamente espresso. Potrebbe uscirne qualcosa di interessante. Oppure niente, chi lo sa. Non c'è scadenza. Grazie. (g.c.)
Domenica, 20 luglio 2014
Continua e si conclude - spero solo per il momento - l'affettuosa e competente attenzione che Raymond Farina ha prestato alla traduzione in francese di alcune mie poesie di qualche anno fa. Questa volta sono pubblicate sulla rivista on line Recours au poème (v. QUI) diretta da Matthieu Baumier, un sito di notevole interesse dedicato esclusivamente alla poesia, francese ed estera. Ringrazio Baumier per l'ospitalità e l'amico Raymond per questa ennesima fatica. La altre traduzioni di Farina potete trovarle, se volete, a questo TAG.
Mercoledì, 19 giugno 2013
Daniele Santoro ha pubblicato sul n. 55 della rivista "I fiori del male" (Maggio - Agosto 2013) una sua lettura della mia piccola raccolta "Camera di condizionamento operante", edito da L'Arca Felice nel 2009. Una recensione precisa e acuta, in cui Daniele, che ringrazio sentitamente, ha colto molti punti essenziali. Ricordo agli amici che seguono Imperfetta Ellisse che è possibile scaricare una copia digitale (in formato epub o pdf) dall'area download (v. barra laterale destra). Non so se l'editore dispone ancora di qualche copia cartacea.
Mercoledì, 6 marzo 2013
Dopo i testi apparsi su Les Carnets d'Eucharis, tradotti in francese dal poeta Raymond Farina (v. QUI), quattro altre mie poesie, sempre nella versione francese di Farina, sono apparse sul n.58 (autunno - inverno 2012, dedicato all'artista Gérard Titus-Carmel) della rivista di letteratura "Diérèse", fondata e diretta da Daniel Martinez. Ringrazio ancora una volta Raymond Farina per la sua empatica attenzione, il suo impegno nonché la sua estrema gentilezza. I testi risalgono a vari periodi, tra il 1992 e il 2007, e sono, direi, abbastanza diversi da quanto ho scritto ultimamente, ad esempio nell'ultimo libro che ho pubblicato, "Diario estivo e altre sequenze".
Fine turno
L'amaro in bocca non è neanche fiele ma la polvere delle carte l'ondeggio della polvere in un sole che però è fuori e questo amaro non è neanche un facile cucchiaio d'argento non è medicina ma è tempo che cola come filo spinato l'intollerante tempo ragazzo di quando c'è il sole fuori e il desiderio è oltre i vetri doppi - altrove - . . . E' la realtà quella? Fuori la realtà forse fuori l'immaginazione si incontrano in un prato vero finché desiderato a lungo, forse in una ragazza d'autunno aeroplani di noia lanciati aspettando il fine turno mentre la polvere delle carte si posa il bianco di esse ingiallisce come il sole di fuori stanco così reale perché aspettato così a lungo...
Fin de roulement
L'amertume dans la bouche n'est même pas le fiel mais la poussière des papiers le flottement delà poussière dans un soleil qui est cependant dehors et cette amertume n'est même pas une banale cuiller d'argent n'est pas remède mais temps qui passe comme fil barbelé l'intolérant temps adolescent de quand il y a le soleil dehors et le désir au-delà des doubles vitres - ailleurs -... Est-ce là la réalité? Dehors la réalité peut-être dehors l'imagination se rencontrent dans un pré vrai tant qu'on le désire longtemps, peut-être dans une jeune fille d'automne des petits avions d'ennui lancés en attendant la fin du roulement alors que la poussière des papiers se dépose leur blanc jaunit comme le soleil de dehors las si réel parce qu'attendu si longtemps...
Continua a leggere "Altre quattro mie poesie tradotte in francese"
Lunedì, 10 dicembre 2012
Ieri su La Lettura del Corriere della Sera è uscita una recensione di Roberto Galaverni di "La fine del Mondo", l'antologia di testi di Ghérasim Luca edita da Joker, a cura di Alfredo Riponi, traduzioni di A.Riponi, R.R.Florit e G. Cerrai.
