Con Chiara Gini è nata un’amicizia “via fotografia”. Ho trovato, come
spesso per caso mi capita, in rete (su flickr) le sue magnifiche
fotografie. Le ho scritto, e lei mi ha risposto. Allora, noi ci siamo incontrati. Trovati..
Tempo fa, durante il nostro corrispondere, Chiara mi ha inviato
queste fotografie – come fossero dedicate – in un documento che
aveva per titolo la mia iniziale. Allora, io provo a dedicare, così, questo
a lei. Per il suo lavoro che sa essere così completo e senza
orpelli né effetti – per me fotografia e poesia: sono sorelle, sì. Non
importa se si tratta di una prosa (aperta e mossa) o di un verso (minuzioso
e di spalle) – quello che mi colpisce è che non vi è alcuna posa negli
scatti di Chiara, ma un talento (per quanto questa sia una parola a mio
avviso abusatissima, oggi più di sempre) che talvolta mi fa pensare anche a
quel grande semplice artista che è Luigi Ghirri.
Ma lei è già lei, è ben sottinteso.
Voglio condividere adesso questo “documento” con te, caro Giacomo nel tuo
“spazio” d’imperfette ellissi. (giampaolo de pietro)
(i versi/didascalia sono di Chiara Gini e Giampaolo De Pietro)
Soundtrack: The Red F - The story (mp3, necessita di browser con flash player abilitato)
Viaggiatrice - io ti ammiro. Musica benvenuta di un'amicizia.
Primož Čučnik - Trilogia (variazioni 2004 - 2014), a cura di Michele Obit -
Incertieditori, 2016, note di lettura di Loredana Di Pietro e Giampaolo De
Pietro
Primož Čučnik è nato nel 1971 a Lubiana, dove si è laureato in filosofia e
sociologia della cultura. La sua prima raccolta Dve zimi nel 1999
ha ottenuto il premio come miglior libro esordiente in Slovenia. I suoi
successivi libri sono stati: Ritem v rokah (2002), Oda na manhatanski aveniji (2003, assieme a Gregor Podlogar e Žiga
Kariž), Akordi (2004), Nova okna (2005), Sekira v medu (2006) e Delo in dom (2007). A Cracovia,
presso la casa editrice Zielona sowa, nel 2002 è uscita una sua miscellanea
intitolata Zapach herbaty. Sue poesie sono state pubblicate
nell’antologia A Fine Line: New Poetry from Eastern & Central Europe. Traduce
dal polacco e dall’inglese. Scrive inoltre critiche letterarie e saggi ed è
redattore della rivista Literatura nonché fondatore e redattore
della casa editrice di tascabili Šerpa. (Fonte nota bio: Librobreve).
Della Trilogia, raccolta di componimenti dello sloveno Primož
Čučnik degli anni 2004-2014, colpisce subito 'immagine delle nuove
finestre, a cui è intitolata la prima sezione della raccolta. Queste
alludono certamente ai nuovi scenari, politici e sociali, che si
affacciavano nella vita dei cittadini sloveni (nel 2004 la Slovenia entrava
a far parte della Comunità Europea) all'indomani della conclusione dei
conflitti tra le vicine nazioni dell'ex-Jugoslavia. (…) ciò che Čučnik
intende raccontarci, fin dai primissimi versi, è proprio il dissolversi
della scena collettiva, osservata come una parata alla finestra, (…)
un'identità difficile, non solo naturalmente divisa tra personale e
collettivo (…) ma anche frantumata e fluttuante: più che di instabilità, si
affronta qui una vera e propria alterità dell'essere, (…)
dell'essere uno ed essere molti (si cita qui il nume decostruzionista
Derrida), in un movimento che logora i confini del tempo e dello spazio, li
sbiadisce attraverso il continuo sovrapporsi delle immagini e delle voci.
(…) E dunque la poesia di Čučnik descrive, nella Trilogia,una
parabola apparente, in realtà un percorso circolare che si ricongiunge a se
stesso trascorrendo sui miti del tempo e della modernità, per ritrovare
infine una marca d'autenticità in quanto nel tempo resta immobile:
l'accadere spontaneo della natura, il calore di un canto ritrovato, con
fatica o forse con inerzia immemore (da una nota di lettura di Loredana Di
Pietro).
