L'ottativo è il tempo del desiderio, della possibilità, un antenato di
quel congiuntivo che ne mantiene ancora qualche tratto somatico. Forse
c''è un nesso tra questa mia breve annotazione e il titolo di questo
libro. O forse sono già stato depistato, complici le note editoriali.
Cos'è che eventualmente muove il desiderio o l'arte del possibile in un
libro come questo? Domande difficili da metter sotto sequestro,
recintare, soprattutto leggendo un'opera in cui la suggestione (meglio
ancora, il "suggerimento"), come energia messa a disposizione del
lettore, è motore principale, alimentato da parole che assomigliano a
schiavi liberati dalle catene.
Il libro ha una sua struttura rigida che contrasta con la fluidità del
materiale (v. più avanti): circa sette sezioni - la maggior parte delle
quali composte da tre testi "doppi" (cosa che poi vedremo) segnati con
numeri romani e a volte qualche titolo aggiuntivo - intervallate da
testi dalla connotazione prosastica, identificati da lettere progressive
(A, B, C,...) e titolati tutti "deprivazione del sonno". Da questo
punto di vista è un'opera organica, o per lo meno c'è una evidente
volontà di dotarla di organicità, di una struttura che riconduca ad un
tutto ogni singolo testo e a cui ogni testo si appoggi. In sostanza un
poema, un genere o una forma che hanno ritrovato il loro habitat
naturale proprio nella poesia di ricerca, fornendole una veste
concettuale.
Poema su che cosa? Domanda mal posta e fuorviante, in un'opera di
questo genere. Nella quale l'evidenza (proprio nel senso di prova
provata) è quella di un percorso, anzi di una penetrazione, anche
aggressiva, un tentativo di attraversamento di un corpo durissimo da
perforare, quello che è già arduo definire come "realtà" (quale? di
chi?). Il desiderio e la possibilità accarezzati sono quelli di un
accostamento, un accostamento di conoscenza a questa realtà/verità in
maniera paritaria, con l'unico strumento possibile, rebus sic stantibus,
cioè il linguaggio, uno strumento che però è in parte spuntato, almeno
da quando parole e cose hanno preso strade diverse, e il significante ha
assunto un ruolo iconico. E con la complicazione non indifferente che
qui non sembra entrare in gioco almeno l'altro grande strumento che
potrebbe supplire a questo iato, l'immaginazione, sostituita semmai da
un impianto allegorico piuttosto rarefatto, poichè distanziato, lontano,
dietro la durezza delle parole. Del resto, allegoria di che? Il mondo
ha qualche ragione di essere allegoria? O di comunicare qualcosa
attraverso di essa? Sotto questo aspetto a Daniele, come ha detto
altrove, non interessa la comprensione del dettato, ciò che lo intriga è semmai la dimostrazione (perseguita, mai raggiunta) che tutto è dicibile, è toccabile con
la parola, per trarne un senso anche inaspettato, o pitico. Ovviamente
una parte di questo senso sfugge, ma solo perché esso è consegnato alla
individualità del lettore (e so che una delle aspirazioni di Daniele è
comporre un'opera "aperta").
Ci sono in questi versi molte cose concrete, oggetti che popolano la
mente o il sogno (?), e molte parole/oggetto. Ma la realtà è un
materiale composito, un calcestruzzo però privo di solidità. In questo
senso non è reale perché non dispone di sé, non ha la
responsabilità di avere una struttura "fissa" che risponda a una qualche
mente razionale, di garantire sé stessa, di essere - in termini di
sociologia - una "costruzione sociale". La realtà - comunque la si
definisca - è (specie in un'opera di poesia) semplicemente un divenire,
sia nella realtà medesima sia nella mente di chi la "costruisce"
(l'autore). Mantiene, sempre, un alto grado di riscrivibilità. In questo senso, forse, c'è qualcosa di optativo, un margine di devianza o di possibilità, un
pertugio che serve a scardinare la superficie, infilandoci un qualche
grimaldello al fine di scoperchiarla, di ficcarci dentro uno sguardo
speculatore e conoscitivo. Sguardo a volte troppo vicino, microscopico, o
forse giustamente vicino, come quelle dilatazioni di frattali
che dimostrano nel piccolo un universo complesso, sguardo a volte di una
acribia perturbante, a volte rivolto ad un interno profondo, molto
corporeo, come di chi sta ad occhi serrati immaginando non il proprio
ombelico ma le proprie viscere.