"Bisognerebbe forse avere in mente le pagine di Emile Cioran sulla calcificazione, il fanatismo grammaticale, la monumentalità della lingua francese, prima di avvicinarsi alle poesie di Ghérasim Luca, lo scrittore romeno espatriato in Francia nel 1952 e scomparso nel 1994, quando, proprio come il suo più illustre conterraneo Paul Celan, pose fine alla sua vita gettandosi nella Senna. L'antologia La Fine del mondo costituisce il suo primo volume di versi tradotto in italiano direttamente dal francese, una lingua che Luca, nato nel 1913 da una famiglia ebrea askenazita e di lingua yiddish (ma anche romena e tedesca), scelse di adottare molto prima dell'espatrio, e non per garantirsi una patria e un'appartenenza linguistica nuove, quanto per testimoniare nella più codificata e inesorabile delle lingue la condizione di radicale, ontologica estraneità dell'uomo al mondo che gli è dato". (continua a leggere QUI)
Venerdì, 24 agosto 2012
Sono uscite, tradotte in francese, quattro mie poesie su Les Carnet d'Eucharis (v. QUI). Ringrazio sentitamente Nathalie Riera, che gestisce questa bella rivista di letteratura on line, e il poeta Raymond Farina, che ha tradotto questi testi (e altri qui non pubblicati) con molta sensibilità. Farina è autore di oltre venti raccolte di poesia, nonchè di numerose pubblicazioni in rivista e su siti on line, anche italiani. E' inoltre traduttore dall'inglese (Cummings, Stevens, Gluck, Levertov, Mc Hugh, Roetke e altri), dallo spagnolo, dal portoghese, nonchè dall'italiano (Anedda, De Palchi, Carifi, D'Elia, Ermini, Lamarque, Magrelli, Raboni, Marotta e molti altri).
Lunedì, 11 giugno 2012
Bene, alla fine ce l'ha fatta. Il libro "La fine del mondo - Poesie 1942 - 1991" di Ghérasim Luca, a cura di Alfredo Riponi, con traduzioni di A. Riponi, Rita Regina Florit e Giacomo Cerrai, è finalmente uscito per i tipi delle Edizioni Joker, collana "Libri dell'arca" (v. QUI). Un autore importante e difficile, che costituisce sempre una sfida interpretativa e traduttiva, impone un ascolto costante e scelte a volte ardue, ma che restituisce una esperienza poetica assoluta.
La poesia di Ghérasim Luca è un “ondeggiamento” del pensiero, che raccoglie l’eredità filosofica e letteraria della modernità e la sovverte. Quest’antologia offre, per la prima volta al lettore italiano, la possibilità di entrare nell’universo creativo di Ghérasim Luca (1913-1994) attraverso un percorso poetico di grande suggestione, che raccoglie i testi di più forte impatto emotivo (Il sogno in azione, Al limitare d’un bosco), senza tralasciare i classici dei suoi recitals (Quarto d’ora di cultura metafisica), le prime prose poetiche surrealiste (Un Lupo attraverso una lente) e quello che può essere considerato il suo manifesto poetico, inedito in volume (Il beccheggio della mia lingua). Il titolo scelto per l’antologia La Fine del mondo riprende quello del libro uscito nel 1969, dove si trovano testi che costituiscono, secondo le parole di Ghérasim Luca, «un’arte erotica» della poesia. Nel poema Il suo corpo leggero c’è un’unica domanda ripetuta da un capo all’altro del testo - è la fine del mondo? - che indica la fragilità dei rapporti tra l’uomo e quel che lo circonda.
