Sabato, 5 maggio 2012
Ospito qui con grande piacere un articolo di Alessandro De Caro (che ringrazio molto) su Maurice Blanchot e sulla traduzione. Come ho già detto altre volte, è sempre interessante e fecondo, anche per il lavoro di scrittura poetica e non, gettare uno sguardo sul pensiero filosofico e ermeneutico (v. ad es. QUI), esattamente come la filosofia ha sempre osservato con grande attenzione la poesia, riconoscendola come "sorella" (basti pensare a Heidegger e Gadamer con Celan o Holderlin, Rilke, Trakl), senza contare le occasioni in cui la filosofia ha trovato nella poesia un magnifico specchio, come in Leopardi. Ma a parte queste considerazioni en passant mi auguro che l'articolo possa aprire una discussione, non solo sulla natura "tecnica" della traduzione ma anche sulla sua implicita natura creativa e speculativa.
Blanchot: sulla traduzione
a cura di Alessandro De Caro
“Siamo consapevoli di quel che dobbiamo ai traduttori e, ancor di più, alla traduzione? Ne siamo poco consapevoli. E anche se nutriamo gratitudine per
gli uomini che con coraggio si fanno strada in quell'enigma che è il compito del tradurre; anche se, legati ad essi e docilmente sottomessi al loro
zelo, li salutiamo da lontano come i signori nascosti della nostra cultura, tuttavia la nostra riconoscenza rimane inespressa e un po' disdegnosa – per
umiltà del resto, da che non siamo in grado di essere loro riconoscenti. Prendendo le mosse da un bel saggio di Walter Benjamin, tradotto (a sua volta)
recentemente, nel quale questo eccellente saggista ci parla del compito del traduttore, vorrei tracciare alcune note su questa forma della nostra
attività letteraria, forma per altro del tutto originale; se infatti si continua a dire, a torto o a ragione: qui ci sono i poeti, là i romanzieri,
quindi i critici, tutti responsabili del senso della letteratura, bisognerebbe annoverare allo stesso titolo anche i traduttori, scrittori della specie
più rara e decisamente non comparabili”.
Così inizia l'articolo che Maurice Blanchot pubblicò sulla Nouvelle Revue Française nel 1960. L'occasione era la recente pubblicazione delle Ouvres choises di Walter Benjamin (ed. Julliard), ma Blanchot, com'è suo solito, produce ben altro che una recensione: collocando la figura del
traduttore al centro sia del mito letterario che della filosofia, ci lascia delle coordinate per pensare il rapporto tra le lingue e, più in generale,
il senso della letteratura per come già emerge in opere quali Lo spazio letterario (1955) o Passi falsi (1943).
Continua a leggere "Maurice Blanchot: sulla traduzione"
Mercoledì, 7 maggio 2008
Sempre nel tentativo di gettare uno sguardo (v. ad esempio qui)sulla relazione, secondo me mai abbastanza stretta, tra poesia e pensiero, anche filosofico, pubblico qui un saggio di notevole valore di Lorena Zaccagnino dedicato a Yves Bonnefoy. L'articolo è tratto da Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 2 (2000), che ringrazio.
Yves Bonnefoy, un poeta fenomenologo
1. La resistenza alla concettualizzazione e l'apertura alla speranza. L'elogio della menzogna
«Je voudrais réunir, je voudrais identifier presque la poésie et l'espoir».(1) Con queste parole Yves Bonnefoy apre il saggio L'acte et le lieu de la poésie, precisando, però, l'esistenza di due tipi di poesia e di speranza. Individua una prima forma di poesia, chimerica e menzognera, che coltiva la speranza di strappare l'oggetto nominato al tempo, allo spazio, alla materia, per salvarne soltanto l'essenza. Questa poesia, che Bonnefoy definisce divine, dimentica la consunzione e il disfacimento dei corpi, abolisce l'infection de ce qui se perd nella speranza che almeno la scrittura divenga un assoluto in cui poter trovare riposo. La parola poetica acquieta l'uomo angosciato dal nulla e diventa la sua consolazione illusoria, uno spazio miracolosamente non corruttibile. Eppure questa poesia, che sembra dimenticare la morte, accoglie la negazione che le è propria. Quest'ultima osservazione di Blanchot sottolinea il tentativo della scrittura di disfarsi della realtà, la rinuncia del poeta al suo muoversi nel mondo:
le mauvais espoir est celui qui passe par l'idéal -- le ciel de l'idée, la beauté des noms, le salut abstrait du concept.(2)
Questo primo tipo di poesia offre dunque lo stesso illusorio riposo in un «lieu préservé»(3) che promette il «concept». Molti degli scritti di Bonnefoy denunciano il potere incantatorio e malefico del concetto, che è la nozione astratta di un sentimento, o di un evento, la quale seduce poiché offre una «demeure éternelle»: (4) una dimora incorruttibile e trasparente per il pensiero. Richard nota che «la primitive opacité des choses se mue peu à peu en transparence»: (5) il concetto è in grado di acquietare perché muta gli urti che l'esistenza produce e gli stravolgimenti del caso in un equilibrio armonioso, in un «calme discours», secondo le parole dello stesso Richard. Tuttavia questa pace armoniosa può offrirla soltanto l'astrazione, non l'esperienza vissuta, opaca, che Bonnefoy scorge in una foglia d'edera maciullata, segnata dal tempo che l'ha incisa, dalla violenza a cui l'ha sottoposta la vita. Il concetto di foglia è un tradimento della realtà particolare di quella foglia, e dell'Erlebnis che l'ha solcata. Il «concept», così come il primo tipo di poesia individuata da Bonnefoy, oppone un rifiuto all'Erlebnis, a quella che il poeta chiama presenza: il concetto è «le grand refus» (6) dell'esistenza, che comporta anche un'inibizione dello slancio e della passione, oltre che una protezione dagli eventi tumultuosi, e