In questa "ideologia" che mi pare di intravedere, c'è forse il senso di
altre caratteristiche di questo libro. Dove, ad esempio, le
"ripetizioni" dei brani sono in realtà espansioni o interpretazioni di
qualcosa che si omette, si fa finta di omettere, o si dimentica. Infatti
quasi tutti i testi sono "doppi", ma nel senso, appunto, che il secondo
lievita il primo, lo destruttura e lo ricompone, in uno sviluppo che è
anche (e forse inevitabilmente) una mutazione o anche una catastrophé, e
insieme uno scolio, una glossa, si vedano quegli apici che paiono
annotare (chiarire?) certe parti delle seconde "versioni" (e già con
questo termine siamo in un territorio instabile, poiché non c'è nessuna
certezza che versioni poi in effetti siano). C'è da aggiungere che il
primo testo viene definito dall'autore "archetipo", e questo è
interessante, per i molteplici rimandi alla psicologia, alla filologia,
alla critica del testo, e per l'evidenza dell'artificio di cui dicevo
prima, cioè di un secondo testo in cui porzioni del primo sono
"ricostruite" (parole dell'autore). Si potrebbe d'altro canto avere
l'impressione di una situazione simile (ma contraria) a quando si vuole
ricostruire al mattino un sogno avuto nella notte. Qualcosa manca,
qualcosa si aggiunge, altro viene reinventato. Il riferimento al sogno
non è casuale, in questa mia personale interpretazione, se si guarda
alla scrittura di Daniele come se fosse un processo insoddisfatto (e
forse aleatorio) di condensazione e spostamento, di costruzione e
distruzione di elementi costitutivi la realtà personale dell'autore,
anzi una verità "inverata", statuita e riparametrata come tale, per
quanto possa essere - scrive un Poletti/Debord - "una verità parallela
al vero". Una realtà in cui certo entra anche il perturbante, cioè la
dialettica tra il consueto, l'ordinario, il quotidiano, l'oggettuale e
il senso di alterità, di estraneità, di "doppiezza" che essi possono
generare quando si innescano certi corti circuiti ("è sconfortante come
la mela conosca l’albero / e l’albero non conosca la mela"). Dal punto
di vista di questa rielaborazione continua di materiali può essere utile
ricordare anche che alcuni dei testi di questo libro provengono da
un'altra prova (credo del 2013 o 2012, non ricordo se uscita a stampa)
intitolata, guarda caso, "Sui Quaderni in ottavo di K. (Ottativo)", cosa
che però non è detto che giustifichi o intersechi il titolo attuale (e
soprattutto il "prodotto" poetico attuale).
Da un altra prospettiva i termini scientifici che costellano il libro
dovrebbero per loro natura fornire un aggancio alla "verità", a qualcosa
di inconfutabile all'interno del materiale composito di cui si diceva,
ma appaiono anche come elementi "duri", come conchiglie puntute che
trovi camminando sulla sabbia, corpi alloctoni, misteriose presenze non
necessariamente funzionali alla comunicazione, come moai in un
paesaggio spopolato. E' anche un ricorso alla techné, a qualcosa di
surmoderno, un ammiccare ad un sentimento del tempo in cui l'umanesimo
in crisi si misura con un positivismo scientifico che da parte sua non
se la passa bene, anzi è morto e sepolto. E insieme un affermare: ecco,
vedete, le parole hanno ancora una consistenza, come se fossero ancora consequentia rerum.
