Che cosa pensano i poeti quando non pensano alla poesia? Bè, non hanno la testa tra le nuvole, come crede la gente. Se sono intellettuali non organici, anzi decisamente rompiscatole, quasi sicuramente pensano ai perchè e ai come ci siamo ritrovati in certe situazioni, alla necessità di combattere una lotta di resistenza in difesa della cultura. Al perchè ad esempio la nostra capacità critica è stata progressivamente e artatamente ridotta ai minimi termini, procurando una vera mutazione antropologica, una reale perdita di realtà (mi si passi il bisticcio). E' ciò di cui parla in questo breve saggio Bernard Noël, uno dei poeti francesi più noti e impegnati, di cui IE ha a suo tempo pubblicato qualcosa (v. qui). Anche se risale al 2006, come si nota da qualche riferimento alla cronaca francese del tempo, esso mantiene tutta la sua drammatica attualità ed è un buon esempio di letteratura applicata che non rinuncia a gettare uno sguardo critico sull'esistente. Il testo è tratto dal sito progettogeum.org di Lino Cannizzaro, che ringrazio. La traduzione è di Viviane Ciampi.
Ecco qua l'ultima parte (se non erro) del mini saggio dedicato da Roland Barthes alla poetica dell'haiku e alle questioni di senso e significato correlate, pubblicato nel suo noto libro "L'impero dei segni". Le precedenti "puntate" le trovate qui
TALE
Il lavorio dello haiku consiste nel fatto che l'esenzione del senso si compie attraverso un discorso perfettamente leggibile (contraddizione negata all'arte occidentale, che non sa contestare il senso che rendendo incomprensibile il proprio discorso), di modo che lo haiku non si rivela ai nostri occhi né eccentrico né famigliare: assomiglia a tutto e a nulla. Leggibile, lo riteniamo semplice, prossimo, conosciuto, gustoso, delicato, «poetico», in una parola offerto a tutto un gioco di aggettivi rassicuranti; insignificante, però, esso ci resiste, sfugge alla fin fine gli aggettivi che un momento prima gli avevamo attribuito ed entra in quella sospensione di senso che ci risulta cosa inattesa, perché rende impossibile l'esercizio più corrente della nostra parola, che è il commento. Che cosa dire di questo haiku?
Brezza primaverile
II battelliere mastica
la sua pipa;
oppure di questo:
Luna piena
E sulle stuoie
L'ombra di un pino;
o ancora:
Nella casa del pescatore
L'odore del pesce secco
E il calore;
o ancora (e non infine, perché gli esempi potrebbero essere innumerevoli):
Soffia il vento d'inverno
Mandano lampi
Gli occhi dei gatti.
Pubblico qui la terza parte delle riflessioni, non solo semiologiche ma anche linguistiche e filosofiche che Roland Barthes dedicò all’haiku nel suo noto libro “L’impero dei segni”. le altre "puntate" sono state pubblicate qui e qui
L'INCIDENTE
L'arte occidentale trasforma l'«impressione» in descrizione. Lo haiku non descrive mai: la sua arte è anti-descrittiva, nella misura in cui ogni stadio della cosa è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza d'apparizione: istante letteralmente « intrattenibile», in cui. la cosa, pur non essendo già altro che linguaggio, diventa parola, passa da un linguaggio ad un altro, e si costituisce come il ricordo di questo futuro, per ciò stesso anteriore. Perché, nello haiku, non è soltanto l'evento propriamente detto che prevale
Vidi la prima neve
E dimenticai quel mattino
Di lavare il mio viso
ma anche ciò che a noi sembrerebbe aver vocazione di scena dipinta, di quadretto, come molti ne esistono nella pittura giapponese, per esempio questo haiku di Shiki:
Con un toro a bordo
Una piccola imbarcazione attraversa il fiume
Sotto la pioggia della sera
diventa o meglio non è che una sorta di rilievo assoluto (cosi come si recepiscono tutte le cose, futili o meno, nel pensiero zen), una piega leggera con cui viene pinzata, con un gesto veloce, la pagina della vita, la seta del linguaggio. La descrizione, genere occidentale, ha il suo corrispettivo spirituale nella contemplazione, inventario metodico di forme di attribuzione della divinità o di episodi del racconto evangelico (in Ignazio di Loyola, l'esercizio della contemplazione è essenzialmente descrittivo); lo haiku, al contrario, è articolato su una metafisica che non ha né soggetto né Dio, analogo al Mu buddista, al satorì zen, che non s'identifica assolutamente con la discesa illuminatrice di Dio, ma piuttosto con il «risveglio di fronte all'evento», scelta della cosa come accadimento e non come sostanza, attacco a quel bordo anteriore del linguaggio che è contiguo all'opacità (del resto tutta retrospettiva, ricostruita) dell'avventura (che accade al linguaggio più ancora che non al soggetto).
