Mercoledì, 14 novembre 2018Nicola Grato - Inventario per il macellaio Nicola Grato - INVENTARIO PER IL MACELLAIO - Interno Poesia
2018
E' difficile dire qualcosa di questo libro prescindendo dal suo titolo. Un
titolo è importante, lo dico con qualche cognizione di causa. Nei libri di
poesia è quasi sempre campato in aria, o ripete un verso disperso
nell'opera, ecc., a parte certi titoli memorabili, come Allegria di naufragi, per citarne uno. Ma quello di questo libro
dà l'impressione di essere, per dirla con Genette, un titolo tematico.
Insomma, un titolo forte, che dà una robusta indicazione. Perciò è con una
certa sorpresa che poi, leggendo, ci si ritrova in una atmosfera che non ha
l'odore del sangue né l'ossessione tragica di dare un ordine inventariale
alle cose.
Le cose, certo, ci sono, e appartengono anche nel caso di Nicola Grato a
quello che più volte ho chiamato un universo ristretto. Ovvero
qualcosa di insieme concentrato e "vero" (vero per chi scrive), di
universale e insieme strettamente privato, di condivisibile e insieme
inconoscibile per chi legge. E' il mondo visto da una prospettiva
personale, una vera "soggettiva" in senso cinematografico su una realtà
essenzialmente domestica. Va da sé che ogni poesia è soggettiva,
anche quando chi scrive fa di tutto per defilarsi. Si tratta di vedere
quali, quanti e di che qualità sono viceversa gli oggetti poetici, gli
elementi affettivi, emozionali, estetici che passano.
Questo è fondamentalmente un libro che un giovane dedica alla memoria, a
una memoria che riguarda i morti, certo, ma anche una memoria come valore
etico, come elemento sociale, come eredità ed identità e magari, infine,
come debito ancestrale, verso un luogo circoscritto, che forse la maggior
parte dei giovani abbandonerebbe. Insomma una memoria che rammemora sé
stessa. Sintomaticamente tutto questo è anche memoria della forma, sotto
diversi aspetti che si riflettono soprattutto sulle scelte stilistiche e
prosodiche di Grato, e debito culturale, stante che la versificazione di
Nicola è quanto di più aderente ad una tradizione si possa immaginare. Già
i testi di esordio della raccolta (ed è per questo il senso di straniamento
di cui parlavo sopra) ci spediscono proprio in quell'universo circoscritto
tanto lontano da qualsiasi ipotesi "forte" [anche vaghissimamente
grandguignolesca o tragica] quanto può esserlo un salotto gozzaniano.
Infatti è proprio Gozzano l'autore che più spesso viene alla mente,
soprattutto per le piccole cose, gli oggetti che vengono quasi enumerati,
le molte "cianfrusaglie di tante vite, / cose da poco, monili / perciati
destinati al fuoco". Eppure questi ambienti sono scenari di morte, una o
più, e stratificazioni di un dolore che però sembra rattratto, un po'
frenato, trasferito subito su una malinconia elegiaca che è già - anche
prima di una ipotetica funzione catartica della poesia - elaborazione e
accettazione. Come un bighellonare col pensiero in un villaggio che siamo
rassegnati ad abitare, e che quindi non può nemmeno alimentare una
nostalgia, un ritorno alle origini, visto che siamo già qui. La cifra
complessiva è proprio questa e ruota intorno alla perdita (della madre si
suppone, del padre) però come dicevo già in gran parte metabolizzata
proprio per via poetica. Soprattutto attraverso il fattore poetico per
eccellenza, in una poesia di questo tipo, e cioè il ricordo, uno sguardo
che indugia molto, poi, sugli elementi totemici del ricordare stesso, le
cose, gli oggetti che popolano le stanze, che intermediano tra presenti e
assenti, ne sono - e questo è importante da capire - le spoglie in qualche
modo "animate". Chi scrive è come immobile al centro di questa
perlustrazione dell'ambiente quale contenitore dei ricordi. Il tempo è
fermo al momento degli eventi, privandosi di ogni dopo, come in ogni lutto
che si rispetti. I calendari sono fermi "da una vita a dicembre", gli
orologi sono fermi, le foto, ovviamente, sono congelate in eterno, come la
luce, "una luce / di vetro il giorno ch’è morto / mio padre in dicembre – /
mia madre in aprile". Il legame con tutto questo è forte, si ha quasi
l'impressione che Grato lo viva come impossibilità di distacco, anzi con
una qual soggezione, un "riguardo" che trova qualche riflesso anche nella
lingua, con qualche accento dialettale (settimanile, perciati, cunto,
azolo, balata) che però Nicola non usa in senso pittorico o espressionista,
ma come esornazione o come elemento "nomade" (all'interno dell'italiano) di
un rimpianto.
Le cose migliori, alcune delle quali ho riproposto qui, Grato le esprime
proprio quando si allontana un po' dal memoriale elegiaco per volgere lo
sguardo all'intorno, per osservare con occhio meno privato ma non meno
dolente la vita, per riflettere su quanto di più universale il pensiero può
cogliere anche all'interno di un mondo circoscritto, come ad esempio nella
sezione Sommario dell'abbandono o in parte anche in Un paese di persone in volo. Si intravede qui quello che forse
intravede, poeticamente parlando, l'autore. Cioè l'esaurimento di una
tematica, come ultima elaborazione del ricordo malinconico, o del rimpianto
(e non potrebbe essere altrimenti), e il passaggio verso altre domande su
cui esercitare forse anche un diverso linguaggio o addirittura altre forme.
Insomma, una raccolta in cui forse Grato avrebbe potuto, con i mezzi e la
materia che ha, tentare di andare un po' più a fondo, magari contrastando o
arricchendo il dato memoriale, la massa oggettiva delle "cose" con uno
scatto immaginativo, imponendo alle cose stesse il suo intimo,
trasfigurandole. Ma va detto, a parte queste considerazioni che, come
ricordo sempre, sono solo un punto di vista, che quella di Grato è
complessivamente una poesia piuttosto buona, proprio nel suo essere
tradizionale, anzi crepuscolare, con un orecchio stilistico particolare per
musica e metro, assonanze e rimandi, rime interne e consonanze, insomma con
una cura della lingua che si fa notare. Come dicevo sopra, i mezzi ci sono,
e anche la materia, forse non sfruttata (o aggredita) come avrebbe dovuto.
Immagino che Nicola vorrà mettersi alla prova con altri temi, con altri e
più ampi orizzonti. (g. cerrai) Continua a leggere "Nicola Grato - Inventario per il macellaio" Martedì, 6 novembre 2018Gabriele Galloni - Creatura breve Gabriele Galloni - Creatura breve - Edizioni Ensemble, 2018
Sarò breve. Galloni è già stato ampiamente recensito, forse il più
recensito degli ultimi tempi, senza contare la sua presenza in rete e sui
social, che ha assicurato una generosa offerta di estratti e riproposte dei
suoi scritti. Perciò quello che mi interessa in questo momento è limitarmi
a registrare qui alcuni appunti di lettura di questo suo Creatura breve. La brevità di questa creatura, intesa come opera,
è la brevità della maggior parte dei suoi testi, alcuni dei quali sono al
limite dell'aforisma pro-verbiale (v. più avanti) o del frammento in sé
consistente, "chiuso", che cioè non mi pare una tessera di qualcosa d'altro
se non di una visione appunto frazionaria e forse impressionista di quello
che è a portata di mano (o del mondo, se vogliamo), di una realtà come
stimolo (non proprio come ispirazione) di sintetiche
considerazioni esistenziali (*). La sintesi è tuttavia uno dei pregi della
scrittura di Galloni, poiché non è soltanto semplificazione del dettato ma
anche condensazione di pensiero, o di un grumo di riflessione sull'
"incidente" (con quanto di "occasionale" questo comporta). Una buona
scrittura, in breve, nutrita di parecchie letture soprattutto del Novecento
italiano, ben filtrate, sia detto a suo merito. Come a suo merito va
ascritta la scelta stilistica, complessiva e senza patemi d'animo, della
modernizzazione di accenti lirici e/o elegiaci (come ho notato anche
nell'altro suo libro In che luce cadranno, che da quel poco che ho
letto mi pare senza alcun dubbio migliore di questo), giocata molto sulla
sottrazione del superfluo verbale, tanto per fare un esempio. Con poeti
come Galloni è inutile e peregrina, se non truista, qualsiasi iscrizione
d'ufficio al "tradizionale". Semplicemente così è. Galloni appartiene a
quel gruppo di giovani autori (ce ne sono altri e molto diversi da lui) in
cerca di focalizzazione (ma lui è già parecchio maturo) di una realtà che è
vasta ma che appare comunque governabile, se la si prende in dosi
omeopatiche: se la si guarda in superficie, come un lago relativamente
calmo; se la si analizza con mezzi rinnovati ma collaudati; se la si vive
con un po' di ironia e di sensualità, o con il paradosso (nel senso di
contraddizione del comune) e con quella distanza, anche anagrafica, dal
"naufragio" di cui parla Hans Blumenberg citando Lucrezio. Inutile cercarvi
un senso del tragico, non può esserci, almeno in questo tipo di poesia.
Sarebbe semplice, per i testi più brevi, parlare anche nel caso di Galloni
di piccole epifanie (v. ad es. QUI o QUI o QUI). In realtà mi
pare che qui non ci sia proprio "rivelazione" e decifrazione poetica di
essa, c'è piuttosto il poeta che sembra defilato come "io" (c'è spesso una
terza persona singolare, e al passato) ma che ci fa sapere tra le righe che
è lui ad illuminare e in qualche modo nobilitare quella parcella di realtà
con i suoi versi. Nei quali non posso fare a meno di rinvenire, per quanto
molto volatile, un elemento narcisistico, una specie di ammicco, a sé e a
chi legge, un "gesto" poetico ben scritto, non c'è dubbio, ma che secondo
me ha ancora bisogno di un supplemento di indagine (soprattutto da parte
dell'autore stesso sul suo materiale poetico).La sintesi del reale per
frammentazione, se così si può dire per ossimoro, è poi un tratto di molta
poesia attuale, in sé naturalmente rapsodica, con cui bisogna fare i conti,
accettandolo o rigettandolo con qualche motivazione.
La creatura breve invece intesa come simbolo è l'uomo medesimo. Come si
legge in Pro Verbis #4 "E saremo l’Immagine dell’uomo. / Non la
creatura breve, ma la traccia" (questo l'intero testo). Inversione dei
ruoli, non si può essere a immagine e somiglianza di nessun dio ma solo di
sé stessi, in sé o come traccia memoriale di uomini. E' uno dei temi di
Galloni, trattato in maniera del tutto agnostica, anzi se c'è una presenza
"mistica" è un angelo irrumante nella bocca di qualcuno, e va bene così
perché anche in questo consiste l'uomo ad immagine d'uomo, e non credo che
ci sia nessun borghese che si lasci épater per questo. Un altro
tema, importante e correlato, è quello della morte e dei morti - intesi
come categoria quasi filosofica ipostatizzante, o come simbolo dialogico in
conversari o sibilline parabole tra l'onirico e il fantastico - presente
soprattutto e con maggiore coerenza, mi pare, in In che luce cadranno. La morte è un topos in poesia e da quel che
ricordo Gabriele ne ha qualche esperienza diretta, per via delle sue
interviste a malati terminali pubblicate su Pangea. Un materiale
importante, quindi, e doloroso, che Galloni sceglie di "distanziare" con
l'ironia, di declassare, almeno in questo libro, a un territorio parallelo
popolato di deuteragonisti colloquiali per la sua particolare visione del
mondo. Il che ha sicuramente un certo interesse, soprattutto per l'abile
manipolazione, la resa scrittoria di queste "fabule", forse la parte più
sostanziosa di questo piccolo libro.
Insomma, se la domanda è: è bravo Galloni? la risposta è sì, con riserva.
Per quanto mi riguarda un lavoro che avrebbe potuto apparire più organico,
più conclusivo, perfino più azzardato. Ma anch'io, come mi pare tutti,
credo che Galloni abbia la stoffa, e anche il carattere, per farsi valere. (g. cerrai)
(*) dopo aver scritto queste parole ho trovato questa interessante - ma per
un certo verso ovvia - risposta, tratta da un'intervista di Michele
Paoletti al poeta (v.
