Lunedì, 17 novembre 2014
Riflessioni sull'arte: da Grafemi di Giuseppe Zuccarino, Ed. Joker, 2007
Un libro interessante e godibile, inviatomi da Marco Ercolani se
ricordo bene, disperso colpevolmente in una catasta di libri. A parte di
ringraziare Marco, mi offre l'occasione di continuare a dare
un'occhiata, che come ho detto spesso è sempre utile a chi fa poesia, al
mondo delle arti, soprattutto plastiche e figurative. La scelta dei
brani si riferisce particolarmente a quello.
Zuccarino è uno scrittore che esercita un'arte ancor più minoritaria
della poesia, se questo è possibile, ovvero quella del frammento, del
pensiero zibaldonesco che partendo da un'idea si coagula con una
scrittura limpida e chiara in testi brevi e brevissimi e che spazia in
campi apparentemente diversi tra loro (arte, filosofia, critica
letteraria) ma che appartengono tutti ad un umanesimo raro e prezioso.
Il frammento, è bene dirlo, non ha niente di aforistico o apodittico,
assomiglia piuttosto a un saggio brevissimo o a qualcosa che sta ad esso
quanto il racconto sta al romanzo. La sua brevità è anche leggerezza e
velocità di "esecuzione", e sta in questo forse la sua principale
qualità e il suo valore oserei dire quasi didattico, insieme a quella di
"innesco" di una riflessione che il lettore può, se vuole, nutrire
ulteriormente, magari dissentendo. Poichè i frammenti, come dice
l'autore, "nel loro disporsi in serie, non mirano a conseguire l'unità
armonica di un discorso, ma semmai la pluralità dissonante di un
discordo", tra loro, e - ripeto - con il lettore. A cui il frammento "si
mostra per un attimo e, appena letto, ritorna nell'ombra", come "un
oggetto più simile alla superficie mutevole di un deserto sabbioso che
all'ordinato succedersi di un microcosmo di parole" (M. Ercolani nella
quarta di copertina). Ma l'importante è individuarne la qualità,
evitando ciò che lamenta lo stesso Zuccarino: "Capita oggi che i
frammenti non vengano più riconosciuti come tali, acquistando agli occhi
del lettore la rassicurante pacatezza della massima". (g.c.)
***
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Venerdì, 11 ottobre 2013
C'è una poesia ancora viva e vegeta in Italia che si rifà decisamente a
una tradizione che va dal Petrarca almeno a Leopardi, e forse lì si
ferma, dato che non è facile ritrovarci accenni non dico pascoliani o
carducciani, ma certamente non si arriva, tranne rare eccezioni
(soprattutto echi dei più grandi e perciò "inevitabili"), al secondo
Novecento. Una poesia tradizionale, dunque, ma niente affatto epigonica,
e forse nemmeno troppo lirica, che direi piuttosto coltivi una sua
natura filosofica, come di uno che scriva i suoi versi sollevando ogni
tanto lo sguardo dal foglio per lanciarlo al di là di una qualche siepe,
e tenendo d'occhio al contempo i suggerimenti che provengono da antiche
letture, per lo più classiche. Una poesia insomma umanistica, con
qualche piacevole autocompiacimento stilistico che si ritrova in ciò che
Mauro Ferrari chiama argutamente la "patina anticata di certi
costrutti", e che tuttavia sospetto che includa un certa dose di ironia.