Pubblico qui la seconda parte delle riflessioni, non solo semiologiche ma anche linguistiche e filosofiche che Roland Barthes dedicò all’haiku nel suo noto libro “L’impero dei segni”. La prima parte è stata pubblicata qui
L'ESENZIONE DEL SENSO
Lo zen, nella sua completezza intraprende battaglie contro ogni prevaricazione del senso. È noto che il buddismo elude la via fatale di ogni asserzione (o di ogni negazione), raccomandando di non esser mai preda delle quattro proposizioni seguenti: questo è A,- questo non è A, - questo è ad un tempo A e non-A, — questo non è né A né non-A. Ora, questa quadruplice possibilità corrisponde al paradigma perfetto, quale l'ha creato la linguistica strutturale (A, - non-A, — né A né non-A [grado zero], A e non-A [grado complesso]); in altre parole, la via buddista è esattamente quella del senso ostruito: l'arcano stesso del significare, cioè il paradigma, è reso impossibile. Quando il sesto Patriarca da le sue istruzioni che riguardano il mondo, esercizio della domanda-risposta per meglio sconvolgere il funzionamento paradigmatico, raccomanda, qualora venga proposto un termine, di portarsi verso il suo termine opposto («Se, nel porvi domande, qualcuno vi interroga sull'essere, rispondetegli con il non-essere. Se vi interroga sul non-essere, parlategli dell'essere. Se vi fa domande sull'uomo comune, rispondetegli parlandogli del saggio, eccetera»), in modo da far apparire il ridicolo connesso allo scatto paradigmatico e al carattere meccanico del senso. Ciò che viene mirato (con una tecnica mentale la cui precisione, la pazienza, il raffinamento e la saggezza attestano sino a qual punto il pensiero orientale ritiene difficile la perenzione del senso), ciò che viene colpito è il fondamento del segno, cioè la classificazione (maya): costretto alla classificazione per eccellenza, quella del linguaggio, lo haiku opera però in previsione d'ottenere un linguaggio piatto, che nulla (come avviene immancabilmente con la nostra poesia) collochi su degli strati sovrapposti di senso, ciò che potremmo chiamare una «sfoglia» di simboli. Quando ci vien detto che fu il rumore della rana a risvegliare Bashò alla verità dello zen (anche se questo è un modo ancora troppo occidentale di parlare), si può intendere che Bashò scopri in questo rumore, non certo il motivo di un'«Ìlluminazione», di un'iperestesia simbolica, ma piuttosto la fine del linguaggio; c'è un momento in cui il linguaggio vien meno (momento ottenuto con grande sforzo d'esercizi) ed è proprio questa cesura senza eco che costituisce ad un tempo la verità dello zen e la forma, breve e vuota, dello haiku.
Ricominciamo a parlare di poesia, seriamente, con un saggio di Michel Deguy, uno dei poeti e filosofi francesi di maggior spicco. Un testo di non facile presa, denso di suggestioni e riferimenti culturali e filosofici, forse un po’ troppo impegnativo per un blog, ma senz'altro importante. Se non avete tempo di leggerlo accuratamente e di meditarlo, passate oltre, vi prego...
La traduzione è mia, con il colto e fondamentale apporto dell’amico Alfredo Riponi, che ringrazio pubblicamente.
La poesia fa male?
Questa affermazione ottativa (percepisco un voto e un dubbio in questa dichiarazione) fu il titolo, l’incipit, di una causerie di Paolo Fabbri una sera alla Casa degli scrittori.Io qui cerco di svilupparla, provando anche il suo contrario, o qualche altra modalità.