QUI
):
Come nascono le tue poesie? Di solito parto da un’immagine, un fotogramma di vicenda, una situazione – la narrativa non mi abbandona mai. Cerco di misurare e limare quello che voglio dire; lo costringo nella melodia della metrica, che mi permette di consumare il consumabile nel modo migliore possibile – cioè puntando all’essenziale e senza sprechi linguistici. Altre volte invece mi visita improvviso un verso, undici sillabe perfette, e da lì continuo sviluppando o riducendo, mutilando. Sono molto puntiglioso in questo. Continua a leggere "Gabriele Galloni - Creatura breve" Venerdì, 19 ottobre 2018Federico Federici - MROGN Federico Federici - MROGN - Editrice Zona, 2017
Non incrociavo Federico Federici da anni, almeno da quando
circa dieci anni fa avevo pubblicato qualche testo della sua bella
traduzione dal russo di Nika Turbina (Sono pesi queste mie poesie,
v.
QUI
) e soprattutto avevo brevemente annotato la sua raccolta L'opera racchiusa (v.
QUI
), con cui aveva vinto il Montano 2009 (e qualcuno lo ricorderà anche come
autore con l'eteronimo di Antonio Diavoli). Ora, cioè qualche tempo fa, mi
manda il suo Mrogn, uscito per Zona alla fine del
2017, premio Pagliarani 2016 per la raccolta inedita.
Mrogn è un luogo preciso, da qualche parte dell'Appennino Ligure, designato
da un toponimo dialettale di cui sfugge il senso. Mrogn è un luogo
immaginato, ambientazione e set di accadimenti misteriosi e insieme
ineludibili. Mrogn è la coincidenza, anzi la tangenza di presenza umana e
natura, entrambi su un confine invisibile tra dimensioni diverse e tuttavia
intrecciate. Mrogn è una metafora, e quindi un coagulo di senso, non
necessariamente esplicito ma, forse proprio per quello, necessariamente
esplorabile. Mrogn è, probabilmente, un viaggio per il quale la lingua è il
principale passaporto, anzi un viatico, in un'oscurità la cui dissipazione
è una sfida, forse perdente. Infine, e proprio per tutto ciò, Mrogn è un
poema, con quel che ciò significa in termini di spazio e tempo, di respiro
e unità di intenti, di indagine ed epos dell' "evento".
Qualcosa accade o è accaduto, lassù. Sì, forse indagine è la parola giusta,
basta non perdere mai di vista il fatto che non è la soluzione che conta, e
nemmeno la concretezza di qualsiasi fatto. Anzi, è chiaro fin
dall'inizio che è l'incerto, l'indefinito, il probabile non provabile, questi ed altri gli elementi da cui principalmente
è composta questa scrittura. L'accaduto, qualsiasi cosa esso sia, ha un
valore traslato poiché non è che un frammento su cui si esercita un
tentativo di penetrazione della realtà, intesa - in ultima analisi
- in senso astratto. Va notato subito però che, trattandosi di un poema,
qui non c'è, non può esserci niente di frammentario o rapsodico, insomma ho
fatto riferimento a spazio e tempo per qualche ragione. Se i testi sono
brevi o brevissimi è perché hanno, devono avere, l'essenzialità dell' indizio, fissando in esso una porzione di accaduto, e a ciascuno
ne segue un altro, una serie, una sequenza che compone il macrotesto, se
posso usare questo termine improprio. Si arriva alla fine del libro, lo
dico subito, senza soluzioni del "dramma", perché - va detto anche questo -
il dramma, inteso in senso teatrale, è in realtà un presentimento,
forse una leggenda, o una paura, privata o collettiva.
C'è in effetti una dimensione che potremmo definire teatrale, una possibile
interpretazione a più voci, voci indefinite, anch'esse forse metafora di un
indistinto popolo che vive, forse scrive, forse legge, la vicenda poetica.
Sono essenziali qui, in cima ad ogni testo, degli exerga didascalici, delle
indicazioni quasi di scena, di teatro o cinema, che avviano (ma non
conducono, quello è affar suo) il lettore. Facciamo qualche esempio:
(sottovoce – corsivo a verbale); (altri rilievi, anatomie di scena);
(esterno: notte); (primo testimone: un sacrestano)
, e così via. E' chiaro che tutto concorre ad un tono di indefinito
mistero. I "reperti" disseminati come testi apparentemente in sé conclusi
non portano nemmeno a definire che esista un "fatto". Ed è questo, io
credo, uno dei temi del lavoro, se non il principale: una verità
irrealizzabile come vera, perché relativa, intersezione e contaminazione di
parole e punti di osservazione, in un certo senso "privata" di ciascun
osservatore. Esattamente, se vogliamo, come la verità dell'artista, nel
momento stesso in cui si manifesta. Il vero si possiede forse con il suo
"nome" ("l'ha raggiunto il nome, / preso"; "non avrà altro nome / al di
fuori di sé"; "lo scomparso ha nome?"; "Non si può affermare / che sapremo
il nome / dentro cui è morto"; "Lasciateci da soli / a cercare il nome";
"si ripete in bocca della preda / il nome, quasi s'avverasse / in quello";
"lascia perdere / il bersaglio / - è il nome"; "Si sentiva minacciato / nel
suo nome" ecc.). In definitiva, con la parola che identifica e tenta di
organizzare il reale.
Lassù su quel colle, si diceva, qualcosa c'è o c'è stato, esiste o è
esistito. Una scomparsa, o una morte. Come anticipa il risvolto di
copertina: "Chi è morto? Un animale, si direbbe. Chi è scomparso? Un uomo,
si direbbe - se non che anche l'uomo è un animale". Va bene, ma questo è
avvenuto prima, per paradosso possiamo dire prima ancora che il
libro venisse scritto. Il libro viene in un certo qual modo dopo, in
risposta a quelle domande e ad altre che inevitabilmente seguono. Come
quella di cosa sia realmente l'oggetto della caccia/indagine, una caccia metafisica, come sottolinea la motivazione del Premio
Pagliarani, ricordando giustamente la caccia allegorica del caproniano
Conte di Kevenhüller (là alla Bestia, qui all' "altra cosa"). Il luogo è
essenziale, non tanto nella sua dimensione fisica quanto soprattutto nella
sua essenza simbolica. Simbolica è la sua oscurità, simbolico è il suo
intrico. Il luogo è il bosco (e bosco è una di quelle parole - nome, animale, ecc - che ricorrono nel libro, come
segnavia), un luogo senza confini istituiti ("Non esiste il punto / dove il
fiume penetra / nel bosco, né / le vene il corpo" e "sulla carta non esiste
bosco"), nel quale addentrarsi è cedere una parte di sè o paradossalmente
acquistarne, segno che la ricerca (di verità, di risposte) è un valore nel
suo svolgersi, è formazione. E', in altre parole, trasformazione,
forse metamorfosi ("Non si penetra nell'ombra. / Entra in noi l'ombra del
bosco"). Le cose, nella caccia, evolvono. E non è un caso che dei testi
abbiano un carattere sapienziale, che ricorda certe "sentenze" dell' I Qing, il Libro dei Mutamenti: "Lo scomparso ha nome? / L'animale
un'orma, un verso? / Chi cercò nel bosco un varco / è perso". Ma evolvono
come enumerazioni di oggetti o come evidenze di una incapacità di dissipare
per sempre l'oscurità del bosco e l'opacità della verità che si suppone
esso contenga. E forse come metafora della lotta - spesso perdente ma
sempre necessaria - della parola per essere "definitiva" sulle cose e sulla
realtà, specie su una realtà in schegge, sulle tracce di essa ("Che parola
mise sulle tracce, / o che parole erano le tracce? / Chi parlò, / senza
coprirsi di silenzio?"). E' un nobile tentativo, come sempre è la
scrittura, di gettare l'ombra al di fuori di noi.
L'indagine alla fine non ha esito, ma lo sappiamo già, perché un "rapporto"
proprio all'inizio del libro ci informa:
Ma non è nemmeno una sconfitta, è la stessa ricerca il segno e il significato del lavoro, come dicevamo all'inizio, la
compenetrazione di indagine e oggetto indagato, come abbiamo appena letto.
Un libro di fascino, indubbiamente, stilisticamente imperioso e tuttavia
aperto all'immaginazione anche visiva del lettore, nelle ampie radure (del
bosco, del testo) lasciate a chi legge, negli spazi bianchi, come innevati, tra i versi. E il cui principale interesse sta in una ricerca non solo
sulla lingua, peraltro mantenuta a un livello strutturale semplice e
ordinato, anche in funzione della natura volutamente frammentata del testo,
ma comunque sempre serrata ("Taglio per taglio, rima per rima, la caccia
alla lingua è proiettata in cabina di montaggio", ci rammenta Fabio Zinelli
nella motivazione al premio); ma ricerca anche sui temi, sulle cose da
dire, sui livelli espressivi, sulla "storia", su tutto ciò che poi
sostanzia e incarna quella lingua, non lasciandola mai mero strumento privo
di suggestioni. Un linguaggio franto e sincopato, e volutamente antilirico,
non emotivo, che consegue l'ossimoro di una trasparenza
dell'incerta e brumosa oscurità del mistero.