La poesia di Giampaolo De Pietro (come quella di alcuni
altri) mi rimanda, più che a suggestioni come si intendono in poesia, a
collegamenti alieni, o ad affinità culturali che magari possono apparire
paradossali. Ma tant'è, è il bello della poesia. Così avviene che
leggendo questo testo (o questi testi?), dall'apparenza frammentaria,
fatto di sprazzi e di brevi illuminazioni, di qualcosa gettato nel
campo della significazione che come sappiamo pertiene al lettore,
leggendo queste parole - dicevo - può capitare che venga alla mente
un'immagine, qualcosa di parziale, che parziale deve essere
perchè visto attraverso un pertugio, un buco della serratura. Oppure -
ed ecco la suggestione aliena - due fori in una antica porta spagnola di
legno1.
Perché in effetti quello che mi pare si evidenzi
in questo testo è uno sguardo parzialmente impedito, un invito ed
insieme una preclusione a comporre la scena, mediante l'immissione di
elementi reali e oggettivi che tuttavia non aspirano ad ancorarsi alla
realtà, anzi la parcellizzano e la indicano come impossibile da
comprendere nella sua totalità, da "sapere". "Chi sa, non vola", dice
infatti De Pietro. Che è come dire che il sapere, la conoscenza o anche
la comprensione sono risorse sì, ma che possono trasformarsi in zavorre
per l'immaginazione, per tutto ciò che là fuori è possibile
"comprendere" con altri mezzi, per "un ritorno alle nuvole, ambìto". E'
quello che si intravede, per rimanere alla nostra suggestione, che
assume un'importanza più vasta, e non quello che si annette al novero
delle cose, alla loro nominazione/numerazione. "Dovrei rendermi canto e
quasi mai conto", sottolinea infatti il nostro con un gioco di parole.
Il testo, la scrittura, la poesia è strumento e metafora non di contezza
ma di un viaggio, per lo più effettuato ad alta quota, tra "le nuvole
disposte per le nostre teste, intorno" (corsivi miei),
giacché "non si spreme la realtà, al massimo si prenota un volo", una
autentica dichiarazione di poetica. La scelta di uno sguardo "parziale"
è qui tutt'altro che limitativa se lo sguardo (come nelle foto che De
Pietro ama fare) è idealmente costretto come ad allungarsi oltre
l'angolo, oltre la fine della frase, se insomma ogni frammento (ma
usiamo la parola per brevità) ha a sua volta la potenzialità di essere
un incipit, di diventare qualcosa d'altro, sia nel senso che dicevo in
altra occasione (v. QUI), cioè di biforcarsi in sentieri diversi, di speciarsi, sia in quello di non solo aggirare il senso ma anche di raggirare il lettore, deviarlo un po' con molta della leggerezza che è una delle qualità migliori di Giampaolo. (g.c.)
Martina Campi - Cotone - Buonesiepi Libri 2014, con illustrazioni di Francesco Balsamo
Ancora una poeta, ma non è una questione di genere
(o non dovrebbe esserlo), è proprio una coincidenza. Anche Martina
Campi è passata velocemente in questo blog (v. QUI), qualche tempo fa. Se Estensioni del tempo era per me un canzoniere del tempo rallentato, del "momento", sostanzialmente astorico, in cui le cose "avvengono" tout court (e
in questo era perfettamente attuale, in sintonia con tantissima della
poesia italiana di questi anni), in questo ultimo libro mi pare che la
scrittura, almeno per la maggior parte dei testi, si sia ulteriormente
rarefatta, raggiungendo spesso una filigrana da cui traspaiono, più che
dei meri accadimenti, delle percezioni, degli umori, delle epidermiche
variazioni di temperatura. Non si tratta però di superficialita, né di
poetica del frammento (o del brandello) di vita, ma - semmai - della
necessità di avvicinarsi (nella "descrizione" comunque intesa) a quel
limite presso cui si può ancora significare con la parola (o suggerire)
senza cadere nel baratro dell'insignificanza o del rapporto autotelico
(ma con la fascinazione ultima, per dirla con parole di Martina, di un
"silenzio necessario"). C'è in sostanza in questa rarefazione una
sperimentazione in atto, un lavoro sulla parola che il lettore ben
percepisce, accettando di attraversare le radure, gli spazi, gli
interstizi che in questa scrittura si aprono.