E so bene che l’affermazione suona anche (in primo luogo?) come un richiamo – alla tradizione. La poesia faceva male; fece male; sapeva far male. Potrebbe farlo ancora? Il tempo dei giambi e degli epigrammi è passato. Il tempo dei Châtiments. E da Archiloco a Voltaire, a Chénier, a Hugo, fu quello il tempo più lungo. Satirica o patriottica, assassina o bellicosa, canto di battaglia, di vittoria; invito all’omicidio, all’insurrezione; peana, ritornello guerriero, libello...la poesia armata, con l’elmo, con i suoi affondi metrici e il suo scudo d’Achille; ma anche acuminata, con la sua agudezza e i suoi concetti, nel boudoir di Celimene, o la pretura o la sala delle guardie...Lo so bene; ma vado a cercare in altre direzioni: anche quella del farsi male; e quella del non far male, per questa “occupazione la più innocente” (nella traduzione, qui, di Hölderlin); quelle dell’irritazione, della crudeltà, della privazione, della abdicazione...
Irritato, crudele, ascetico, rinunciante...In quale luce si pone lo stesso“soggetto lirico”?!
Vediamo.
Dell’irritazione
La questione non è la collera del poeta, fragile psiche (può capitare). Piuttosto: è la collera che mette il poeta in azione; è l’Iliade che comincia con la collera. Chiamiamo questa una emozione. Non una sensazione; né un umore tra altri, ma una disposizione rivelatrice. nell’altra tradizione, religiosa, è lo stesso Yaveh, che si irrita e ispira la collera del profeta. Ci sono altre emozioni potenti, certo, sconvolgimenti affettivi, Stimmungen – compassione, disgusto, amore. Prendo questa, la collera, per via di Omero e Orazio. Vatum irritabile genus. Per il resto, il problema non è di sapere chi comincia, se la gallina collerica o l’uovo irritante. Ma di strappare la poesia a una psicologia di poeta, il “lirismo” alla caratteriologia. La collera è oggettiva; questo non vuol dire che si oscilla dal soggetto all’oggetto; ma che si desoggettivizza il commento. Dunque, che cosa succede? Tutto questo (mi) irrita, l’essere si mette in collera e si scuote; io sono divinamente male! Si parlerà di modo d’essere che si affaccia su come è; di disposizione onto-logica, o rivelante. L’essere diventa – ciò che è, in “sé ”.In sé per sé. Riflessione dell’Essere; auto rivelazione. La collera mette in movimento il pensiero; il quale cerca di dire quel che ne è da quello che è, con un tono corrucciato. I filosofi parlano di un “esistenziale”. Io sono collera, si diceva. Oppure: la musa irrita il poeta -suscettibile, allora, perfino di andare in collera. Poi il discredito viene meno, dalla Musa divina alla suprema Allegoria: la Collera entità in un ersatz di culto politeista della retorica, ipotiposi vagamente idolatrata, virtù iraconda. Poi alla figura generica, nel momentodella scrittura, se volete.
Pubblico qui alcune delle riflessioni che Barthes scrisse intorno all’haiku nel suo celebre libro “L’impero dei segni”, dedicato alla cultura giapponese. "Perché il Giappone? perché è il Paese della scrittura: fra tutti i Paesi conosciuti, è in Giappone che ho incontrato la pratica del segno più vicina alle mie convinzioni e ai miei fantasmi, o, se si preferisce, più lontana dai disgusti, irritazioni e rifiuti che suscita in me la semiocrazia occidentale" (R. Barthes)
L'EFFRAZIONE DEL SENSO
Lo haiku ha una proprietà un poco fantasmagorica: che ci s'immagina sempre di poterne comporre da se con facilita. Ci si dice: che cosa di piu accessibile alla scrittura spontanea di questo haiku (di Buson}?:
È sera, autunno, io
penso soltanto
Ai miei parenti
Lo haiku fa invidia: quanti lettori occidentali non hanno mai sognato di passeggiare per la via, taccuino alla mano, annotando qui e la delle “impressioni”, la cui brevità garantirebbe la perfezione, la cui semplicità attesterebbe la profondità (in virtù d'una doppia mitologia, una classica, che fa della concisione una prova d'arte, l'altra, romantica, che attribuisce un valore di verità all'improvvisazione)?