Infine, al di là di ciò che può scrivere il recensore, una cosa che ama
pensare il lettore: che a volere un po' tirare le cose per il bavero, mi
piacerebbe leggere qui anche forse una metafora politica, di quel timore,
di quella paura di un nemico misterioso, di quella incertezza che pervade i
nostri tempi. Insomma mi piace pensare che la poesia, ancora e ancora,
assorba e restituisca il suo tempo. (g. cerrai) Continua a leggere "Federico Federici - MROGN" Giovedì, 11 ottobre 2018 a cura di SONIA CAPOROSSI - Marco Saya ed., 2018 Ricordo che diversi anni fa si parlava di mappature della poesia. Ah, quanto se ne parlava! La linea lombarda, la linea marchigiana, la generazione entrante, quella uscente, i territori paralleli...Sebbene già allora le mappe non portassero in alcun luogo - con una certa soddisfazione dei più borgesiani - oggi più che mai mi pare che l'orientamento sia un'arte difficile, se non appoggiandosi, ancora, a categorie o denominatori. (e poi, orientarsi in cosa? nella poesia in sé? nel reale ivi (se) riconoscibile? nel fenomeno osservato? nell'osservatore?) etc. Se l'orientamento è difficile non lo è tanto perché la poesia sia una giungla, quanto perché la si vuole spesso e quasi di necessità collocare e ri-collocare - spesso arbitrariamente - in ambiti e/o codici, meglio se impermeabili tra loro, e questo crea problemi, se non proprio di dissidio e opposizione, almeno di prospettiva e focalizzazione. Una opacità a cui si potrebbe porre qualche rimedio se intanto si considerasse la produzione poetica come una serie di oggetti (insiemi) intersecabili, un'ottica che almeno (forse) consentirebbe di capire non tanto la realtà di uno (o nessuno), quanto il punto di vista sul mondo di alcuni (o molti) anche diversi, e quindi analizzarne in maniera feconda le intersezioni e le osmosi, i problemi e le soluzioni adottabili e/o sviluppabili. Non sto parlando di ecumenismo, e nemmeno di una diversa antologia ([1]). Sto parlando della necessità di ricostituire il peso della poesia (il peso anche sociale e politico se volete) come strumento/funzione di indagine e comprensione del presente. Perché nel frattempo, come in ogni "litigio" o dissidio che si rispetti, il terzo gode. Ecco, questo sì che è un problema interessante. Cioè chi/cosa possa essere, nell'articolazione del presente (o dell'ultracontemporaneo, per dirla con Sonia) questo tertium. Sarei orientato a pensare che esso sia lo sfuggente convitato di pietra, quel camaleonte che perònon si mimetizza ma viene mimetizzato proprio da chi lo osserva, con uno strano fenomeno ottico. Sto parlando del reale complesso, di quella complessità che è un problema seriamente percepito da qualcuno (ad esempio da uno almeno degli autori qui presenti) ma che è ben lungi dal trovare una soluzione "artistica". E che allo stato attuale produce - spesso - un intenso lavorio sul "come", soprattutto sul linguaggio come copia e manifestazione iconica dell'indicibile, una neolingua come pallida rappresentazione di un mondo/potere di comunicazioni verticali. Il rapporto, per fare un esempio brutale, mi pare - qualche volta - quello tra un bambino con le sue lallazioni e un mondo di adulti che impartiscono ordini. C'è insomma un po' (molto) meno attività sul "cosa" si aggira (al di là del groan individuale, anche se spacciato per lamento collettivo/generazionale) all'interno dell'odierno reale complesso, che è davvero, esso sì, ultracontemporaneo, perché in ultra-divenire( [2]). Il linguaggio, oggi, mi pare abbia (ed è qualcosa che riguarda anche la polis) due direzioni principali, una di informazione, l'altra di deformazione. Una dicotomia che va spiegata, a cominciare dal primo braccio, la cui aria "positiva" non deve trarci in inganno. La prima direzione, infatti, è quella della semplificazione, della reductio ad unum, dello slogan, ed è soprattutto politica, ed ha la caratteristica di essere in-formante, non necessariamente in aderenza alla realtà, anzi come riscrittura funzionale della medesima, e con funzione estetica nulla. Paradossalmente è ciò che più si avvicina al grado zero di Barthes, alla scrittura bianca, non ovviamente quella di Camus a cui il filosofo francese faceva riferimento, ma una scrittura in cui la riduzione della forma si combina, ancora una volta paradossalmente, con l'instaurazione di un mito. Una scrittura insomma non tanto astorica quanto alogica. L'altra direzione, restando nel campo di questo libro, è quella della complessità, nel senso a cui accennavo prima. Ma qui, nel momento in cui, di fronte al complesso, l'esperienza individuale si restringe e arretra (cioè quando e perché non riesce a diventare esemplare e - quindi - letteraria), emerge una "inclinazione alla deformazione poietica del dicibile... un concetto comune di parola informe" (Caporossi, corsivi dell'autrice). Già, il dicibile. Io prima ho parlato di "indicibile", e mi viene il dubbio che siano sinonimi, in questo contesto. E che siano entrambi sinonimi di "infinito", ovvero un ammasso stellare di materia che può o non può essere detta in poesia (se restiamo in questo campo), in entrambi i casi fino alla noia. Un materiale poetico atomizzato, in cui ogni frammento percepibile può essere potenzialmente una scintilla testuale, un mini-bang espansivo, basta che l'artista trovi, magari una volta per tutte, il suo modus, o la sua "forma informe", o come si diceva una volta il suo stile. Ora, la buona notizia è quando - nella migliore congiuntura - riesce a verificarsi quella "intuizione aurorale" a cui si riferisce Caporossi nella sua prefazione, ovvero "la presa di coscienza del paradosso sorgente dalle multiformi modificazioni del nesso tra segno e significato, propria dell’esperienza poetica per eccellenza" (appunto quella aurorale). Tralasciamo il carattere "raro" e empirico che promana da questa definizione che richiama alla mente Benjamin (e Baudelaire ancor prima), ma capisco bene e apprezzo l'intento critico (e la proposta) di Sonia di ricondurre, ove si verifichi, il carattere (l'alloro) di unicità (l'aura di Benjamin, quindi) dal capo dell'opera all'intuizione del poeta (è l'idea, il concetto, del poeta che viene ad assumere la sua unicità prima dell'opera). La cosa importante, sotto questa prospettiva, è che, forse proprio per il suo empirismo, il risultato può essere - davvero - "sperimentale". Il che, in parole poverissime, significa davvero spostare in avanti certi limiti (espressivi, comunicativi, interpretativi) che sono gli stessi, fondamentali, della poesia e dell'agire artistico in genere. La notizia meno buona è quando (in alcuni casi) ci coglie la sensazione che la parola informe da una parte sia - per usare un paradosso - una "facile via difficile". Ne ho già parlato brevemente, ma voglio essere più preciso. Parlo di metodo, di modalità e/o maniera, anche autoalimentata; di estetica del multiplo, di cliché come arte ecc. (a margine: il cliché come arte è (sarebbe) già un buon approccio al complesso, se non si limita ad essere un atto artigianale (o puramente concettualizzato) con cui si prende un qualsiasi frammento del reale - soggetto quindi di/a casualità - e lo si pone in un frame [stampo, forma, cast] pre-parato). Parlo di una postura, o del rischio di essa. Una cosa che nessun poeta ammetterà mai, ma è la riproducibilità (sempre per restare a Benjamin) della forma (per quanto informe), la collocazione in un confortevole punto di quiete, una cosa che Sonia può comprendere perché non dissimile da una malattia che lei chiama "esordismo", c'est à dire la riproduzione dei temi e moduli uguali a sé stessi, per una sorta di confortante conformità a qualcosa di primevo che - aggiungo - sembri aver raggiunto una propria "economia" funzionale. Oppure, dall'altra parte, come dicevo all'inizio, che l'informale mimetizzi l'indicibile (o quel che si può dire di esso) confondendolo con il suo essere "naturalmente" oscuro (che è in sé una categoria nobile - e indagabile), (ri)calcandone il gradiente di impenetrabilità ecc., che sia quindi una parola - certo involontariamente - "organica", come si diceva una volta, a un contemporaneo (ultra o meno) la cui complessità non è certo governata dal poeta ma che il poeta, a mio avviso, deve tentare di penetrare, senza rimbalzarci sopra come un sasso su uno stagno. Cosa, lo ammetto, non facile, ma che rappresenta una sfida per il futuro. Inutile dire a questo punto che questo libro antologia prende le mosse da un assunto implicito, che cioè il punto di partenza (di questa mappa o di altri itinerari) sia la poesia di ricerca o sperimentale - per quanto qui solo nella sua veste semica e lineare - in ragione del suo accreditamento di stato dell'arte avanzato della poesia (un accreditamento, per inciso, a volte un po' "auto-") e per conseguenza più aderente al contemporaneo "ultimissimo" o "iperattuale" (Caporossi) di riferimento. E forse questo libro può apparire come un repertoire linguistico e di competenze, di fatto centrato su uno specifico. Ma l'assunto della curatrice deve essere accettato, pur con i suoi rischi e i suo punti critici. Non solo perché della poesia di ricerca non c'è, come invece sostiene qualcuno, una egemonia perfino ridicola da supporre e pertanto essa non può che essere considerata un territorio "coltivabile" al pari di altri, soprattutto se si cominciano a respingere rigidità di canoni, codici, paradigmi; ma anche per il fatto che, al di là di tutte le considerazioni fin qui fatte, questo libro è prezioso e meritorio, perché offre non pochi spunti di dibattito (ce n'è un gran bisogno) e perché mi pare non voglia affatto essere un punto di arrivo. Ma soprattutto perché ci leggo una ambizione di fondo, che è quella che dovrebbe avere una critica seria. Ovvero ciò che credo la critica oggi, se ancora ha una funzione, debba fare: concorrere ad identificare non linee ma percorsi conoscitivi od estetici (che in arte è lo stesso), arrogarsi il diritto di "inventare" o imporre scoperte, argomentandole e difendendole, ma soprattutto di rinvenire snodi, punti di frizione, articolazioni, percorsi non battuti, indicando sentieri apparentemente invisibili. In questo sì "impura", o al contrario totalmente pura perché il suo lavoro non è più trovare il "buono", o giustificazioni plausibili al lavoro di questo o quello scrittore specie se "difficile", o "nuove ontologie", che è una cosa che fa ridere i polli. E' semmai quello di trovare idee, o "concetti", (e quindi fare un "atto di creazione" per dirla con Deleuze). Mi pare che Caporossi sia decisamente orientata in questo senso. E tuttavia, se il legante è quello che individua Sonia, ovvero di un "potere autonomo e autotelico della parola" che può svolgersi fino al "raggiungimento del livello informe della parola (stessa), condizione fluttuante in cui il senso si concede alla comprensione, di volta in volta, nell’atto del suo stesso farsi", non so se questo può bastare. E' in primis quella "condizione fluttuante" che mi fa pensare che racchiuda in sé un'alea e che mi fa temere una scrittura/guscio di noce alle mercé di una brutale corrente, per dirla con Shakespeare. E poi forse si tratta - forse - di un problema categoriale, un ambito in cui si possono far confluire anche troppe esperienze, anche decisamente contraddittorie, come è successo nelle arti plastiche e figurative con l'informale, che comunque possiamo considerare morto già alla fine degli anni Novanta. E tuttavia, ancora, questo lavoro ha in sé un elemento fecondo ulteriore (ma non involontario, ultroneo). In realtà, cioè, questa antologia, i cui autori - come annota Caporossi - sono "ondeggianti sul filo pericoloso che separa la natura crassamente lirica della poesia dal filone sperimentale o di ricerca", potrebbe con qualche giovamento essere osservata da una prospettiva verticale [longitudinale] che però non costituisce necessariamente un confine, secondo il concetto che dicevo all'inizio, tra aree in cui la parola informe è sì - per una parte rilevante - forma e medium, ma che poi veicola, a me pare, cose diverse, che mi sembra evidenzino, almeno qui, almeno due direzioni, ed è questo che mi interessa. Perché a un certo punto bisogna pur chiedersi, criticamente, in relazione al loro rapporto con la realtà, a cosa pensano davvero i poeti, qual è la loro spinta iconica/eidetica ad esempio, cosa immaginano davvero che io (anche come lettore-critico o anche empirico) legga o creda di leggere. Insomma che cosa vogliono dire. Giacché si tende, succede anche a me, ad accettare l'offerta linguistica dell'autore, specie se sub specie 'oscura/difficile', come l'oggetto [prodotto] "finito" del suo lavoro. Ma se si va ad analizzare davvero il precipitato, se si comincia a vedere cosa c'è dentro, le cose che ci sono dentro, allora appare evidente che in quella "oscillazione" citata (e che forse Sonia non ha voluto approfondire) c'è un punto nodale. Da una parte, in questo libro, c'è l'informe in cui davvero abita e agisce il "potere autonomo e autotelico della parola", ma nel senso che tende ad arrogarsi non tanto un potere di interpretazione (o forse di invenzione) del reale costituendolo con il verbo, quanto il diritto di contemplazione di sé, nel proprio farsi. Il quale farsi non è detto che sia regolato, come dice Sonia, dall'analogia intesa come "capacità logica (e ancor prima, prelogica) di porre nessi metaforici tra l’immagine poetica e la semiosfera esperienziale di riferimento". Rimane infatti il problema, tanto per capirci, di chi debba avere questa capacità logica, se l'autore, il lettore o entrambi. Come precondizione, immagino. Dall'altra parte di questo libro la parola informe (il cui grado di "informità" andrebbe comunque stimato, perché variante) mi pare che sia materiale plastico di rappresentazione, cioè ambisca quanto meno a rappresentare "ad arte" qualcosa che non sia solo la propria deformazione (seppure come imago di un reale difficile da penetrare). Cioè ambisca ad usare il linguaggio non solo in senso "strumentale" (come uno strumento risonante [autopoietico]) ma anche (o soprattutto) come mezzo conoscitivo o cognitivo, pur nel suo "farsi" dinamico (che vuol dire tendere a una innovazione della capacità espressiva della lingua). Su questo versante, a grattare un po' l'informe, poi il lettore trova la sua "soddisfazione", ammesso che in questo sistema il lettore sia contemplato (sia detto senza ironia: ad es. in molta arte contemporanea il fruitore, specie se passivo, non è affatto considerato come "variabile" componente del processo). Il qualcosa che sembra emergere a questa "longitudine" è un frammento di quella realtà (tralasciamo per il momento se complessa o meno), una parcella che possiamo meglio ascrivere ad una "semiosfera esperienziale", che però includa, perché no?, chi legge. Per capire meglio basta accostare i testi di autori - per fare qualche nome - come Bellomi e De Francesco, o Scarpa e Garrapa, o Porsia e Leonessa, o Tripodi e Riviello. Con le relative sfaccettature e con la cautela del caso, mi pare che lo sguardo, l'attenzione creativa siano orientati in due diverse direzioni, che all'inizio in sintesi avevo definito del "come" e del "cosa", ma che sono più propriamente prospettive, del linguaggio sul linguaggio e della lingua sulle cose. Che non sono necessariamente in contrasto, né, è ovvio, decisamente separabili (ammesso che debbano esserlo). Sono, nella migliore delle ipotesi, due campi di lavoro (ma non sempre entrambi di indagine). Il limite del linguaggio risiede in quello che dice: possiamo deformarlo alla ricerca di un senso aurale che confidiamo esista indipendentemente da noi e che sia di per sé in una qualche relazione con la realtà, ma credo che poi - senza farne una sovrastruttura - dobbiamo decidere in che direzione, verso quale indagine, su quali "oggetti" orientarlo, con tutta la "indisciplina" - per rovesciare un concetto foucaultiano - che compete all'arte. Poiché l'ultracontemporaneo, inteso come individuo oltre che come tangenza del presente, non può , al di là della sua definizione, che essere contenuto con quel reale complesso con cui anche come poeti dovremmo fare i conti. Come se fosse un enorme ipertesto. Io credo che la direzione sia quella. (g. cerrai) [1]
Parlerei - più che di mappe o se preferite di antologie - di
campionamento, anzi proprio lo suggerisco ai prossimi curatori di
raccolte. Campionamento di molte cose, se volete
anche nel senso sonoro e/o musicale del termine, anche in ragione
di una sempre maggiore smarginalizzazione del fare poesia (ammesso
che un margine esista) in territori, come quello della poesia
orale, nei quali il testo si smaterializza e ri-materializza nella
voce e dove il sample, specie testuale, non è infrequente.