Il punto di vista, io credo, è ancora quello
intimamente soggettivo, soggettivo fino alla scelta di elementi deittici
("Su scalini scolpiti nel bianco / si accalcano ginocchia. // Bisogna
uscire di qui! E restare vivi."; "Saremo sempre lì,
dove siamo / stati", corsivi evidenziati miei) che fanno diretto
riferimento ad una realtà (un dove?, un quando?) inconoscibile o vaga o
conosciuta solo da chi scrive. Una realtà conclusa che però persiste nel
presente con allungamenti come pennellate liquide su una tela, che
sfumano in una poesia dell'indeterminato, di un pensiero inquieto come
una conversazione faticosa o imbarazzata o un monologo a cui il lettore
è invitato ad assistere, a percepirne le eteree note di fondo
L'obbiettivo è quello, a mio avviso, della
rappresentazione di una instabile relatività emozionale o affettiva, di
una volatilità delle cose e delle relazioni che ciascuno di noi prima o
poi è chiamato a sperimentare, di una impermanenza eraclitea però tutta
contemporanea, cioè irrimediabilmente compromessa da una sostanziale
assenza di futuro, come un fiume che porti sempre la stessa acqua. E' un
segno dei tempi, o almeno uno dei diversi modi possibili di vedere
questi tempi che corrono, uno dei diversi approcci, anche psicologici,
di affrontarli come individuo solitario. Una volatilità per la quale
spesso lo stesso ricordo, inteso nella sua completezza "narrativa", è
inadeguato - come forse lo sarebbe, se qui aleggiasse, il suo gemello,
il sogno, pur con tutta la sua forza perturbante, o una immaginazione
"desiderante" - e si esplica in frammenti, echi, ripetizioni che pure
hanno un preciso obbiettivo impressionistico. Lo scenario è quello di un
quotidiano senza particolari connotazioni, "delocalizzato" direi, nel
quale non avviene realmente nessun "fatto" circoscrivibile, una
situazione limbica di oggetti sfumati in cui resta protagonista un
tempo dilazionato, una specie di attesa degli avvenimenti. In qualche
misura poesia dell'irrelato, sospesa tra causa ed effetto (ma questa
sospensione è un dato esistenziale diffuso), di un simbolismo dal
"respiro trattenuto", prendendo in prestito parole della nota di
Giampaolo De Pietro.
Ma detto tutto ciò, alla chiusura del libro resta e
permane una certa fascinazione, specie in alcuni testi ben scritti (v.
ad es. Dimmi che cosa vedi III) e specie ad una lettura
meditata, come dovrebbe essere sempre, di questo tipo di scrittura in
cui i salti, gli spazi, i vuoti hanno un preciso valore fonico e
musicale, che l'autore chiede al lettore di rispettare. Certo, in ultima
analisi e al di là di nodi che per me andrebbero sciolti, ha ragione De
Pietro quando parla di "scrittura chiara e dura a rompersi" e che
tuttavia "si raggiunge, allo spezzarsi della fibra del cotone, il soffice,
l'equilibrio sul filo a tutto corpo". E' in questo equilibrio, forse
precario forse no ma sempre speranzosamente sostenuto dal filo tenace
della scrittura, che si trova molta della poesia italiana attuale. (g.c.)
Gianpaolo De Pietro - Se i fantasmi vengono dalle statue - Collana Isola, San Benedetto del Tronto, 2015
Vale la pena parlare di un libriccino, edito da
una minuscola editrice, e un libriccino poi di poesia, figuriamoci, un
genere letterario minore? Certo che sì, è un libriccino bellino -
composto in pratica da sei pagine di versi di Giampaolo De Pietro e sei
disegni di Rossana Taormina - dall'aria artigianale, tra l'hand made e il ciclostile, rigorosamente in bianco e nero profondi, totali.