Queste cose non le fanno i giovani, va da sé. Questo tipo di poesia ha
sempre in sé una componente "matura", almeno più nel senso della
fiducia in una cultura che implicitamente esprime, e quindi in quel che
dice, che nella convinzione un po' romantica di offrire delle
sensazioni "sorgive" al lettore. di essere mediatrice del bello. Se il
poeta è aedo o mediatore lo è - qui - con il mondo delle idee. Poichè,
sebbene spesso l'ispirazione o la molla del dettato sia un fatto
semplice o una mera contemplazione della natura, il poeta di cui stiamo
parlando non si sente il depositario di un dono da trasferire, ma
semmai di un impegno a capire, a fare della poesia uno strumento
elettivo di speculazione. E' naturale quindi che spesso la poesia
contenga in sé o nella chiusa almeno una domanda (in cauda quaesitum,
potremmo dire) che riguarda universalmente l'uomo, piuttosto che (*)
una certificazione - come se ne legge troppe - dell'esistenza in vita
del poeta medesimo. E' anche - quasi naturalmente - poesia assertiva e
conservativa (non conservatrice), giacchè è denotata insieme e
convintamente da una delicatezza di esposizione in cui primeggia una
attenta scrupolosa selezione linguistica e da una scala di valori etici e
culturali in cui il poeta dimostra di credere, e che vanno pertanto
rispettati.
Il poeta di cui sto parlando è Ubaldo De Robertis,
classe 1942, pisano di adozione e di formazione scientifica ma
marchigiano di nascita, che leggo in un paio di raccolte, "Diomedee"
(Joker 2008), che preferisco, e "Se la luna fosse...un aquilone" (Limina
Mentis 2012), che coprono un ampio ventaglio di esperienze di vita e di
"impressioni". Di quel che dice Mauro Ferrari nei risvolti di
"Diomedee" mi sentirei appunto di sottoscrivere l'accenno a una "matrice
impressionista che secondo modalità tipicamente romantiche viene a
costituire lo sfondo si cui l'Io si muove", ma con l'avvertenza, a mio
avviso, che qui il romanticismo è temperato da una inquietudine
modernamente wertheriana (quel che cerca il poeta è un "innamoramento",
una riconciliazione costante con la vita), e che l'Io, nel vasto sfondo
delle idee, è più defilato di quanto la sua presenza per così dire
grammaticale faccia supporre. Ma sia che De Robertis parli d'amore o
della luna, di un ragno o di un presagio, i fenomeni o gli epifenomeni
vengono alla fine smascherati nella loro essenzialità da una coscienza
affatto poetica, che non sospende il giudizio, senza che tuttavia (e qui
sono d'accordo con Emilio Sidoti nella sua articolata prefazione a "Se
la luna fosse...") l'occhio analitico dello scienziato, l'acribia
dell'amante della parola precisa e culta raffreddi la carica
metaforica delle cose o appesantisca il dettato. E' forse per questo che
la nota di fondo di questa poesia è una intrigante antinomia tra due
elementi entrambi veri, una certa "facilità" di lettura (di testi anche
talvolta apparentemente semplici, musicali) e la persistente sensazione
che ci sia rimasto ancora qualcosa, qualcosa di malinconicamente
serrato, da capire. (g.c.)
(*) nota bene: qui "piuttosto che" è usato nella corretta maniera disgiuntiva.
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Lunedì, 10 dicembre 2012
Ieri su La Lettura del Corriere della Sera è uscita una recensione di Roberto Galaverni di "La fine del Mondo", l'antologia di testi di Ghérasim Luca edita da Joker, a cura di Alfredo Riponi, traduzioni di A.Riponi, R.R.Florit e G. Cerrai.
"Bisognerebbe forse avere in mente le pagine di Emile Cioran sulla calcificazione, il fanatismo grammaticale, la monumentalità della lingua francese, prima di avvicinarsi alle poesie di Ghérasim Luca, lo scrittore romeno espatriato in Francia nel 1952 e scomparso nel 1994, quando, proprio come il suo più illustre conterraneo Paul Celan, pose fine alla sua vita gettandosi nella Senna. L'antologia La Fine del mondo costituisce il suo primo volume di versi tradotto in italiano direttamente dal francese, una lingua che Luca, nato nel 1913 da una famiglia ebrea askenazita e di lingua yiddish (ma anche romena e tedesca), scelse di adottare molto prima dell'espatrio, e non per garantirsi una patria e un'appartenenza linguistica nuove, quanto per testimoniare nella più codificata e inesorabile delle lingue la condizione di radicale, ontologica estraneità dell'uomo al mondo che gli è dato". (continua a leggere QUI)
Lunedì, 11 giugno 2012
Bene, alla fine ce l'ha fatta. Il libro "La fine del mondo - Poesie 1942 - 1991" di Ghérasim Luca, a cura di Alfredo Riponi, con traduzioni di A. Riponi, Rita Regina Florit e Giacomo Cerrai, è finalmente uscito per i tipi delle Edizioni Joker, collana "Libri dell'arca" (v. QUI). Un autore importante e difficile, che costituisce sempre una sfida interpretativa e traduttiva, impone un ascolto costante e scelte a volte ardue, ma che restituisce una esperienza poetica assoluta.