Testi di Ghérasim Luca su Imperfetta Ellisse QUI
Book-trailer di 19 pag, con estratti QUI
Giovedì, 20 ottobre 2011
Su GAMMM un mio "testo", A tribute to John Cage, ispirato al celebre brano 4'33''
del compositore americano. Può essere "letto" (o suonato, se preferite)
a piacere, cliccando sul logo. Ringrazio Marco Giovenale, Michele
Zaffarano e C. per l'ospitalità.
“Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33
come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”.
Chiunque di noi, compresi tutti coloro che non hanno mai preso uno
strumento in mano, lo può eseguire magistralmente. Perché? La domanda è
più che legittima. Basta indossare un abito da concerto (giusto per
entrare meglio nella parte dell'esecutore) e accomodarsi al pianoforte
per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché.
L'esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve
fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica” che viene creata dai
rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse,
scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall'esterno. Cage
ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una
stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì uno
sente almeno il proprio battito cardiaco). Il silenzio sarebbe da
intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4.33
si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il
pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.
“Sentivo
e speravo – diceva Cage – di poter condurre altre persone alla
consapevolezza che i suoni dell'ambiente in cui vivono rappresentano una
musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e
ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora.
Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto
musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo,
radicalmente l'atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad
ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O,
altrimenti detto: è l'intenzione di ascolto che può conferire a
qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un'altra
definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare
qualcosa che non sia musica è musica”. Un virtuoso “rumoroso” come
Yehudi Menuhin, quando era presidente dell'International Music Council
dell'Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica
fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio.
Una
rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha
messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione nel porre la
musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò
venisse motivato da alcun genere di idealismo. La poetica di Cage si può
inserire in quel filone dell'arte figurativa dell'astrattismo gestuale
di Pollock, Kline, De Kooning. E se 4.33
non contiene alcun suono, Robert Rauschemberg ha realizzato dei
dipinti, semplicissime tele bianche, che non contengono alcuna immagine
(“questi dipinti diventano aeroporti per le particelle di polvere e le
ombre che sono presenti nell'ambiente), mentre il compositore coreano
Nam June Paik ha girato un film della durata di un'ora, che non contiene
immagini, e Dieter Schnebel ha concepito la Muzik zum Lesen
(musica da leggere), partiture che non sono destinate all'ascolto o
all'esecuzione, ma alla lettura. Tutto ciò, da diversi punti di vista
dunque, ci riporta alla concezione del silenzio di Cage: “Per me il
significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi
intenzione”, una rinuncia alla centralità dell'Uomo, il che implica
l'eliminazione totale del gusto, del ricordo, e del desiderio, una
regressione e una rinascita all'innocenza.
Il
silenzio (“i suoni se ne stanno nella musica per rendersi conto del
silenzio che li separa”), la filosofia zen, l'identificazione dell'arte
con la vita (“la mia opera è intesa come dimostrazione della vita”), il
ricorso alle tecniche aleatorie e casuali (con l'antico metodo cinese
dell'I-Ching) volte a eliminare l'aspetto soggettivo del processo
compositivo, l'apertura totale nei confronti del sonoro (“ora non ho più
bisogno di un pianoforte: ho la 6th Avenue con tutti i suoi
suoni”), la passione per Marcel Duchamp (“gli scacchi non erano altro
che un pretesto per stare con lui”), per i funghi (partecipò anche a un
quiz di Mike Bongiorno), per l'astronomia (per la stesura della
partitura di Atlas Eclipticalis, ha usato un atlante astronomico, traducendo la posizione delle stelle in note), per la Finnegan's Wake di
James Joyce, ne fanno una delle figure creative più originali ed
aperte, ancora da scoprire sotto certi aspetti, del secolo appena
trascorso. (Helmut Failoni – L'UNITA' – 08/04/2002)
Che c'entra tutto ciò con la poesia, sopratutto con quella "da fare"? C'entra parecchio, se ci si riflette un po'...