Giampaolo De Pietro è già stato QUI,
in passato, con dei testi che hanno suscitato interesse e qualche
blanda discussione, molto più di quanto avvenga ormai sui blog. Poi la
sua presenza in rete si è moltiplicata, basta dare un'occhiata a Google,
ma in quelle poesie già appariva una certa qual propensione allo
scandaglio del linguaggio e dei suoi retroscena, accompagnato da un che
di irridente, di "raggirante" che lascia nel lettore qualche stimolante
interrogativo. In questi testi lo stile di De Pietro, pur mantenendo una
complessiva "leggerezza invidiabile" (secondo Nadia Agustoni) e una
"delicatezza snodata" (secondo Cristina Annino) ha forse perso
un po' della sua identità, passando da componimenti sintetici,
impressivi ed esaurienti in sé che avevano trovato forse il loro meglio
in "Abbonato al programma delle nuvole" (ed. Arcolaio, 2013) ad una
litania alla ricerca di una origine, seguendo un percorso però affidato
tanto al caso quanto alla abilità selettiva e combinatoria dell'autore.
Ricerca di una origine, ripeto, forse di un mito, non di una originalità, che credo in questo contesto non servisse perseguire. Si tratta in sostanza del poemetto dell'ontogenesi di qualcosa,
poi vedremo di capire cosa, che pro-viene, anzi meglio per-viene, passa
attraverso soprattutto il tempo, crea legami reali o fantastici, nessi
fisici o metafisici, costruisce una rete (una delle reti possibili
poiché questa ontogenesi è replicabile) di un mondo sostenibile, anche
artisticamente. In fondo, ci dice Giampaolo, un mondo poetico che
ciascuno si può costruire, stabilendo associazioni, come se si desse (o
si desse di nuovo) un nome nuovo alle cose. Che "vengono da": è questo
il sintagma ripetuto con variazioni una ottantina di volte nel corpo del
testo, che stabilisce una serie di cause/effetti non necessariamente
consequenziali, non un albero genealogico di biblica memoria ("A Enoch
nacque Irad; Irad generò Mecuiaèl e Mecuiaèl generò Metusaèl e Metusaèl
generò Lamech". Genesi 4,18). ma semmai una speciazione, una
ramificazione di presenze oggettive, di (poeticamente) probabili
parentele, per quanto esse possano essere combattute tra l'immaterialità
di un fantasma e la durezza impenetrabile ma altrettanto enigmatica di
una statua. Potremmo quindi dire, conoscendo l'interesse di Giampaolo
per l'immagine non meramente realistica, che è quasi la stampa a
contatto di un meccanismo poietico, di uno dei modi di fare poesia
lasciando che il linguaggio segua dei percorsi quasi onirici,
condensati, traversi e per ciò stessi veri, che scorga qualcosa
come nella fovea dell'occhio. Ecco perciò che la polvere viene dal
libro, la carta dall'aria, l'alfabeto dall'ulivo, il bianco viene
dall'occhio e l'occhio dal buco nero, la casa viene dal germoglio...e
così via. Fino a Dio, naturalmente. A Dio da cui tutto proviene, nella
poetica di Giampaolo compete il maggior numero di "provenienze", di
legami (ma del resto secondo la Qabbalah Dio ha settantadue bellissimi
nomi). Segno di una sostanza umana, di un riflesso, di una proiezione.
Forse di un logos. Forse di un mythos. Forse...
E allora, cos'è questo qualcosa di cui si diceva prima, della cui ricerca questo poemetto forse è un episodio? Ma un linguaggio,
che altro?, quello che in molti, moltissimi stanno cercando dopo aver
verificato un limite, anzi una impossibilità a dire della poesia, vera o
ipotizzata, dopo la messa in mora della lirica e la ricerca di forme e
modalità che nessuna avanguardia ha portato a compimento: il tentativo
di riempire un vuoto, una afasia, anche in modo parziale se vogliamo, lo
sforzo di restaurare (in senso etico/estetico) questo vuoto, di
riempirlo di parole, di "inventare" il poetico dall'ordinario,
"sverniciando" nel contempo la scrittura da ogni residuo formale che
possa richiamare un déjà vu e andando inesorabilmente verso una
resa prosastica. Cosa che, insieme ai suoi limiti, ha senz'altro i suoi
motivi di interesse. Al di là di questo discorso generale, resta
fondamentale a mio avviso (ma in questo Giampaolo non ha certo bisogno
di suggerimenti) avere ben chiaro che cosa si vuole dire al lettore. (g.c.)
una lettura a Le nudecrude cose e altre faccende di Viola Amarelli, leggendo quasi di seguito Cartografie della stessa autrice
Per naturale conseguenza e coincidenza, si vuole qui rapportare le scritture di Viola Amarelli alle sculture, appena appena scoperte (solo con un secolo di
ritardo) di Germaine Richier. Fosse anche solo per la presenza (in presenze) di figure in osmosi – umane, animali – fantastiche e reali; insomma: viventi e
anche brutali, piccole, bronzee, per l’appunto - contraddittorie, imperfette.