(diciamo anche che il testo perde un po' il suo statuto, non solo a
favore della voce ma anche del gesto - e non sempre la poesia ci
guadagna). In margine: fluidità della poesia, digeribilità della
poesia (ammesso che sia un passo avanti), contro rigidità del mezzo
testuale, per sua natura poco spettacolare. Ma l'esempio
che ho fatto non deve essere limitante, anzi è solo un aspetto, uno
tra molti, della questione.
[2] Definire l’ultracontemporaneo acquisterebbe maggior significato se indicasse anche una svolta, oltre che una semplice fotografia del (ultra)presente. E poi, ultrac. in relazione a cosa? Che poi un point de repère, un rapporto col tempo, se vogliamo uscire dalla riserva della (in)comprensione del reale, dovremmo pure avercelo. L’ultracontemporaneo è destinato ad essere passabilmente [il] presente, per poi diventare semplicemente moderno, nella migliore delle ipotesi (e mi pare di essere d’accordo con I. Testa, citato in prefazione). E tuttavia è molto utile, se aiuta almeno a comprendere il presente [l'attuale], l'aria che tira. E se l'analisi dell'ultrac. evita la secca di somigliare troppo a quei prodotti open source che vengono forniti "as-is", cioè come sono, senza alcuna garanzia o ipotesi di sviluppo (to-be). Ma è evidente che bisognerà ancorare l'analisi a qualcosa d'altro, che non sia legato al transeunte. Per esempio ai fenomeni che scuotono l'oggi, che come sappiamo in Italia non riescono a trovare gran spazio (preciso: non sto parlando della cosiddetta poesia civile). Continua a leggere "" Giovedì, 20 settembre 2018Danilo Mandolini - Anamorfiche Danilo Mandolini - Anamorfiche - Arcipelago Itaca, 2018
Di Danilo Mandolini avevo già detto qualcosa circa tre anni fa, per una
raccolta antologica della sua produzione tra il 2010 e il 1985, che si
intitolava per l'appunto A ritroso (v.
QUI
). In questa nuova raccolta si ritrovano i tratti essenziali della sua
scrittura che avevo allora rilevato, a cominciare dagli elementi per così
dire strutturali del suo lavoro, che peraltro si riflettono sul modus,
sulla lingua, sull'espressione e in ultima analisi sulla costruzione del
suo mondo poetico: una certa dose di astrattezza riflessiva, che però non
preclude il senso né diventa linguaggio autoriferito, ma spinge semmai
verso più profonde considerazioni; un arretramento o decentramento del
soggetto (cosa diversa dall'io poetante) che corrisponde ad un allontanarsi
dal mondo per osservarlo nel suo manifestarsi, anche metaforico, da una
giusta distanza, come da un eremitaggio; un conseguente riferirsi alla
realtà come poco oggettuale, poco popolata di "cose" e più di parole che
tentano di descriverla, e men che mai di presenze umane, una realtà per
così dire metafisica (e citavo a mo' di esempio De Chirico - ma rimando
comunque a quella nota).
Certo, in questo nuovo libro mi pare ci si ritrovino quegli elementi. Ma ci
si rinviene anche un diverso approccio alle cose da dire, qualcosa di più
concettuale, in un certo senso di più sperimentale (prendendo il termine
con cautela). Questo dipende forse dal fatto che in A ritroso
c'era anche ancora presente il bagaglio delle poesie più giovani, ora non
disconosciuto ma diciamo acquisito agli atti, introiettato.
Anamorfiche, dice il titolo. Ovvero il restringimento dello sguardo, del
punto di prospettiva, del luogo e del modo, quelli e non altri, in cui
porsi per avere una visione "giusta" delle cose. Anamorfismo è questo, il
punto di disvelamento di qualcosa di recondito ma significativo, una
epifania, una metafora assoluta, che può anche rovesciare l'illusione,
l'idillio. Suggerisco, per capirci meglio, di dare un'occhiata all'esempio
più noto: "Gli ambasciatori" di Hans Holbein il Giovane (v.
QUI
).
Questo restringimento dello sguardo, questo punto eletto di osservazione
pongono già qualche questione (o sfida, per il lettore). Una riguarda mi
pare la concentrazione dell'attenzione poetica - così come avviene nelle
belle immagini scattate dall'autore che corredano il libro - sul dettaglio,
sulla parcella di realtà, intesi però come significanti o almeno come
indizi o sintomi di altro, di una porzione più ampia della realtà stessa,
sia essa interna e quindi intima del poeta, sia essa una parte di ciò che
il poeta percepisce del mondo all'intorno (e di cui inevitabilmente fa
parte).
L'altra concerne il fatto che questo restringimento dello sguardo o della
prospettiva (che paradossalmente moltiplica il particolare, offrendo al
poeta un repertorio sterminato di frammenti) accentua il focus personale
dell'autore sulle cose, che si riversa sulla scrittura e la forma, e la
sfida per il lettore, peraltro affascinante, è di ricostruire o reinventare
quella immagine o una radiazione il cui spettro può non essere percepibile
a tutti. Quella immagine cioè che è innesco di quella medesima scrittura.
E' evidentemente da parte del poeta un approccio per così dire sineddotico
(la parte per il tutto), di cui come lettori occorre prendere atto,
facendoci condurre. Ma è - in ultima analisi e in relazione a quello - una
interessante visione metonimica della realtà, almeno di quella che
interessa Mandolini. Ovvero una scelta coraggiosa e rischiosa, perché
l'autore (Danilo o chiunque altro) scrivendo deve costantemente chiedersi
se l'immagine che va formando lascia un sufficiente margine di suggestione
- interpretativa o emotiva - a chi legge. E chiedersi - contemporaneamente
- se la contemplazione del particolare non nasconda un sotterranea fuga dal
tutto, dalla complessità ingovernabile della vita (che è invariabilmente il
tema centrale di questa poesia). Una scelta, torno a dire, in qualche
misura eremitica, una posizione da dove "è cogliendo e osservando / questa
minima dinamica / che si può vedere il tempo / nel lampo breve...",
qualcosa di infinitesimo e ineffabile che sta "tra ciò che ascolterò / e
ciò che scorgerò sopravvivendo / nelle pieghe immateriali, / nelle
increspature che non vedo - / ora, qui - / degli attimi a venire". E'
questo l'anamorfismo. Come in Holbein, è solo accogliendo l'invito
dell'artista a porci in quel luogo/tempo poetico (e accettandone anche
l'indeterminatezza) che è possibile forse intuire l'ammonimento, il senso
di ciò che in primo acchito è indistinto come una macchia. Il tentativo -
morfico, prospettico - è quello di uscire, almeno per il momento in cui si
realizza, dalla visione canonica. Un buon esempio è la sezione Crocivia (quindici blasfemie in loop), una delle migliori, dove
alla messa in scena di "un ipotetico dialogo degli uomini con il divino"
concorrono linguaggio e sguardo, in una interrogazione eterodossa e
impellente (e quindi, se volete, anamorfica, o - forse - "blasfema"), molto
umana ("[mio dio noi / ci pentiamo e ci dogliamo con tutto il cuore / dei
nostri peccati perché...Perché abbiamo peccato ma / tu...Tu dichiarati,
manifestati, pronunciati, / rivelati, almeno, come si rivelerebbe una bava
di vento...").
Un tentativo, quello operato da Danilo in questo libro, a cui la scrittura
concorre come può, con i suoi limiti oggettivi, facendo leva soprattutto
sulla capacità della lingua di astrazione, di simbolizzazione, di
"smaterializzazione" del concreto e viceversa di concretizzazione di quelle
"pieghe immateriali" in parole. Un approccio creativo che ha una sua
indubbia forza, perché non ha niente di crepuscolare o remissivo, è
piuttosto dettato - mi pare - dalla personale convinzione di Danilo che il
poetico, come un pneuma, risieda in insospettate insenature, il cui
rinvenimento è sostanzialmente un "dono"; e che quello che si riesce ad
afferrare della realtà è quel che si è, o almeno è quello che si è
come uomini/artisti. Il risultato è insieme rarefatto e affilato, con
l'eccezione forse di una sezione che sento in qualche misura "diversa"
dalla natura generale della raccolta. Alludo a Offertorio speciale (nove bizzarrie impoetiche) nella quale
Mandolini più che lo sguardo appunta il dito contro certi fenomeni
consumistici, fa una critica socio/politica del contemporaneo e di certe
sue bizzarrie, temi difficili da trasferire (come spesso in una poesia
"civile") dalla loro (dichiarata) impoeticità ai piani più alti che la
scrittura di Danilo frequenta. Un aspetto tuttavia marginale rispetto al
livello qualitativo ed estetico complessivo di questa raccolta. (g. cerrai)
Continua a leggere "Danilo Mandolini - Anamorfiche" Sabato, 18 agosto 2018Ivano Mugnaini - La creta indocile Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018
Avevo già cominciato a parlare brevemente di questo libro, o almeno di ciò
che sarebbe diventato, quando Mugnaini mi mandò alcuni inediti che di
questa raccolta avrebbero dovuto far parte (v.
QUI
). Il titolo era in pratica definitivo, ed in stampa è stato confermato;
mentre solo cinque delle quattordici poesie che avevo letto hanno trovato
la loro collocazione definitiva. Non è più tempo di farne un discorso
filologico, nell'era del digitale, della videoscrittura, di varianti
disperse in qualche hard disk, ma qualcosa vorrà dire di certo. Quanto meno
della cura e della disciplina con cui Ivano tratta la sua materia poetica,
e con essa il discorso che vuole portare avanti. E di quanto sia fedele
alla sua idea di fare poesia che tende innanzitutto a stabilire una
continuità di stile e di tonalità che è parte integrante di quanto intende
comunicare, in altre parole del suo "carattere", anzi - meglio - del
carattere persuasivo della sua scrittura. Riguardo al quale
confermo quanto scrissi riguardo sia a quanto avevo letto degli inediti sia
al suo libro del 2010, Il tempo salvato, (v.