Un approccio ricorsivo negli scritti poetici di Poletti, almeno in
quelli che ho avuto occasione di leggere. Ma anche i termini botanici,
anatomici, fisici, medici ecc, fanno parte di quelle cose concrete (o
empiricamente verificabili, se si rimane in ambito scientifico) che a
loro volta intridono quel materiale composito di cui si parlava.
Sembrano d'altra parte corrispondere, nella loro concretezza, ad un
grado di puntuta attenzione, forse proprio in quelle "deprivazioni del
sonno" che fanno da pietre confinarie nel testo. Uno stato di veglia,
forse ricercato e indotto ("Benzodiazepine in etere ottundimento,
riduzione della vigilanza, / difficoltà del verbale, diplopia, l’albero è
un albero / l’albero e la sua funzione") che però non sospende in
maniera drammatica solo il sonno, ma per forza di cose incide anche sul sogno, inteso come distruzione, ricostruzione e superfetazione della realtà.
La scrittura di Poletti ha (allora) in sé il suo desiderio e la sua
potenzialità, tenta di agire in sé non come strumento di lettura del
mondo, ma come parte e forma di esso. Forse è in virtù di
questo che, pur mantenendo un andamento certo sperimentale, il libro di
Daniele non scivola mai in quella arroganza, quella presa del potere
della parola in cui la parola vale qualcosa a prescindere da quel che
dice, diventa rara e perciò preziosa e il suo valore cresce in maniera
inversamente proporzionale alla sua usabilità. Al di là delle indubbie
difficoltà il libro non è oscuro (Daniele diverse volte si è dovuto
difendere da questa accusa) per chi voglia carpire il senso di questo
percorso (formativo o plastico, direi), addirittura a tratti illuminato
da lampi assolutamente lirici, emersioni che non erano sfuggite, a suo
tempo, a uno dei più attenti lettori di Poletti, Edoardo Sanguineti). Il
percorso complessivo mi pare chiaramente indicato a chi legge, e
ampiamente aperto alle libere interpretazioni soggettive proprio grazie alla sua non univocità, nella accezione in cui intendeva il termine U. Eco. Anche la chiusa ha il suo senso. Alla fine si perde
la definizione, forse la chiarezza, forse la strada (dico il lettore,
perché certo l'autore nasconde tra i suoi materiali coordinate e punti
geodetici utili a ritrovarla, magari andando a ritroso): perché le
"deprivazioni del sonno" G,H e I subiscono in chiusura del libro uno
smottamento grafico che le rende progressivamente illeggibili, scivolano
in altre parole, in ammassi di una inintelligibile oscurità. Forse è
obnubilazione. Oppure il sonno è giunto, le palpebre si sono alla fine
chiuse. Immaginiamo che inizi un altro libro, forse un libro "nero",
un'opera di una diversa densità. L'amico Daniele, se vuole, può
prenderlo come suggerimento. (g.cerrai)
Giovedi 18 settembre prossimo, a partire dalle ore 19, e fino a Sabato 20, presso la Galleria Ostrakon, Via Pastrengo 15, Milano, si svolgerà la terza edizione di "Tu se sai dire dillo", rassegna poetica ideata da Biagio Cepollaro, dedicata a Giuliano Mesa e articolata su tre giorni di incontri, dibattiti, letture, video, intorno alla figura di Paola Febbraro, al lavoro di diffusione e conoscenza di Emilio Villa promosso da Enzo Campi e all'antologia di opere di Gianni Toti, ideata e curata da Daniele Poletti e da [Dia*foria, oltre al lavoro di e sulla critica letteraria portato avanti da "In realtà la poesia" e a letture di Cepollaro di lavori dello stesso Mesa. Il programma completo è scaricabile QUI. Ci vediamo là il 18, spero di incontrare qualche amico.