Scrivere è dialogare con loro. Considerare il materiale possibile, e quello felice, da cantare lo stesso e pertanto (memori di ogni incontro), da ascoltare
intanto e sentire sempre.
Si può scoprire che Germaine Richier era solita ripetere “Amo la tensione, il secco, il nervoso”.
Le Nudecrude cose e altre faccende (L’arcolaio, 2011) hanno una loro successione, una loro partecipazione e “imitazione” (dell’intorno, di ogni avverbio
che le vede e le prende a titolo e ad esempio), una metamorfosi necessaria, di gesti e mimica. Un ritmo incessante abita i versi, il verso “distaccato”
dall’io (almeno un io che se ne va, tra un rigo e l’altro), e quello di un tempo da ritrarre così com’è, mitico di per sé. Le Nudecrude si lasciano
ritrarre, portare sulla carta, fotografare, ancora imitare mentre “se ne fottono”. “Dietro,” – hanno – “l’oceano”.
“Il fuori oggi è come il dentro”: così parte il “discorso” di chi se ne appropria (stavolta in prima e loro persona), quello della Amarelli che ferma uno
dei suoi ritratti con un verso come “Siamo vivi”e scava, richiama superficie e osserva, a puntino il continuo film del vicino, lasciandosi toccare –
“D’affetto aperto”.
“Distolgono gli occhi e si tappano le orecchie” – forse hanno un sesto e settimo senso, anzi, lo hanno di certo, forse quello del loro stesso corpo,
materia che sono, trattabile, friabile, scolpibile. E tante: ciottoli, schegge, sassi, massi, selci, rupi. Sono forse, come le piccole sculture bronzee
della Richier, bisognose di uno schermo, ricoperte o circondate da ragnatele di fili.
“L’immaginazione necessita di un punto di partenza”, sosteneva ancora la scultrice e disegnatrice francese. Qui i punti di partenza, e anche i segni
d'interpunzione hanno un corpo e un nome, lettere alfabetiche e personaggi in dialogo.
“A volte l’affetto è molto semplice”, fa Viola Amarelli - "per lieto contrappeso" c'è sì, "grazia e gioia" in questo libro e nella sua poesia.
Il ritmo, fino a non straripare, nel ritmo
L’altro libro dell’autrice. appena uscito, in cui sembra aver preso corpo, ancor di più se possibile il racconto, o ritratto si intitola “Cartografie”
(Zona Contemporanea, 2013). Qui probabilmente l’orchestrazione prosastica amplia il suo scolpire figure, sceglie di agire, o forse pure di reagire alla
scrittura stessa, spessificandosi, stratificando scene e confini. Ancora figure. Stavolta di carta, strade e strati di realtà a soggetto. Forse che la
prosa in Amarelli sta come il disegno in Richier e la poesia come "fine" da scolpire?