Pur essendo del tutto intelligibile, lo haiku non vuole dire nulla ed è per questa doppia condizione ch'esso sembra offerto alle interpretazioni in un modo particolarmente disponibile, servizievole, come un ospite cortese, che vi permette d'installarvi comodamente in casa sua, con le vostre manie, i vostri valori, i vostri simboli; l’”assenza” dello haiku (come si può affermare altrettanto bene d'uno spirito irreale che d'un padrone di casa partito per un viaggio), invoca la subornazione, l'effrazione, in una parola, la voluttà maggiore, quella del senso. Questo senso prezioso, vitale, appetibile come una fortuna (caso e denaro) lo haiku, sbarazzato dalle costrizioni metriche (nelle traduzioni che noi possediamo) sembra fornircelo a profusione, a buon prezzo e su ordinazione: nello haiku, potremmo dire, il simbolo, la metafora, la morale non costano pressoché nulla: soltanto qualche parola, un'immagine, un sentimento, la dove la nostra letteratura richiede abitualmente un poema, un dispiegamento о (nel genere più breve) un pensiero cesellato, insomma un lungo travaglio retorico. Cosi anche lo haiku sembra offrire all'Occidente dei diritti che la sua letteratura gli rifiuta e delle comodità ch'essa gli lesina. Avete il diritto, suggerisce lo haiku, d'essere futile, breve, ordinario; racchiudete ciò che vedete, ciò che sentite, in un minimo orizzonte di parole e saprete interessare; avete il diritto di fondare voi stessi (e a partire da voi stessi) ciò che vi sembra ragguardevole; la vostra frase, qualunque essa sia, enuncerà una morale, produrrà un simbolo, voi sarete profondo; con minimo dispendio, la vostra scrittura sarà piena.
Le parole, con il tempo, cambiano significato o escono dall'uso, diventando obsolete, o semplicemente vengono espulse dalla scena dall'imperialismo delle lingue di volta in volta dominanti. Oppure, e questo accade ogni giorno nei mass media e nella politica, si usurano per ripetizione, assumendo connotazioni negative, in altre parole "sporcandosi". Ma il compito dell'intellettuale e del poeta, come afferma Alain Jouffroy in questo saggio/racconto, è anche quello di ripulirle riportandole a nuova vita.
Alain Jouffroy - Il verbo “straniare” (*)
Io ho senza dubbio troppi amici, è un fatto: ne ho in ogni città da cui sono passato. Non appena arrivo in un paese che non conosco, dove non ho ancora avuto l’idea di passare, io incontro sempre degli uomini, delle donne che, di lì a qualche ora, forse un po’ di più, diventano degli amici. Quando riparto da questi nuovi paesi, in cui mi sono fatto nuovi amici, io li perdo di vista, ma non dimentico mai i loro volti e i loro nomi. Essi vivono allora di un’altra vita, indipendente da essi e dalle loro esistenze, nel mio proprio corpo, come se si fossero esiliati in me. Spesso, al ricordo dei loro nomi, sono le loro voci che ritornano, le loro voci che si mettono a parlare attraverso la mia. Lunga storia, che dura, si rinnova e non cessa di sorprendermi da cinquant’anni: i nomi risvegliano sempre le voci, anche quelle dei miei amici morti.
C’è una ragione a ciò: ho sempre amato i nomi propri, tutti i nomi propri: tutti i nomi di famiglia e i nomi di persona, tutti i nomi dei luoghi, delle città e dei villaggi, dei fiumi e dei laghi, delle pianure e delle montagne, i nomi delle dee e degli dei di tutte le mitologie. Mi sono, fin dalla mia infanzia, sempre serviti da guida, infallibili, nel tempo e nello spazio. Senza di essi, io non mi sarei mai così tanto attaccato alla vita e al reale. Di contro, io ho sempre sentito che, in rapporto ai nomi propri, i nomi comuni erano incerti, sospetti, e anche sporchi.Li ho scoperti uno dopo l’altro con la stessa apprensione, la stessa diffidenza, come se essi mi fossero a priori ostili, e, nel migliore dei casi, di una neutralità sgradevole. E’ dunque con circospezione che io li ho utilizzati, come se il loro uso sconsiderato potesse giocarmi dei tiri mancini, instillarmi la loro malattia, contaminarmi. Molto presto ho compreso che, per usarli senza coprirsi delle loro diverse sporcizie, bisognava dunque, prima di tutto, ripulirli. Ripulirli in maniera radicale, per estrarne i veleni segreti. Ercole è un nome innocente, luminoso. Lavoro è una parola sporca. Ulisse è un nome faro. Ritorno una parola stanca.