Rilancio volentieri, come feci a suo tempo con f l o e m a, (v. QUI), la notizia di un’altra iniziativa che nasce dal
gruppo, abbastanza fluido, che ruota intorno a [dia•foria (Fernando Anateti,
Pierfrancesco Biasetti, Giuseppe Calandriello,
Walter Catalano, Stefano Pocci, Daniele Poletti). Si
tratta di una nuova costola, dedicata in questo caso all’esplorazione del
contemporaneo sul versante dell’arte nelle sue forme attuali e con una
particolare attenzione per gli autori meno noti. L’intenzione dichiarata è
questa, e a me piace molto poiché da sempre (e non sono il solo) sono convinto
che la poesia debba confrontarsi con dinamiche, idee, concetti dell’arte.
Pubblico di seguito il post di apertura, da leggersi come una dichiarazione di
intenti. Qui, come nel caso di f l o e m a o altrove, il piglio è
quello deciso e un po’ baldanzoso del manifesto. Lo dico con simpatia, perché
penso che ci sia un gran bisogno di manifesti, di movimenti, di idee. Ma senza
dimenticarci che poi c’è un gran lavoro da fare. (g.c.) artriOOOps! è una nuova diramazione del
progetto culturale di [dia•foria, dedicata alle
arti contemporanee.
Nata per partenogenesi nel clima di ricerca che caratterizza il blog, deve il
suo nome al compositum tra “arte” e
“triops”, crostacei comparsi sulla terra qualche
milione di anni fa, considerati fossili viventi muniti di tre occhi. Questo
connubio inusuale suggerisce a livello onomatopeico (ooops!)
il qui e ora dell’arte: forma di espressione che continuamente si rinnova e si
adatta all’epoca e ai luoghi in cui si sviluppa, provenendo da molto lontano,
come il nostro piccolo crostaceo notostrace.
EVOLUZIONE – ALIENAZIONE – CONVOLUZIONE
L’evoluzione come trasformazione graduale¹, ma anche come svolta netta, è una caratteristica
del percorso di tutte le arti e le letterature che accumulano nel tempo
modificazioni e stratificazioni di tutti i “contemporanei” che le precedono.
Dagli albori del Paleolitico, in campo magico e religioso, con le pitture
rupestri, all’arte greca, romana e romanica, per giungere alla prospettiva
empirica di Giotto e alla sua codificazione scientifica con Piero della
Francesca, dal Rinascimento maturo fino all’arte moderna degli
impressionisti2 e passando per le avanguardie, arriviamo al
nostro “contemporaneo” attraverso lo sviluppo degli esseri (e dei concetti) da
forme primordiali (triops) a forme (e concetti)
evolute e ulteriormente perfettibili. L’arte è la somma inestinguibile di
“contemporanei”, e allo stesso tempo lo scorporo di ciò che precede. (continua a leggere QUI)
Rilancio volentieri la notizia di una iniziativa che sembra promettere bene, un nuovo sito dedicato alla poesia e alla ricerca, anzi alla
“esplorazione” della parola, obbiettivo giustamente ambizioso. Si tratta di f l o e m a, ideato e organizzato da Daniele Poletti e Pierfrancesco Biasetti. Di seguito
pubblico l’editoriale (o la poetica, se preferite):
“…l’arte e l’epos greco […] continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello
inarrivabili.”
Karl Marx
: “L’arte greca e la società moderna”
(Grundrisse, 1857-1858)
Nella società in cui viviamo, dove è più facile abbattere un albero per costruire un marciapiedi o un rondò, invece che girargli intorno, mantenendo
l’erettile architettura, f l o e m a si propone di mostrare ciò che la sega, se meglio adoperata, poteva evitare: la sezione di un tronco.
Nessuna postura pseudofuturista o rivoluzionaria, sappiamo di essere piccoli e forse minoritari, ma ciò che ci spinge a ritagliarci uno spazio nel mare
magnum della rete e della cultura nazionale e oltre è la necessità di mostrare che “si possono suonare le foglie”, e lo si può fare probabilmente anche
grazie a ciò che sta dentro il tronco. (Continua qui)
Pubblico qui una nota di Daniele Poletti come introduzione a pochi testi di Augusto Blotto, poeta magmatico, tellurico, anzi diluviale, fin troppo sconosciuto nel nostro paese. Con la prospettiva, spero, di poterci occupare quanto prima in maniera più diffusa di questo "radicale [capovolgitore] del conosciuto, dell'atteso, del normale", secondo le parole di uno dei suoi estimatori. Un poeta che mette alla frusta non solo il linguaggio e la sua capacità eidetica, ma anche il nostro comfort di lettori. (g.c.)