Probabilmente questi ritratti sono i disegni preparatori alle sculture. La scultura, fine "primo" della Amarelli: la poesia. C’è l'uomo smarrito, quello
asservito, l'uomo bestiale, quello perduto, quello "venuto male", nascosto da una luce elettr(on)ica o da un cellulare, da una smorfia che lo sottrae
momentaneamente al vivere "male", o "bene" che sia. Pur di stare. Dentro al sesso, come si conviene, a suo modo, magari "naturale", dentro le occasioni di
amare, le persone care, le persone. Fuori da sé, ma per ritornare. Questa umanità, ancora come in Germain Richier è bestiale e fenomenica, naturale,
insomma, e l'autrice non ha remore nel descriverla impietosa e ancora impetuosa di reale angoscia e poi - non è un sotterfugio, ma forse il rifugio della
penna stessa, o della matita che traccia la planimetria del "trattare" c’è il piccolo non dimenticato, mai, ritrovo del sognare, che non è forse ancora
"sognarsi", ma essere dentro a un dialogo col fuori, necessario - possibile, sostenibile per crederci ancora, e ora. Prima di addormentarsi e partire. La
carta (geo)grafica coi segni, le punteggiature come spuntoni tra il percorso tortuoso di una vista, un tatto, un segno, un olfatto e un mai dimenticato
ascolto / udito. E il cuore, con il fin di bene, che non è mai detto / ma sentito, semmai - non illustrato a parola, ma tratto nei segni di una riflessione
inaspettatamente compassionevole. (giampaolo de pietro)
In attesa di mettere il linea qualche poesia di Giampaolo De Pietro (v. anche QUI), pubblico una sua riflessione poetica ispirata a una foto di Luigi Ghirri
La bocca asciutta di queste due figure, scure e abbracciate sopra il mare, tra il cemento ed esso, il mare adesso e la sua bocca, semiaperta. Il loro
volto basso, uno solo è un duo di un piccolo coro immobile che attraversa la superficie tratteggiata da brividi in fronte, il loro piccolo specchio non
visto di rughe di espressione di segreto e dolore da non poter escludere solo il mare, compreso sorriso, mare di tutte quelle rughe, specchio verso
l’orizzonte di due e il riparo di tutto, al riparo da nessuno e da niente – c’è forse un confine? V’è, probabilmente. Un’onda, indipendentemente, la
prima – e poi, più verosimilmente, un’ultima quella che soffia in fondo e tocca fino in finire, per l’introduzione, per la prima apertura, si dica
lettera, lo sfocio da un fiume a una piccola pozza in mano a una creatura che l’abbia bevuta, dalla sua asciutta bocca, figura che adesso dopo la sete
e la sua avvenuta avverata avventura abbeverata, adesso è il mare stesso il mare esteso di una sola statura con gli occhi rivolti in alto e la paura, e
tutto intorno l’alto, l’altro, il bisogno di un’immensa ala anche se a piccola apertura – e poi seduti come il trampolo senza premura, l’attesa, in
abbraccio rende i capelli a un tempo eterni e confondibili col tempo medesimo, il tempo che scadrà in voce e misura, (a ciocche?) - le mani dove sono
se non le vedi, le mani sono nascoste le mani del mare spesso, le mani sono il segreto opposto, il chiarimento di forma in forme e sagome e al loro
posto si plasma nuovamente anche lo spazio che il tempo non aveva contratto, si contano più presenze più passanti più oggetti passeggeri e velocemente
si somma e altrettanto lentamente si sottraggono le onde, si rifrangono all’indietro, e si ritorna al posto, due figure dalla bocca asciutta e il mare,
all’indentro, in silenzio ad aspettare – il tempo e lo spazio di una posa fotografata di spalle, e il respiro aperto – senza e per nessuno, i capelli e
il piroscafo del futuro del suo sguardo e di nessuno ancora, con, stavolta, un abbraccio rivolto al mare e tutto il resto, gli occhi di cosa, a ruota e
il cielo, nessuno e un occhio appena adesso due e ora, due più i nostri, i miei e i tuoi: “Credo sia una foto di Ghirri”.
Giampaolo De Pietro
LINK al Catalogo del Fondo Luigi Ghirri della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia
Si trovano poche cose di Giampaolo De Pietro in rete, sul numero zero di Pigreco di Federico Federici (v.qui), e su Nazione Indiana, tre quattro testi che Francesco Forlani ha pubblicato catalogandoli sotto la impervia categoria di "poesie semplici"(v. qui e qui). In realtà la leggibilità di questi versi, la loro "semplicità" sintattica e la confidenza che danno al lettore fanno poi trasparire una metafisica delle cose, cioè svelano con una certa souplesse qualcosa che sta al di là delle cose stesse, "aria che ride di spalle", qualcosa che è "dietro le orecchie", anche con qualche ironia. Cose rispetto alle quali De Pietro si pone come osservatore un pò decentrato, un pò divertito, e abbastanza disilluso tanto da non sottrarsi all'essere osservato a sua volta, come fanno intendere le poche righe in premessa.
Da giorni fotografi il mare, il cambiamento, studi probabilmente le onde e poi le riporti in un grafico dentro al quaderno; tuo cambiamento. da giorni stai trattenendo il respiro, e il mare ti guarda, fotografo anche lui dei tuoi cambiamenti?