QUI
). Che cioè consiste, il suo convincere placidamente, non solo nel trovare
la parola ancora serena, come ricorda Ivan Fedeli nella
postfazione, ovvero la continua ricerca di un livello comunicativo "medio"
(ma non mediocre) con poco da parafrasare e quindi confortante per il
lettore; ma anche nel riportare il suo mondo complessamente semplice
all'interno di una cerchia per così dire "domestica", e quindi comune
all'uomo, e perciò capace di creare un genius loci, un ambiente
quasi esorcizzante il mondo stesso. Che è semplice e complesso nello stesso
tempo, come si diceva, fatto di quella creta indocile dell'esistere che Ivano tenta di plasmare ad arte,
in sé complessa, ma che si manifesta per fenomeni, oggetti, evenienze in sé
semplici, linguisticamente decifrabili per quanto possibile, e tuttavia
pregni di un'altra e diversa dimensione su cui il poeta è chiamato a
riflettere, e da cui parte in riprese che a tratti mi rammentano Montale e
altri ("Allora, felice di aver capito senza avere / compreso...", "Eppure
non tutto è perfetto, c'è un brandello..."). Riflettere e sviluppare un
pensiero pacatamente, partendo da una salda fiducia nelle scrittura e nelle
radici anche culturali, stilistiche, robustamente novecentesche di essa
(*); è questo il registro principale di Mugnaini, una osservazione anche
dolorosa ma senza drammi (niente di esistenzialista) a cui il poeta
fornisce una trama dialettica nella quale gli accadimenti, i sentimenti, lo
scambio con la natura, la ricerca delle affettività trovano una
giustificazione di senso, non solo loro ma anche di quel esserci
dell'uomo. A questo si aggiunge un sentimento del tempo, generalmente
inteso, quel tempo che già avevo chiamato "il non domesticabile per
eccellenza", il tempo lineare in cui ogni momento, trascorrendo, diventa
subito memoria e quindi identità del vissuto. Mugnaini è poeta che parla
molto del tempo e - in un certo senso - fuori dal tempo si pone, in quelle
parcelle di tempo "salvato" - che poi è la poesia stessa al suo meglio -
che gli assicurano, come avevo scritto, "un'enclave psicologica e di
ethos". Nella quale il mondo si affaccia ed è nello stesso tempo escluso, o
almeno tenuto alla distanza, o forse non combattuto perché inutile farlo,
perché "è muto l'alfabeto del mondo", perché tanto le cose che contano, ci
dice Ivano, sono veramente poche ed essenziali, come ad esempio l'amore di
cui scrive pur sapendo che "scrivere d'amore non è più possibile, non ora,
/ non qui" se son si affronta, di questo tempo/mondo, "il niente (...) che
lasciamo trionfare, becero, sguaiato", e magari "la salvezza è nel riso
rubato alla ragione", il mondo è esorcizzabile "lasciando che il sole /
entri negli occhi e nella mente a petto nudo". C'è in Ivano spesso un
richiamo a puri elementi naturali che lo riconnettono con la naturalità
della vita, c'è un elemento spirituale, come avevo già detto, una pietas anche autoriferita che tende a superare, poeticamente,
anche inevitabili contraddizioni, ad esempio tra il mondo muto e il mondo
decifrabile che parla attraverso sprazzi di sole, visioni di donne, colori
, incontri, oggetti o "cose" tuttavia non inanimati, che sono lì per
"qualcosa". In molti sensi la realtà di Ivano è tutt'altro che complessa, e
se c'è un dolore alla fine è quello basico, fondamentale e quindi
"semplice" ma insidioso del pavesiano mestiere di vivere. Contro il quale
Mugnaini non grida, ma sul quale medita, non escludendo niente in verità di
quello che è concesso osservare, e quindi vivere con in fondo una certa
gratitudine, come scrissi, verso la plastica indocilità di quella creta. (g. cerrai) (*) Cultura non esibita, con quella certa timidezza che, conoscendolo, gli somiglia ma non lo condiziona. Un indizio: la mancanza di note al testo, pur essendo diversi i richiami. Una specie di ritrosia a mostrare cultura (ad es. un insospettato, insolito, Alfredo Giuliani dei Versi e non versi in Un'altra siepe di spine) Continua a leggere "Ivano Mugnaini - La creta indocile" Martedì, 31 luglio 2018Giuseppe Samperi - L'ora mora del giorno
Conosco Giuseppe da un po', anche se da lontano, come avviene in questi tempi digitali. Mi piace leggerlo, ne ho scritto altre volte. Mi pare di conoscere le sue inquietudini, il suo bisogno di scrivere, di fare poesia, un'arte - non è il solo a pensarlo - necessaria e inutile. Credo che possiamo considerare quest'ultimo libro di Giuseppe Samperi come un compendio. un tirare le somme, ce ne sono indizi. Compendio di vita e di scrittura, entrambi terreni di una ricerca esistenziale della quale la prima è stata ed è materia, la seconda metafora e strumento, come il negro sèmen dell'Indovinello Veronese. Ricerca insoddisfatta, come sempre, tanto che la vita sembra a volte osservata alla lontana, come dalla porta di casa che dà su una via assolata, mentre la scrittura è perennemente a rischio di essere dismessa, o licenziata, come un aratro non affilato a sufficienza che finiremo per lasciare arrugginire. Nella poesia di Giuseppe le due cose sono sempre andate di pari passo, c'è sempre stato un occhio che osserva contemporaneamente le parole che si vanno tracciando sulla carta e la penna che le traccia, l'oggetto e lo strumento, basta vedere a titolo di esempio tutto l' “inchiostro” che viene evocato in parola e sostanza in un altro suo libro, Il miliardesimo maratoneta, 2011 (“Regalo questo inchiostro, / scolatura che rimane / dagli accurati strappi”). E gli strappi, inutile dirlo, sono dolorosi. G
M
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Continua a leggere "Giuseppe Samperi - L'ora mora del giorno" Martedì, 3 luglio 2018Pietro Roversi - I pinguini dei tropici Pietro Roversi - I pinguini dei tropici - Arcipelago Itaca,
2017
Un libro singolare, questa quarta raccolta di Pietro Roversi, che offre al
lettore un'esperienza abbastanza inusuale. Che deriva innanzitutto da una
visione delle cose e del mondo parecchio metaforizzata, traslata in una
dimensione insieme altra e insieme "regolata", ovvero con un suo ordine
accettabile, cioè in ultima analisi di una realtà quindi sopportabile.
Voglio dire, intellettualmente sopportabile, una realtà su cui agiscono
cultura, capacità espressiva, primazia del linguaggio, addomesticandola. Le
cose (usiamo ancora questo termine generico su cui il prefatore Davide
Castiglione ha detto in passato la sua) non sono solo quello che
sono, ma anche e soprattutto quello che il linguaggio le fa diventare,
relazionandole all'uomo che le osserva e ad altri significati. Naturalmente
quando si parla di linguaggio si intendono messi in campo non unicamente i
mezzi strutturali, sintattici etc., ma anche e di più tutti gli arnesi
retorici e espressivi, a cominciare da una raffinata ironia che si affaccia
molto spesso tra i versi. E alla quale concorre un uso anche estensivo di
rime interne ed esterne e di un ritmo ben articolato ma a bella posta
zoppo, dall'aria non di rado canzonatoria.
Il linguaggio stesso è metaforizzato (e non solo metaforico in senso
stretto, non è quello l'importante), nel senso che non esprime tanto
l'accostamento o la distanza con le cose, quanto - anche per via lessicale
- la sua distanza da una visione ordinaria di esse, come se i fenomeni
registrabili, i pensieri, i concetti o anche le impressioni fossero in
larga misura oltre che descrivibili soprattutto riscrivibili, o
latori, a saperle vedere, di altre e diverse informazioni. In questo senso
opera anche una continua dislocazione semantica, con un uso fusion di linguaggi specializzati, scientifici o settoriali che
porta con sé una diversa prospettiva, insieme per forza di cose a una
irrinunciabile, ancora, traccia ironica. Va da sé che in questo operare c'è
un rischio implicito, che consiste qualche volta in un "innamoramento"
autotelico delle parole, del gioco a volte insistito di esse, a discapito -
diciamo per semplificare - del contenuto.
Già il titolo, come è stato notato, è un ossimoro. Il che non vuol dire che
non possa rientrare nel campo delle possibilità, o almeno, cosa più
importante, dei desideri, anzi dell'immaginazione desiderante. Dire questo
significa dire, tra le altre cose, che il poeta (Roversi come altri) ha il
potere di riorganizzare il suo dettato come vuole, soprattutto in direzione
del simbolo (cosa ci fa, ad esempio, come giusto si domanda Castiglione, ai
tropici un uccello inetto al volo e adatto al freddo? sarà immagine, si
suppone, di chi è costretto a migrare). La poesia di Roversi si nutre molto
(e molto restituisce) di questi salti di potenziale e delle risposte
implicite che offre al lettore disposto a vederle. Direi anzi che si
istituisce in gran parte su questo tipo di spostamento tra non mediato e
allegorico, tra reale e sur-reale. Si tratta anche, in relazione a quanto
si diceva sul linguaggio, di cercare e superare certi limiti, una vena
sperimentale che non riguarda quanto si intende con questo termine in
letteratura, bensì un atteggiamento mentale e culturale (l'autore è
ricercatore biologo) di messa in discussione dell'acquisito, provando e
riprovando, per dirla con il motto dell'Accademia del Cimento. Per
descrivere temi alti e bassi e anche, ma sì, filosofici: la vastità dello
spazio, il tempo, l'inesplorato, certe dinamiche della società, il luogo
comune, i rapporti sessuali o sentimentali o semplicemente il vivere,
magari quotidiano, il proprio esistere (specie nella sezione che titola il
libro). Cosa tutt'altro che semplice, ma Roversi ci mette una certa stoffa.
Il tutto è scosso da una domanda semi-serissima e insieme disillusa/elusa:
che cosa e come ci stiamo a fare qui, di certo noi, ma io personalmente? La
risposta è spesso, specie per via di quel monotonale basso continuo
satirico a cui allude anche Castiglione e che non sempre è diretto
all'esterno: non prendiamoci troppo sul serio, perché forse non ne vale la
pena. E come scrive Roversi: "Avrò pure diritto / allo sperpero, al mistero
fitto fitto / del desiderio, mio bilanciere, sonno e pudore". Ma è proprio
così?, si chiede chi legge. Paradossalmente, a volercelo trovare per forza,
in questa poesia un senso del tragico c'è, sta lì. In questo cogente riso
sardonico, in questa immanente puntuta vena epigrammatica, che forse
nasconde un dolore. O forse lo sperpera, sperpera la materia stessa di cui
questa poesia è (potrebbe essere) fatta. (g. cerrai) Continua a leggere "Pietro Roversi - I pinguini dei tropici" Venerdì, 8 giugno 2018 Joan Josep Barceló i Bauçà - Collegamenti covalenti - Aletti
editore, 2017
Joan Josep Barceló è un poeta catalano, anzi per la precisione
maiorchino, che ha intensi e frequenti rapporti con l'Italia e la sua
poesia. L'ho incontrato di recente a Bologna, dove era uno dei
finalisti del Premio "Bologna in lettere" per l'opera inedita. Ho
ascoltato le sue poesie in italiano, ho chiesto che le rileggesse nella
loro versione originale, in catalano. Lo scopo era ottenere proprio
quello che mi aspettavo, un senso/suono, una musica appunto
"originale", cioè qualcosa che filtra in chi legge o ascolta ad un
livello un po' più sub-limen, più vicino all'atto di creazione. La
poesia è anche questo.
In questo libro, tradotto in italiano (anzi riscritto, non vi è testo a
fronte) dallo stesso autore, ritrovo senso, suono e liricità di quelle
poche poesie ascoltate. La conferma di uno stile, di una disposizione
poetica che mi erano piaciuti, una poesia che sfuma le cose, le
percezioni, le esperienze, le avvolge in una atmosfera vagamente
surreale che le agita. Liriche soprattutto, sì, voci di un io molto
presente però non particolarmente egotico, capace di muoversi abilmente
tra altezze diverse, diciamo tra una terra tangibile, amorosa e
sensuale, e quindi grata e vitale (una "esegesi terrosa che crea la
vita"), e un cielo dove insieme collocare e da cui trarre la parte
volatile, la dimensione extrareale dei nostri pensieri, forse delle
nostre angosce o dubbi circa l'esistere. Come i legami covalenti a cui
allude il titolo (una proprietà chimica, una sovrapposizione, anzi una
comunione di atomi che annoda elementi) gli elementi materiali e
immateriali (come ad es. lo sperma e l'aura sentimentale delle
relazioni amorose) della poesia di Barceló si fondono, creano un
diverso o più forte oggetto. Non è tanto da dove si muove, questa
poesia, quanto dove giunge, dove si realizza - anche velocemente (i
testi sono tutti relativamente brevi), anche semplicemente se si vuole
- "l'artificio che gioca con l'aria". Mi pare che ci sia nella poesia
di Barceló una fiducia sia nel potere evocativo del suo particolare
linguaggio poetico, che per l'autore appare essere tanto più forte
quanto più esso è sfumato, o - come si diceva - "semplice"; sia nel
manifestarsi, con altrettanta immediatezza, dell' avvenimento
poetico in ogni momento, come un fatto naturale su cui
costruire il suo testo. Cioè per Barceló la poesia è ovunque e ovunque
determinata, per quanto molto di essa ruoti intorno a un centro in cui
l'io, poetico e autoriale, si colloca stabilmente. (g. cerrai)
Continua a leggere "" Mercoledì, 30 maggio 2018Luigi D'Alessio - Louis Luigi D'Alessio - Louis - RPLibri 2017
Chi è Louis e che cosa cerca? E' una battuta ma
anche una domanda legittima, poiché Louis non è solo il titolo di questo
libro (esordio promettente della collana Poesia di RPLibri), ma è
soprattutto la presenza percussiva che si affaccia da ogni singolo testo di
questo libro e ogni volta si presenta indirettamente come personaggio
("Louis una sera...") o viene presentato ("Louis mi disse..."). E una delle
prime conseguenze per il lettore è che, essendo Louis sempre in scena,
perde di importanza il prima e il dopo nella sequenza delle cose e dei
testi medesimi, e non è un caso che come struttura questo libro non
presenti alcuna ripartizione in sezioni. Se da una parte, paradossalmente,
questo facilita le cose al lettore, libero da ogni sequenza, dall'altra
sembra calare le evenienze, gli avvenimenti ecc. in un tempo
indifferenziato nel quale gli eventi si manifestano come puri accidenti
incastonati in quel tempo medesimo, dal quale peraltro sono impossibilitati
a sfuggire. Accidenti che però "significano" e che, verso dopo verso,
finiscono per costruire, per punti e linee, un quadro, un insieme organico,
e quindi a tutti gli effetti un poema. Ed anche una storia, se si prendono
in considerazione sia l'uso costante di tempi verbali al passato che
determinano la "chiusura" e il sigillo degli eventi, sia il ricorso ad una
brevità aforistica dei testi che non concede margini né repliche e che dà
al tutto un'aria vagamente mitica. Così è, insomma, come una vita marcata
non tanto da epifanie, ovvero rivelazioni o agnizioni, quanto da conferme,
capisaldi, elaborazioni di evidenze guardate con occhio intellettualmente
smagato e forse un po' autotelico (c'è dietro questa scrittura una cultura
non indifferente e cosciente di sé che si esplica e si annota). La
registrazione del passato tuttavia, poiché disposto in frammenti, non è
necessariamente lineare, né impedisce, almeno come affascinante ipotesi, la
riscrittura e forse la revisione della storia stessa.