Giovedì, 12 maggio 2011
L'autoritratto non si confronta più con Narciso né con la profondità psicologica con la quale il pittore attraverso la vista scruta la propria anima e i colpi della vita sulla propria faccia (la drammatica serie degli autoritratti di Rembrandt, l'autoritratto del 1988 (vedi) in cui Robert Mapplethorpe raffigura sè stesso davanti alla morte ecc.). Cartier-Bresson che allunga la propria ombra nella campagna di Provenza in una foto del 1999 (vedi) offre una forma di snobismo nel defilarsi. Lui non c'è, nella foto, o meglio c'è solo la sua ombra, e tuttavia sappiamo che c'è, per via della forza autoriale (e autografa, nel senso pieno) della foto stessa. Poiché, come dice R. Barthes, "ogni fotografia è un certificato di presenza". Il punto è: presenza dove? di fronte a cosa? in quale ruolo e con quale identità? Se Narciso ha deluso sè stesso, l'autoritratto si confronta semmai con la materia, con luoghi/non luoghi, con attività dell'uomo chiuse o abbandonate, con altre culture, con i diversi livelli della realtà percepibile, con sè stesso come consumatore, come osservatore inane della natura, ecc. O con il mezzo fotografico stesso, ad esempio quando - come Cartier-Bresson, Mulas e altri - si usa quello che nella foto turistica è un errore (l'ombra del fotografo dentro l'inquadratura) come elemento descrittivo/linguistico, un "sè". In altre parole l'operatore, il fruitore, il soggetto (rispettivamente operator/spectator/spectrum, secondo Barthes) si confondono, a volte si sovrappongono, diventando inidentificabili, mischiando le carte del gioco (le informazioni, le emozioni). Sì, forse gioco è la parola giusta, come quello che potete vedere nel seguito di questo articolo. Del resto, come affermava Susan Sontag, le foto "sono incitamenti a fantasticare". Come dire, potrebbero essere l'inizio di una nuova opera d'arte, di una nuova immaginazione. Il che potrebbe valere anche per la poesia, se solo ci si ferma a riflettere su alcune delle considerazioni fatte sopra, ad esempio sulla "presenza" dell'autore all'interno dell'opera, o all'esterno, nei confronti della realtà circostante, dei suoi possibili "territori".
(continua qui)
Lunedì, 9 maggio 2011
Viviana Scarinci mi aveva chiesto tempo fa qualcosa sulle donne, per VDBD. "Qualcosa" sulle donne...si può immaginare un argomento più misterioso e sfuggente di questo? Una poesia, un racconto, una riflessione di qualche tipo? Non ne avevo la minima idea. Alla fine ho deciso di mandarle un vecchissimo testo che per molte ragioni avevo pensato di lasciare nell'ultimo cassetto, una specie di prologo di un romanzo che non scriverò mai. Una visione impietosa, impersonale e abbastanza oggettiva di come vanno certi rapporti tra uomini e donne. Per fortuna non tra tutti. Mi aspetto qualche polemica. Intanto ringrazio Viviana per la sua amichevole attenzione. Trovate il testo su Viadellebelledonne QUI.
Lunedì, 25 maggio 2009
Natàlia Castaldi ha voluto gentilmente pubblicare e commentare cinque miei testi sull'interessante blog di letteratura e pensiero "Filosofi per caso", che lei gestisce insieme ad Antonella Foderaro e Abele Longo. La ringrazio di cuore, anche di quello che ha scritto in quella sede.
<< Presentare delle poesie in modo oggettivo e distaccato, non filtrato dalla propria lettura è quasi impossibile e anche questa breve presentazione potrà apparire come una sorta di captatio benevolentiae nei confronti dell’autore.
Per raggirare l’ostacolo dell’ “ottica personale” voglio iniziare la mia lettura da una “chiusa” ad una sua poesia, che mi pare costituisca una vera e propria dichiarazione d’intenti:
“…
Io scrivo di un costante presente
che cola in stampi,
non alzo la testa,
rifletto un progressivo
mutare della materia,
annego negli stessi interstizi
del bianco
in cui la lingua non penetra.” >>
(continua a leggere qui)
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