La poesia di Ghérasim Luca è un “ondeggiamento” del pensiero, che raccoglie l’eredità filosofica e letteraria della modernità e la sovverte. Quest’antologia offre, per la prima volta al lettore italiano, la possibilità di entrare nell’universo creativo di Ghérasim Luca (1913-1994) attraverso un percorso poetico di grande suggestione, che raccoglie i testi di più forte impatto emotivo (Il sogno in azione, Al limitare d’un bosco), senza tralasciare i classici dei suoi recitals (Quarto d’ora di cultura metafisica), le prime prose poetiche surrealiste (Un Lupo attraverso una lente) e quello che può essere considerato il suo manifesto poetico, inedito in volume (Il beccheggio della mia lingua). Il titolo scelto per l’antologia La Fine del mondo riprende quello del libro uscito nel 1969, dove si trovano testi che costituiscono, secondo le parole di Ghérasim Luca, «un’arte erotica» della poesia. Nel poema Il suo corpo leggero c’è un’unica domanda ripetuta da un capo all’altro del testo - è la fine del mondo? - che indica la fragilità dei rapporti tra l’uomo e quel che lo circonda.
Testi di Ghérasim Luca su Imperfetta Ellisse QUI
Book-trailer di 19 pag, con estratti QUI
Venerdì, 11 marzo 2011
Riprendo volentieri questi testi da un libro di Luigi Cannillo che risale al 2005:Come mai questo silenzio dopo i ruggiti e i traffici notturni il tempo cosi carico fermato alla periferia del giomo Sarò io a immergere per primo il cucchiaio nel vuoto e deglutire E' il momento instabile nel quale filano zucchero nelle miniere in cielo esplodono fasce di raso Una rete di lampi intanto si sta annodando attomo ognuno isola muta la parola trattenuta da una fionda come aereo di carta 0 tuono
La stuoia di granturco stesa senza ostacoli fino all’orizzonte Corre l’estate d’ombre uniformi sull’unica pianura Vietati miraggi le illusioni eppure non cancellano speranza di avvistare finalmente dalle rogge scintillante improvviso un parabrezza Implorano un motore scagliato nella quiete prevalere su oche e cicale Da un margine invisibile per la luce assoluta di giugno si sgretola l’attesa in abbandono Resterà vigile di guardia nella gola il grido di saluto alla catena pronto allo scatto ad altri azrivi Anche contando foglia a foglia ogni filare sull’aia ad essiccare ciò che si attende invano non matura interessi e non si estingue
Te lo lascio vicino uno spicchio alla volta diceva uscendo carica di sporte e dispiacere Voci custodi di orchestre e notiziari alla radio mentre la sveglia segna spicchi di tempo e li racconta Fuori pare notte fonda trapunta da clacson e finte stelle finché precipita il ritardo accumulato i fiori si rovesciano dalle pareti al cuscino A fronte calda allaga sicura solitudine Niente paura passeranno porzioni di male e mandarino oltre lo stipite della sera nuovo agrodolce altro abbandono la scansione delle convalescenze L’ora che s’inabissa ruota gli occhi dal provvisorio dormiveglia al giro di lancette di domani
Continua a leggere "Luigi Cannillo - da Cielo privato"
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