Louis e Luigi sono la stessa persona? Sì e no, ovviamente. Da una parte c'è
l'artificio di un non dichiarato eteronimo (in effetti non sappiamo davvero se e chi), dall'altra c'è la messa in gioco
dell'immaginazione, senza la quale nessuna opera d'arte è data. Possiamo
definire Louis un deuteragonista di un Luigi che passivamente ascolta o
registra, ma è più probabile che sia uno stratagemma, un camouflage
dell'io, un io forse antilirico e defilato e tuttavia abbastanza lontano
dal "tu" impersonale e proiettato su una parete che si trova in tanta
poesia nostrana, e questa distanza lo dota di una notevole originalità. Uno
scambio tra personae che alla fine, a pensarci bene, risulta
essere un io aumentato, un super io capace di scendere a maggiori
profondità. E che non è, per stabilire un confine, un doppelgänger
, un altro da sé di diversa polarità, il villain che dice cose che
Luigi non direbbe, anche se Louis talvolta prende il sopravvento, una
specie di superiorità intellettuale, di acribia ("Louis pronunciò quella
parola / spiegando la differenza / tra maiuscolo e minuscolo. / Come fossi
scemo scrisse Tempo e accanto tempo"). D'Alessio, che certo ha letto Borges (che vi si ritrova in certe circolarità labirintiche)
e anche Pessoa, deve aver ragionato sulla questione dell'eteronimo,
ritenendola insoddisfacente ("Louis cercò lungamente / - ma Louis disse a
lungo / un eteronomo. / Non lo trovò. / Louis si convinse di aver perso /
una opzione della morte") e Valentino Fossati, nella post fazione, afferma
che Louis "non è un alter ego in senso stretto...ed è limitante definirlo
escamotage e finzione". Lasciamo la questione aperta, ma diciamo di
inquadrare Louis almeno come deus ex machina, o macchina soltanto, inteso
come macchina teatrale. Su un paio di cose direi di essere d'accordo con
quanto dice Fossati più o meno esplicitamente: una riguarda il rapporto
diciamo psicologico tra l'io che scrive (non necessariamente
l'io/personaggio) e il personaggio Louis il quale permette di superare "il
pudore dell'abbandonarsi, del rivelarsi, ma anche del proprio stesso
(confessabile) narcisismo". E forse soprattutto, aggiungerei, di allargare
il campo dell'immaginazione e della fantasia/fantasticheria (si vedano gli
incontri/citazione di personaggi noti). L'altra annotazione riguarda un
elemento anche per me interessante, ovvero una doppietà diegetica (una voce
"dentro" e una voce "fuori", dislocazione di episodi, ecc.), e anche una
struttura a flash o scene brevi di una certa somiglianza con il linguaggio
per immagini cinematografico (Fossati a titolo di esempio cita
opportunamente Tarkovskij), qui riferibile soprattutto a "frammenti di
pensiero [che] sovrapponendosi, assemblandosi, diventano intercambiabili".
Si tratta, tutto sommato, di un atto di semplificazione, di semplificazione
della complessità, proprio a partire dal linguaggio, diretto, privo di
fronzoli.
Ma di che cosa parla Louis? Diciamo che parla principalmente del suo essere
al mondo, delle ragioni del suo essere al mondo, in altre parole di
esistere, di una sua autonomia rispetto alle stesse ragioni della sua
"invenzione". Attraverso il dialogo, peraltro molto sbilanciato a favore di
Louis rispetto all'io che qualche volta si affaccia, Louis racconta a
Luigi, a volta con toni surreali, i suoi pensieri, le sue considerazioni, i
suoi incontri intellettuali, i suoi amori, le sue "fissazioni" ("Louis
fotografava porte. / Più di una volta Louis / intraprendeva viaggi / per
fotografare porte") che a loro volta generano nuclei di pensiero, "schegge"
papiniane o aforismi peraltro spesso lasciati "aperti" in finali (o
"inattese uscite") che sembrano saltare qualche step di senso rimandando a
significati "altri" ("A Louis poi gli parlarono / dei neuroni specchio.
Così / Louis si convinse / di poter amare pure senza Dio") o a tautologie che nascondono una fascinazione logica: "L'ultima volta che vidi Louis / fu l'ultima volta che ci vedemmo". Testi insomma
che traggono molta della loro forza da brevità e sublimazione,
condensazione e spostamento, e da una scrittura lieve e robusta insieme. In
essi, e nella loro duplicità, si manifesta, si consuma e si esaurisce
soprattutto una serrata schermaglia con l'esistenza e il suo epilogo, con
la morte quasi mai nominata (se c'è somiglia a un indeterminato svanire, come
quello di Louis alla fine del libro: "alla fine Louis alla fine / era come
uno sperso Valéry"; "Louis alla fine ricordo mi disse / Louis non mi disse
niente"). Il doppio, comunque lo si voglia definire, è anche la possibilità (potestà)
autoriale del sacrificio, un agnello Louis da condannare al silenzio al
posto di Luigi. (g. cerrai)
Continua a leggere "Luigi D'Alessio - Louis" Sabato, 28 aprile 2018Alessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specieAlessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specie - Edizioni Pietre Vive, 2016 - Illustrazioni di Giovanni Munari
Ogni tanto si parla di poesia civile, che non è una cosa che amo
particolarmente, perché secondo me è una non categoria, perché spesso
semmai è un concetto che tende ad giustificare un approccio retorico non
all'altezza della materia che tratta, perché come sviluppo delle tematiche
tende altrettanto spesso a prendere un andamento stilistico tra l'epico e
l'elegiaco un po' da ballata. Ciò non toglie tuttavia che ci possa essere
una tensione verso una scrittura politica, oppure "sociale", nella quale
l'autore si fa portavoce di problemi o tensioni di cui può anche non essere
protagonista diretto, ma magari spettatore sensibile, e comunque informato
dei fatti. Insomma, in parole povere, la poesia civile, come la scrittura
sociale a cui questo libro si riferisce, non è una cosa facile da fare,
soprattutto senza rinnovarla un po', come linguaggio e forse, perché no,
come prospettiva ideale e politica (nonchè umanista) dello stesso scrivere,
al di là dei temi specifici. (Rimando volentieri a questo proposito a un
autore che ha punti in comune e differenze con Silva, Fabio Orecchini - v.
QUI
)
L'adatto vocabolario di ogni specie
, tra l'altro opera prima di Alessandro Silva, parmense,
classe 1976, prende in esame un tema del tutto particolare, tentando di
farne un poema: si tratta dell'Ilva di Taranto e di ciò che vi ruota
intorno, drammi, dolori, lavoro duro, malattia, morte. Un tema, per dirla
tutta, quanto mai ambizioso, e certo coraggioso, tanto più se lo si vuole
rendere in poesia. Silva chiarisce subito i termini per così dire
cronachistici della vicenda, e lo fa per sommi capi nelle prime pagine in
prosa, una forma di giornalismo poetico dei fatti dal 1980 al 2014 circa,
che illumina lo sfondo su cui si muovono gli attori della successiva parte
in versi del libro, che è la sostanza del lavoro. Di corredo le belle
tavole di Giovanni Munari, che fungono un po' da storyboard, tendendo,
nell'intenzione degli autori, verso la graphic novel (mentre la Light Poetry, citata nel risvolto, mi pare che sia un'altra cosa).
A parte queste considerazioni marginali, il valore del libro (ma di opere
in genere mosse da una spinta di tipo etico) sta nella capacità, ove si
verifica, di universalizzare la narrazione e il dramma che descrive,
renderlo dolorosamente umano senza tuttavia - diciamo - omologarlo,
mantenendolo cioè unico ed eminente, quindi esemplare, nel vero
senso della parola. La sorte di Marcello (un operaio morto sul lavoro) è
sua ma è di tutti e viceversa, ed è appunto qualcosa di destinale a cui chi
legge per una serie fortunata di circostanze (il qui, l'ora ecc.) è
sfuggito, senza però poter sfuggire ad una coscienza a cui è richiamato, ad
una intima consapevolezza.
Silva ci riesce in varie occasioni, usando bene registri diversi che si
danno la voce all'interno di una struttura in versi sciolti privi di metro
e spezzati a volte bruscamente, e quindi sostanzialmente narrativa ma
divisa in episodi brevi (i testi in genere non vanno oltre la pagina), con
tratti discorsivi che qualcuno ha accostato a Pavese, ma senza il suo
ipermetro di derivazione anglosassone. Registri e tonalità che spesso e
saggiamente fanno ricorso al pedale emozionale e affettivo, sostenuto da un
tono complessivo tra il lirico e l'elegiaco, ma sempre evitando qualsiasi
accento retorico. Non so se la materia che Silva si è scelto derivi o meno
da una esperienza diretta, ma certo tutto il lavoro trasmette un impegno
(anche di studio, immagino) e una notevole sensibilità. E c'è anche, in più
di un testo, un interessante io/personaggio, c'è un io che però è del tutto
narrativo, o immaginativo se preferite (questo sì pavesiano), cioè "altro"
da quello dell'autore, e perciò finalizzato ad allargare il cerchio di
vicinanza empatica verso le vicende descritte. Che naturalmente non sono
solo quelle dell'individuo di fronte al lavoro, alla sua durezza e al
tragico che nel lavoro pesante è connaturato, ma anche al peso che il
lavoro stesso ha, la presa che ha e che non molla, sulla vita al fi fuori
della fabbrica, sugli affetti, su chi sta accanto. Sono forse le cose che
più hanno luce in questo libro, che più esprimono una vena intimamente
lirica che dà forza epica alla storia, che forse soffrono meno, se mai ce
n'è, di qualche vaga traccia di didascalismo, o di qualche "distanza" là
dove il linguaggio aderisce, volutamente credo, più al "vero" anche
cronachistico che ad una trasfigurazione metaforica di esso, o simbolica di
una situazione sociale più vasta, di un cancro più esteso; o che meno vanno
alla consapevole ricerca del "poetico".