Per Augusto Blotto (Torino, 1933), sono stati usati ormai innumerevoli e pertinenti epiteti e aggettivazioni, da critici come Stefano Agosti, Giorgio Barberi Squarotti, Sergio Solmi, Giovanni Tesio, Sandro Montalto, etc. E, se conoscendo la persona e l'opera, la definizione più immediata e calzante è quella di "uomo di sfide e dismisure" (Giovanni Tesio), vogliamo qui introdurre, in una visione diacronica, la figura di Blotto come uno dei grandi "esclusi" della letteratura italiana. Si badi bene, nessun tono commiseratorio in questa affermazione: Blotto, a un certo punto del suo itinerario poetico, si è autoescluso dall'ufficialità della cultura; ma il resto è stato fatto dai grandi poli di aggregazione intellettuale (neoavanguardia inclusa e su tutti), che hanno proceduto su sentieri ben definiti, rispondendo a un'idea quasi preordinata di ricerca, e non rimanendo in ascolto (o avendo timore di farlo) di una certa eterodossia letteraria di cui Blotto fa parte. (Per inciso si può ricordare anche il caso di Alberto Faietti o per aspetti diversi di Lucio Saffaro e Emilio Villa). Senza timore di esagerare si potrebbe affermare che Augusto Blotto sta alla poesia come John Cage sta alla musica: c'è un prima e un dopo di loro. Senza sottrarre importanza a ciò che ci hanno lasciato Zanzotto, Cacciatore, Ruffato, Guido Ballo anche (da tornarci su), per citarne solo alcuni, ma tentando di darne un pò di più, di importanza, al Blotto innovatore e "trovatore" della lingua poetica italiana. Sì perché come ama ricordare l'autore "nella mia poesia non cerco/ricerco, trovo". La poesia di Blotto è un canto molto articolato di ciò che viene trovato sulle strade percorse in metri e chilometri. Una topografia del reale forgiata nel crogiolo di soluzioni linguistiche inusitate, inaspettate, nella gamma quasi sterminata dell'invenzione espressiva. Per forza d'urto, di fronte ai versi blottiani, saltano le convenzioni e le convinzioni, perché ci si trova di fronte a qualcosa di inaudito. La spericolatezza sintattica si lega a forme idiolettiche -sempre però riconducibili al dizionario, mai autoreferenziali- che cercano strenuamente di individuare in modo più preciso il senso del percepito; verbalizzazioni, sostantivazioni di parti recondite della lingua, ma anche dell'inconscio, creano un'amalgama musicale dodecafonica, più spesso atonale, che fa dell'opera di Blotto una delle espressioni più avanzate della ricerca (in questo caso va detto) poetica. Il contributo decisivo a questo stato della poesia è dato dalla struttura instancabilmente simultaneista, il montaggio intersecato di percezioni attraversate, che porta alle estreme conseguenze la tecnica del cut-up e della visualità della scrittura, proprio perché attuata secondo un'architettura rigorosa e post-endecasillabica. Il risultato non risente di alcun intellettualismo, l'uso frequente del registro basso e comico e di scelte lessicali "impoetiche", contribuiscono alla determinazione dei versi di Blotto come una registrazione quasi pedissequa del reale. Raymond Queneau insegna che esistono 99 modi diversi per raccontare la stessa cosa, probabilmente Blotto è il n°100: modo del non dire, suggerimento, evocazione, traslazione. Tutto questo concentrato in 60 anni di scrittura e quasi 20.000 pagine di poesia, tra editi ed inediti. "Uomo di sfide e dismisure", appunto.