quand il n'y a plus de désirs, d'errements ou de passions, même le vent et le feu ne sont plus réels, la demeure d'absence est grandie aux proportions de ce monde. (7)
Continua a leggere "Yves Bonnefoy, un poeta fenomenologo"
Giovedì, 11 ottobre 2007
Nella convinzione che la poesia non sia solo (o forse non sia più) una attività autogenerantesi, un frutto dell'ispirazione, un impeto che proviene da dentro, ma anche (o forse sopratutto) una meditazione, uno sforzo di comprensione e di lettura del mondo, una riflessione filosofica sull'uomo, la realtà, il loro linguaggio, ho tentato più di una volta di inserire nel blog qualche spunto di riflessione (o di "disturbo" rispetto al mero scorrere della versificazione, mia o di altri). Non ho la minima idea se la cosa abbia avuto riscontri, perchè a parte la conta degli accessi, non ci sono stati commenti significativi (e sospetto che questo dipenda più dalla fretta che ormai domina sui blog che da altro). Ma a parte ciò resto nella convinzione che valga la pena soffermarsi a leggere, magari velocemente, parole di altri. L'ho fatto ad esempio con Geoffrey O'Brien su Eliot (qui), con Fortini (qui), con Jervolino su Steiner e la traduzione (qui), oltre a riflessioni mie, come ad esempio qui e qui. Lo faccio anche ora ripubblicando una sintesi, di cui ringrazio l'autore Diego Fusaro, del pensiero di Hans Georg Gadamer, il padre dell'ermeneutica moderna, su poesia e verità. Segnalo anche, per completezza, il bel post di Francesco Marotta su "La poesia e lo spirito" del 13 maggio scorso (qui), con i relativi interessanti commenti.
IL TESTO
Lunedì, 3 settembre 2007
"Parole per il nuovo anno": "Tradizione e talento individuale” di T. S. Eliot
di Geoffrey G. O'Brien (*)
La memoria rigetta e dissecca
Un ammasso di cose distorte;
Un ramo curvo sopra la spiaggia
Tutto consunto e polito
Come se il mondo portasse in superficie
Il segreto del suo scheletro,
Rigido e bianco.
“Rapsodia su una notte ventosa”
...c’è solo un momento
Trascurato, il momento dentro e fuori del tempo,
L’attimo di distrazione, perso in un raggio di sole,
Il timo selvatico non visto, o il lampeggiare dell’inverno
O la cascata, o musica così profondamente ascoltata
Che non è udita affatto, ma tu sei la musica
Finché la musica perdura.
“The Dry Salvages”
Continua a leggere ""
Martedì, 29 maggio 2007
Ripropongo qui su Imperfetta Ellisse un importante articolo di Domenico Jervolino, già apparso sul n.2/2002 della rivista telematica di critica filosofica Kainòs (www.kainos.it), che presenta molti interessanti spunti di riflessione, anche e sopratutto, io credo, da un punto di vista poetico e critico. Perchè? Direi in primo luogo perchè nel rapporto che Jervolino stabilisce tra ermeneutica e interpretazione/traduzione (qui nel senso proprio di trasposizione da un sistema linguistico all'altro) si può ritrovare una strada percorribile con qualche vantaggio sia nell'atto di effettivamente tradurre nel senso pieno del termine, sia nel tentativo di comprendere (criticamente o come semplice lettore per quanto avveduto) un autore appartenente al nostro stesso ambito culturale. E quindi (e in secondo luogo) di superare, o meglio rendere culturalmente dinamica, quella doppia Babele (linguistica e di senso) a cui lo stesso Jervolino accenna (in effetti l'autore di riferimento di questo articolo è proprio George Steiner e il suo celebre "After Babel"). Dal punto di vista della critica (e della lettura) penso che possa essere condivisibile il processo descritto da Jervolino, citando Steiner: un atto di fiducia inziale nei confronti dell'opera, un accostarsi che paradossalmente può anche risolversi nella constatazione che non ne valeva la pena; un atto di "incursione e estrazione", con il quale si tenta di "aprire" l'opera per cavarne un significato, che poi porta a una "comprensione", ovvero "all'incorporazione dell'altro nel nostro mondo linguistico e culturale" e anche, direi, nel nostro sistema semantico. E' ovvio che nella traduzione, così come nella lettura critica, quella che si consegue è una serie di approssimazioni tendenzialmente perfettibili, o di tentativi di ricomposizione del senso altrui in un proprio senso, a maggior ragione per quanto riguarda la poesia, l'arte più decisamente connotativa e polisemica.
IL TESTO
Segnalo anche, sulla rivista Sinestesie - maggio 2004, il divertente racconto "La Traduzione" dello scrittore spagnolo Andrés Neuman, a cura di Andrea Perciaccante
|