Direi, per chiudere questi appunti, che il libro/progetto, l'idea
ambiziosa di cui parlavo all'inizio, di costruire qualcosa
di organico e strutturato attorno ad un tema forte, mi pare che sia
approdato ad un esito maturo e interessante, una sorta di "poema della catastrofe", certamente con i suoi pregi e i suoi (pochi) difetti ma una poesia di cui si deve tener conto. Un esito che lascia aperte diverse
aspettative riguardo a Silva e alle sue eventuali opere "seconde", spero
altrettanto feconde e coraggiose. Staremo a vedere. (g.cerrai)
Continua a leggere "Alessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specie" Lunedì, 9 aprile 2018John Taylor - L'oscuro splendore John Taylor - L'oscuro splendore - Mimesis Edizioni, collana
Hebenon
Secondo libro di poesie, questo di John Taylor, tradotto
in italiano dopo Gli Arazzi dell'Apocalisse, a parte il libro di
prose brevi Se cade la notte (Joker Edizioni), tutti nella
versione di Marco Morello. Bisogna ricordare brevemente, per chi non lo
conoscesse, che John pur essendo nato negli States è uno scrittore molto
europeo, non solo perché vive in Francia dal 1977 ma soprattutto perché ha
con la cultura europea un rapporto strettissimo e profondo, che non è
azzardato definire di vero amore. Traduttore di autori francesi o
francofoni come Jaccottet, Dupin, Perros, Jourdan, Calaferte e altri,
Taylor ha anche un forte interesse per la poesia italiana, che negli ultimi
anni si è concretizzato in due eccellenti volumi antologici in inglese
dedicati a Alfredo de Palchi ( Paradigm: New and selected poems, 2013 - v. anche
QUI
) e Lorenzo Calogero ( An Orchid shining in the Hand: Selected poems 1932-1960, 2015),
entrambi Chelsea Editions. Da ricordare anche nella bibliografia di Taylor,
sempre in riferimento al suo legame con la cultura europea, i suoi
importanti lavori Paths to Contemporary French Literature, in tre
volumi, e Into the Heart of European Poetry, tutti pubblicati da
Transaction, oltre al più recente A Little Tour through European Poetry (2015).
Dunque come si vede John è davvero, sotto molti aspetti, uno scrittore
europeo. E non solo per i suoi studi, ovviamente, o perché vive in Europa
da lungo tempo, ma anche perchè quella cultura e quelle frequentazioni
letterarie le ha accolte, quegli stimoli li ha fatti permeare nella sua
scrittura creativa. Questa raccolta ne è una buona testimonianza, poiché mi
pare vi si possa rilevare per prima cosa, almeno ad una prima lettura, una
distanza dalla poesia contemporanea americana (per quanto essa sia una
categoria troppo generica) non minore di quella che c'è tra le due sponde
dell'Atlantico. Naturalmente questa affermazione va presa con una certa
cautela, poiché John, al di là delle suggestioni culturali, elabora in
questi versi una sua personale idea di poesia, una sua visione delle cose
che certo trasmettono nei versi anche le sue origini ("frammenti di patria
sbiadita") e i suoi studi, ma indubbiamente accoglie in pieno (poiché la
ama) la lezione soprattutto dei suoi prediletti autori francesi. Una
influenza che è sostanzialmente lirica e forse, sullo sfondo, simbolista,
orientata a gettare sul suo personale mondo uno sguardo attento ma
sufficientemente disilluso, che non guarda tanto gli "oggetti" quanto
l'atmosfera, anche interiore, nella quale essi e l'autore sono immersi e si
trovano ad esistere. Manca qui, tornando a quanto appena detto, quella
"concretezza" anche un po' pragmatica che si ritrova in tanta poesia
americana, quel confronto dell'uomo con la natura e l'ambiente, sia esso
quello dei vasti spazi o quello urbano delle strade di New York (e tuttavia
nelle "cose" - things - che qui troviamo c'è un pizzico di imagismo
statunitense). L'uomo europeo, e con lui Taylor, guarda soprattutto dentro
sé stesso, anche per tradizione filosofica e, per tradizione letteraria,
almeno fin da Baudelaire e dai suoi eredi. In Taylor ci sono certo queste
suggestioni e potremmo ritrovare anche molta della leggerezza malinconica e
venata di ombre di Paul Verlaine, trasfusa in un linguaggio trasparente e
aereo (talvolta un "verso scarno", come lo chiama Marco Morello) che ben
trasmette inquietudini e interrogativi sospesi, alla ricerca di qualcosa
che penetri l' "oscuro splendore". In questo ossimoro si cela il mistero
stesso dell'esistenza di ciascuno, sempre esposta ad un imperscrutabile
destino o al caso, al calare di una notte anche in pieno giorno, di una
"luce striata di nero", che tuttavia, portando appunto in sé un arcano, non
può che essere splendida per la mente del'uomo, e ineludibile per
l'artista. Una dimensione crepuscolare (ma non nel senso letterario del
termine, o non solo) in cui è presente la coscienza "che questo crepuscolo
sarà oscurità / alla fine // un'assenza di luce // non questa mezza luce
consolante / sopra la neve". C'è spesso nella poesia di John uno sguardo
che tenta di penetrare l'incerto, trapassare una foschia reale o
metaforica, andare oltre una marea che svela e nasconde fondali o scogli
anch'essi simbolici, giungere fino a decifrare "iscrizioni / sul fondo del
lago deserto" (Il fondo del lago è la sezione principale del
libro) che ha sommerso "qualcosa che era prezioso // i suoi bordi incerti
smussati / dall'acqua". Come in un cerchio creativo, quell' "incerto"
nebuloso (che è in ultima istanza ricerca di senso) che John cerca di
diradare con i suoi versi, è lui stesso che lo tratteggia per mezzo di una
scelta appropriata di termini "blurred", sfumati, deittici "vaghi"
(qualcosa, talvolta, forse, tutto questo, come se solo allora) o interi
versi ("eppure le onde // sono questo / e quello // e nessuno dei due // e
uniche // anche se / vengono / e vanno"; "o semplice ombra // o miraggio // cosa si trova oltre // ma è difficile da guardare") che concorrono a dipingere questo
"incerto" (vago, indefinito) e che, soprattutto a un lettore italiano,
richiamano inevitabilmente certi stilemi, questi sì, del decadentismo, che
tuttavia devono essere ricompresi in una matrice simbolista a cui tutta la
poesia francese e europea attinge. C'è da dire che nella traduzione
italiana questo senso di indeterminatezza viene in qualche minima misura
accentuato, sia per una naturale scelta di termini legati alla cultura di
chi traduce, sia - per fare un piccolissimo esempio - per l'eliminazione di
elementi determinativi come gli articoli o i pronomi soggetto, in inglese
sempre presenti. Ma, al di là di queste marginali considerazioni, la cosa
importante è che il verso tayloriano derivante da tutto ciò è assai
suggestivo, limpido, efficace nell'espressione e tutt'altro che incerto sui
suoi obbiettivi, anzi perfettamente consapevole riguardo a ciò che intende
dire a chi legge. Qualità che da un certo punto di vista risultano ancora
più evidenti nei testi in prosa poetica, come John aveva già dimostrato ne Gli Arazzi dell'Apocalisse dove erano una gran parte, o nei
frammenti (qui presenti nelle sezioni Il boschetto e Il recinto), brevi aforistici lampi illuminanti nei quali con
grande piacere ho ritrovato echi e suggestioni di Pierre-Albert Jourdan, un
grande autore a cui Taylor ha dedicato molto del suo lavoro ( The Straw Sandals: Selected Prose and Poetry - Chelsea Editions,
2011). Testi nei quali, potremmo dire per concludere, John trova una intensa rarefazione. (g. cerrai) Continua a leggere "John Taylor - L'oscuro splendore" Lunedì, 12 marzo 2018Luigi Fontanella - Lo scialle rosso Luigi Fontanella - Lo scialle rosso - Moretti e Vitali, 2017
Nove poemetti o racconti in versi, scritti tra il 1999 e il 2014, ci dice in una nota lo stesso autore. Con una buona misura di anglosassone understatement, direi. E in effetti la prima cosa che salta agli occhi alla lettura di questi ampi testi lirici è come una necessità non solo di narrare una serie di eventi ma anche quella di fissarli, prima, come sopra una lastra e piegarli poi, modificarli e in sostanza gettarli sotto una nuova luce. Come si sa, infatti, ogni fenomeno varia e si modifica sotto l'occhio, magari innamorato, del suo osservatore. E' quello che fa sempre la poesia, la poesia buona, come atto di ricezione di ogni accidente, di ogni brandello di vita: diventare qualcosa d'altro, se non addirittura qualcosa di altri. Niente, per un poeta, trascorre inutilmente. Vige insomma, come scrive Paolo Lagazzi nella prefazione al libro, una "intermittente, appassionata, tenace memoria". Ricordare che sono tutte connotazioni che ci rimandano tra diversi altri a Montale è pleonastico, tanto più per Fontanella, tra le altre cose professore di Letteratura italiana alla New York State University (Lagazzi cita anche Savinio e Landolfi). Insomma, è la sua materia ed ogni eco non è altro che un indizio culturale scevro da qualsiasi epigonismo, uno strumento che si adatta perfettamente allo scopo. Come anche naturale, mi pare, è la vicinanza di Fontanella ad una consolidata tradizione letteraria non solo novecentesca, lirica soprattutto, ma che tiene ben presenti tutti gli sviluppi stilistici, appunto anche in senso narrativo e di aderenza al quotidiano, che soprattutto nel Novecento sono avvenuti. Se i richiami, più o meno soffusi, possono essere quelli che abbiamo detto, [tuttavia] qui non c'è molto di "occasionale" e non solo per la dimensione testuale delle poesie, che denota una articolata elaborazione del materiale poetico di partenza, ma anche perché questa poesia nell'evento non si conclude, non diventa epifenomeno di qualcosa che ha colpito l'autore, dirottando magari verso un esercizio di stile, è decisamente antirapsodica, come se esplicitasse la convinzione che l'occasione, se vi è, contiene una "storia" (statica, diciamo) e un seme (dinamico), in altre parole rimanda ad altre e ben diverse considerazioni, non necessariamente soltanto "poetiche". Per quanto la memoria, in tutto il libro, sia elemento naturale fondamentale, essa non è pura rimembranza, sia per l'apporto della rêverie, come annota Lagazzi, in costante dialogo con una realtà oggettuale, sia perché Fontanella ha chiari i suoi obbiettivi poetici. Che mi pare siano quelli di evidenziare una dimensione spirituale degli eventi, per quanto eminentemente laica, e un loro ethos, cioè, letteralmente, un luogo in cui vivere, in altre parole (e non è certo un truismo) la vita medesima. Per cui il fatto, nella dimensione poetica, diventa qualcosa di rizomatoso, per dirla con Deleuze, il fatto, per sua definizione "passato" e tuttavia non muto, rivive di un'altra vita. A me pare che si tratti di qualcosa di diverso dall'epifania, dall'agnizione o da un momento meramente ispirativo. Non è qualcosa di cui l'autore dice ah, bene, ecco un frammento di vita di cui può valere la pena scrivere, o non soltanto. Mi pare che questa scrittura diffusa, così fortemente fàtica, che descrive le cose nel loro aspetto sensibile e in quello meno evidente, sia un tentativo di ridefinire certi confini, che sono soprattutto tra la vita stessa (vissuta e - scrivendo - rivissuta) e la morte come luogo in cui non è più possibile dire. Potremmo definire tutto ciò semmai come una rivelazione, un disvelamento di implicazioni che però non provengono da nessun iperuranio, o da un''ispirazione di tipo romantico. Semplicemente già c'erano, sotto lo sguardo niente affatto passivo del poeta, che è facile che magari impropriamente ci ricordi, nel suo peregrinare per le strade di Firenze o New York, una certa flânerie baudelairiana. Uno sguardo inoltre che in molti di questi componimenti è condiviso, non solo con il lettore ma anche con chi, quasi sempre, è testimone dell'evento insieme all'autore. E se non ci sono testimoni, in queste narrazioni, ci sono personaggi letterari, gente incontrata per strada, amici e colleghi citati, exerga e rimandi letterari, che concorrono ad ampliare lo sguardo sulle cose. Sotto questo punto di vista potremmo dire che in questi testi non c'è una visione strettamente "privata", poiché mi pare che Fontanella non vi cerchi una catarsi personale, o una purificazione dell'esperienza dal prosaico a beneficio di un ipotetico lettore, ma che dia voce, per tutti, al possibile, soprattutto al possibile significato delle cose. In altre e diverse parole, non estetizza il suo materiale, e questa è una delle caratteristiche del suo stile. Il poemetto eponimo, Lo scialle rosso, è emblematico dell'approccio di Fontanella alla sua materia. In una piovosa e ventosa giornata di fine Aprile, lo scialle rosso della accompagnatrice del poeta vola giù da un ponte di Ottawa. L'accadimento si esaurisce subito, lo scialle rosso scompare dalla scena, per fare posto in sostanza ad un sentire, a un sentimento del tempo che poi lo scialle, che riappare negli ultimi versi, avvolgerà simbolicamente, proteggendolo e chiudendo il cerchio. In mezzo Fontanella sviluppa una canzone sulla fragilità, rispetto al caso, al mondo o all'essere altrove, la fragilità individuale, e tuttavia la resistenza, della poesia soprattutto, come emblema di un nucleo forte dell'uomo. Le intemperie, anche simbolicamente intese, sul ponte di Ottawa "sbriciolano" il gruppetto di amici poeti (e testimoni, si diceva), lì presenti, come Davide Rondoni, Plinio Perilli, Irene Marchegiani, e scomparsi, come Giovanna Sicari, e lontane evocazione italiane. Ma sappiamo che tutti, o almeno la poesia che rappresentano, si ritroveranno. Lo scialle rosso quindi appare essere, come dicevo, non tanto un elemento epifanico e nemmeno un correlativo, quanto un potente marcatore mnemonico, in più carico dei segni del colore e del volo, da cui l'autore procede a costruire il suo impasto di narrazione e sogno. Nel quale la memoria non si esaurisce ma si rinnova come rappresentazione e immaginazione (lo stesso Fontanella rammenta, in una nota, il "connubio, che mi è caro, oscillante tra immaginazione e memoria, così come ne parla André Breton nel saggio Situazione surrealista dell'oggetto"), pur essendo questa poesia, va detto, ben lontana da territori surrealisti o anche simbolisti. Naturalmente questo registro, che si ripresenta anche in altri poemetti importanti come Dittico praghese e The old town, non è l'unico di cui dispone l'autore. In altri testi, che per alcuni aspetti preferisco, come Lettere al padre e Canto del distacco, il tono è più eminentemente lirico/elegiaco, o forse nervaliano come dice Fontanella, ma certo più venato di un intimo e privato sentimento di rimpianto, una affettività che in un certo senso ci avvicina maggiormente al poeta, testi in cui si allenta un poco la vena descrittiva, meno assiepati di "oggetti" e di nomi, un linguaggio che non ha necessità di articolarsi in narrazione o di dire "tutto" (come ad esempio in Old Town e Efemeridos) perché lavora sul piano di una percezione pura o se volete di un'empatia in cui gioca più il cuore che l'intelletto. (g. cerrai) Continua a leggere "Luigi Fontanella - Lo scialle rosso" Giovedì, 25 gennaio 2018norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre - Edizioni
alpha beta Verlag, Meran/Merano, 2017 Ci sono coni d'ombra, nella poesia italiana, zone in cui il lettore arriva con grande difficoltà o per caso, paludi di oblio che spesso corrispondono ad areali linguistici minoritari ma a cui non sfuggono nemmeno altri, se non interessano all'accademia o all'editoria, un'ombra che a volte si illumina per caso. Mi è successo, per fare un esempio, con Roberta Dapunt (v. QUI ). Ed ecco, ringrazio per questo Francesca Corrias, un altro poeta che non conoscevo. norbert c. kaser (sì, proprio così, tutto minuscolo, come lui preferiva) è un caso del tutto particolare, che trova in questa ottima pubblicazione (a cura di Toni Colleselli, traduzioni di Werner Menapace, introduzione di Lorenza Rega) la collocazione antologica che merita. Poeta e scrittore altoatesino bilingue, nato a Bressanone nel 1947 e morto a Brunico nel 1978, kaser ha avuto una breve vita travagliata, vissuta in condizioni disagiate e solitarie, con vari tentativi frustrati di essere e sentirsi parte di qualcosa, fosse la religione cattolica (un anno in un convento dei Cappuccini), o la politica, nel sindacato prima e nel partito comunista poi, oppure l'università, abbandonata nel 1971. E poi vari lavori precari per sbarcare il lunario, compreso quello di maestro di montagna, e il ricorso all'alcool, che ha avuto una parte rilevante nella sua salute e nella sua morte. In mezzo una presenza di polemista, di attivista politico, di feroce critico di un rigido establishment sociale e letterario di cui soffrivano indifferentemente artisti tedeschi e italiani (a questo proposito va ricordato che kaser, al di là delle note vicende separatiste dell'epoca, ha sempre sottolineato la sua italianità). Come kaser ebbe a dire (citato da Lorenza Rega): “Lentamente svaniscono i pregiudizi nei nostri confronti. A noi spetta la parola! Qui dalle nostre parti si aggirano ancora così tante vacche sacre che non si riesce a vedere niente al di fuori di questa mandria. Ma la festa dopo il macello sarà imponente. E vi parteciperanno anche gli italiani. Anch’essi hanno una mandria di vacche sacre. I macellai hanno all’incirca la mia età. Il Sud tirolo avrà finalmente la sua letteratura e di un valore e importanza tali che nessuno può oggi immaginarseli.” Il rancore che kaser sentiva crescere nel ventre aveva anche queste dimensioni, che forse possono apparire tra l'incendiario e il futurista, ma che danno un'idea di una potente rivolta culturale, e che se contestualizzate rispetto alla realtà altoatesina del tempo possono fare affermare, anche a uno studioso attento come Claudio Magris, "atteggiamenti letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o patetici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo” (cit. da Toni Colleselli). Il che, in un certo qual modo, è un giudizio parziale, riduttivo, perché rischia di confinare kaser in una posizione decentrata, locale, o appunto contestativa, mentre stile, temi, qualità della scrittura e anche ricerca linguistica trascendono le "occasioni" che hanno generato il suo lavoro. Il libro, un corpus di 175 testi in versi e in prosa (le poesie sono 140 di cui 15 scritte direttamente in italiano), ci restituisce un poeta di assoluto valore, a cui non è difficile riconoscere la qualifica che gli assegna Toni Colleselli di "maggior poeta italiano di lingua tedesca", tutt'altro che un poeta a cui affibbiare quella specie di apolidia che si associa alla letteratura di "confine". I temi sono molteplici, e certo kaser ha sempre in sé il concetto di heimat, fondamentale in tutta la letteratura germanofona, portatore di un legame non necessariamente costrittivo, ma anzi fecondo, con la tradizione; c'è certamente il continuo rimando alla realtà anche locale, alla cronaca, a un sentire politico e sociale, al paesaggio della sua terra spesso interpretato come grande correlativo oggettivo di un inquieto sentimento dell'esistenza; c'è una visione disincantata e certo pessimista della vita, c'è l'amore, c'è un sotterraneo dialogo con Dio, c'è la visione poetica delle città e dei luoghi visitati fuori dal Tirolo, c'è il gioco linguistico e l'invenzione fiabesca nei testi che scriveva per i bambini a cui insegnava. Ma quello che più colpisce in queste poesie è un rapporto con il mondo forse pessimistico come si diceva ma non domo, non difensivo, non ripiegato su di sé, non autocommiserativo, c'è semmai una pretesa di risposte a molte domande, l'inesausto tentativo di superare una situazione di "inceppamento" (Magris) culturale, sociale, generazionale. Anche se, aggiungo, chiudendo il libro resta un finale drammatico senso di cupio dissolvi. C'è in questa voce, come giustamente nota Roberto Galaverni in una nota apparsa su La lettura nell'ottobre 2017, "qualcosa di duro e d'irrisolto, qualcosa come un'indignazione fondamentale, come un'impossibilità di tregua [che] attraversano dall'inizio alla fine i versi di questo poeta, tanto da porsi come il suo carattere più distintivo e qualificante". E' questo carattere ad imporsi sulla scrittura stessa, che può apparire alla prima con tratti sperimentali, per aspetti visivi e linguistici, scrittura invece "motivata da ragioni niente affatto letterarie ma immediatamente storiche ed esistenziali" (ancora Galaverni). Un libro di così alto valore che, a differenza di altre mie letture, c'è davvero l'imbarazzo della scelta (comunque sempre arbitraria e ingenerosa) nel selezionare qualche testo esemplare da proporre qui. (g. cerrai) Continua a leggere "norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre" Lunedì, 8 gennaio 2018Per espresso desiderio dell'autrice, che ringrazio, pubblico con grande piacere, in aggiunta al post del 6 gennaio dedicato a Elia Malagò, il testo completo della plaquette lalange da cui avevo estratto solo due poesie, con la prefazione di Antonio Prete, seguito dall'altra breve raccolta pubblicata sempre da Fuocofuochino nel 2015, dal titolo del disamore, con prefazione di Zena Roncada. Entrambe le plaquettes dovrebbero rientrare, insieme a diversi altri testi, nel prossimo libro a cui Elia sta lavorando con impegno da qualche tempo, un lavoro che personalmente attendo con grande interesse. Con l'occasione ringrazio anche l'editore Afro Somenzari per la sua amichevole disponibilità.
lalange La poesia di Elia Malagò è resto di una lingua cancellata. Un resto che prende respiro e energia, e sale verso la libertà dell’immagine e verso la parola essenziale e necessaria. In questo movimento, aspro e dolce insieme, la lingua porta con sé un sentire che conosce la ferita, il limite, lo scacco del desiderio. Un sentire che sa sporgersi lalangesul vuoto di senso, sul dolore del mondo, su quel “pianto disseminato” che è poi la storia degli uomini. Con questa nuova lingua – la riconoscibilità del poeta è proprio nell’edificazione di una nuova lingua, quella “langue nouvelle” di cui diceva Rimbaud – la poesia di Elia Malagò può farsi interrogazione del visibile, e allo stesso tempo dialogo con il visibile, con il suo mostrarsi e il suo nascondersi, con il suo distendersi nel paesaggio fluviale e il suo ritrarsi nell’aridità. Un universo stranito, opaco, doloroso prende campo: parvenze di quel che è assente, frammenti di una memoria d’infanzia che non lascia detriti ma corpi e gesti e luoghi vividi nella loro lontananza, sguardo sulle ferite e sulla cenere che il sapere della civiltà ricopre di indifferenza. Il desiderio non cessa di confrontarsi con i suoi orizzonti occlusi o offuscati. Ma in una natura che mostra la sua potenza e talvolta il suo patto con l’apocalissi, si aprono a tratti cieli liberi e fluttuano immagini di forte presenza, di cui “l’estate che correva per mare e scollinava” è quasi emblema. Che sia fosca o limpida la scena, i versi collocano ogni volta il lettore di colpo nel mezzo dell’accadere. Ma tutto accade nella lingua, nel suo prendere luce e vento, suono e respiro, senso e dolore, libertà e vigore. Questo accadere nella lingua è la poesia. Antonio Prete 1 ho dimenticato la lingua del pianto e non so più i sapori che a cascata stanziano sotto il naso insalano le labbra guazzano il mento sbriciolano il silenzio e idioti mescolano muco e arcani vergognandosi mi vergogno di queste parole liberate sconosciute forsanche blasfeme 2 dico te ma sento me non ho lingua e preghiera tua che trapassi scorticata e venga fuori a brani gutturi inson miei 3 so che non c’è lingua cantilena forse di passi d’altri contati in sonni non sognati in notti di prima che il tempo ha sottratto so che di quella lingua cancellata da qualche parte resta un chiodo una polvere bluastro il barlume Nota. lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla soglie ma quante ce ne sono prima che l’oltraggio basti limiti che la verità buca con una sfrombolata e viaggiano e viaggiano viaggiano findove si spacca la terra si sfalda il muro di tufo precipitano gambe e braccia i piedi ancora nella sabbia gli occhi già inghiottiti dal sale quando tutta quest’acqua finirà di sole e vento, comincerà la conta il margine non lo aggiusti come ti pare la mattina che s’è placata la tramontana non è la siepe che togli il dissuasore si apre nonostante le spine il margine è maestro che si prende corrente garbino piene e rottami conta i passi e le infamità confida nei due gradoni del sottobanca raccoglie confidenze e segreti mulina l’aria di colma e si gonfia di collere indicibili ma non lo aggiusti non si aggiusta ti ci devi mettere davanti senza socchiudere gli occhi spegnere libera solleva questo piombo di cielo contro la quarta parete che cade fitta di nubi a frastorno d’aria fogliame e rabbiume - diciotto anni prima che ancora la luna s’avvicini tanto misure e percentuali calibrate il faccione di matto fisso lì che ci guarda da qui a diciotto fanno un mazzo di steli l’erica svasata l’estate appena scorsa l’estate che correva per mare e scollinava senza campo a cercare menta e rosmarino avvitata lì a una menzogna che rabbiosa e cattiva si urlava dentro la sete la fame che ha traversato il deserto e succhia le ossa che trova ogni desiderio spento te la figuri la notte che non s’accende quando lo scuro incappa il cielo in un sacco di plastica e lo tiene stretto tra stelle scariche e antichi lallalli spersi nel deserto? che calenda di tempo e sperpero che splendore d’occhi tutto questo pianto disseminato Continua a leggere ""
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