Lunedì, 14 novembre 2011
Nel 1947-48, nel corso del lungo viaggio
che lo porterà da Czernowitz a Parigi dove arriverà in Luglio, Paul
Celan incontra a Vienna Ingeborg Bachmann, poco più che ventenne. E'
l'inizio di una relazione intensa: "Lo stretto e intimo legame con la
Bachmann, su cui entrambi mantennero sempre un riserbo impenetrabile,
parla in maniera inequivocabile nei testi di entrambi. A lei Celan
dedica le liriche scritte a Vienna, tra le quali forse la più preziosa è
Corona, nella quale l'amore si coniuga con all'oblio, «wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis»
(«noi ci amiamo come papavero e memoria»), e la speranza combatte
tenacemente il silenzio della pietra, in una tensione che sconfina
nell'utopia. La poesia della Bachmann Die gestundete Zeit (Il tempo differito), che dà titolo al suo libro del 1953, potrebbe essere letta come una risposta amara, nel fallimento della speranza, a Corona. E ancora nel romanzo Malina del
1971, all'indomani del suicidio di Celan - di lì a poco anche la
poetessa perirà in maniera cruenta - la figura dello «straniero» che
viene dall'Est, il cui popolo «è il più vecchio di tutti i popoli ed è
disperso nel vento», rimanda esplicitamente, anche nella descrizione
fisica, a Celan" (Mario Specchio).
Dopo
pochi mesi Paul riparte per Parigi, sua destinazione finale e suo
destino. Ma la relazione affettiva non si interrompe. Nel 1949 Ingeborg
raggiunge Paul in Francia, dove intreccia con il poeta un legame
passionale che brucerà nel giro di un paio di anni, ma che non si
interromperà mai del tutto, anche dopo che ciascuno dei due avrà trovato
altri compagni (Max Frisch lei, Gisèle de Lestrange lui), con ritorni
di fiamma (come nel 1957, sempre a Parigi) e soprattutto un fitto
scambio epistolare (Troviamo le parole, Ed Nottetempo, 2010),
in cui progressivamente il confronto diventa poetico, si fa letteratura,
scambio reciproco di influenze, ma anche ricognizione del progressivo
scivolare di Celan nel suo personale gorgo di dolore, rimorsi, rimpianti
inconciliabili. Anche se l'ultima lettera è del 1961, a parte quelle
mai spedite, il legame è radicato. Poco dopo il suicidio di Celan,
gettatosi nella Senna nel 1970, Ingeborg annota in margine al
manoscritto di Malina: "La mia vita è alla fine. Lui è affogato, trasportato nel fiume, lui era la mia vita".
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Venerdì, 19 agosto 2011
«Bene», diceva Adam con un tono sarcastico, «questa era la vostra vita, allora. Quindi non cambiò neppure nel 1940. In ogni caso, non fino a novembre. E nel 1941, nel 1942, nel 1943? A casa tutto così pacifico, anche se i vostri uomini... sì, sì... (1) Ma da noi? Da noi cominciò il 5 luglio 1940, quando entrarono a Czernowitz le truppe romene del regime di Antonescu, alleato con la Germania. Già il 6 luglio arrivò la famigerata unità di pronto intervento agli ordini del comandante di brigata SS Ohlendorf, il cui genere di "attività" conosciamo dal film Olocausto. Molti ebrei sulla riva del Pruth dovettero scavarsi con le proprie mani la fossa sul cui bordo furono poi fucilati. Divenne obbligatorio portare la stella gialla. Fatto. Ne portavo una anch'io. E nacque un ghetto. Tutto questo ho dovuto viverlo. Cominciarono le deportazioni alla volta della "Transnistria", nel settore dell'Ucraina tra il Dnestr e il Bug sotto il controllo romeno. Oh sì! I nostri buoni romeni! A Czernowitz Celan fu messo ai lavori forzati. Gli Antschel si nascondevano presso conoscenti. Ma a un certo punto la madre non volle più continuare questo gioco a nascondino; era convinta che nessuno sfugge al suo destino. E preparò gli zaini. Il figlio cercò di opporsi al suo fatalismo. Invano. Lui continuò a nascondersi, ma i genitori, che attendevano con gli zaini pronti nella loro casa, nell'estate del 1942 furono deportati su un carro bestiame nel Bug meridionale. Con loro c'ero anch'io. Dapprima arrivammo a una cava che era detta la cariera depiatrâ; da ultimo giungemmo a Michailowka, in un villaggio russo con un lager. Qui, il padre di Paul fu fucilato nell'autunno del 1942. La madre ne scrisse al figlio. Che amava moltissimo sua madre, mentre non era in buoni rapporti con il padre, troppo severo. Quest'ultimo compare solo di rado nelle sue poesie. Ma una volta scrive della sua morte.
...Quando, rossastra, la zolla si fende, quando niveo si riduce in polvere lo scheletro di tuo padre, calpestato dagli zoccoli, il canto del cedro. *
«La madre era cuoca alla mensa della truppa di Michailowka. Celan allora era ai lavori forzati nel lager di Tàbàresti, in Moldavia, e là poi, nella primavera del 1943, da un conoscente scappato viene a sapere che anche la madre è stata uccisa con un colpo alla nuca. Un trauma da cui non si libererà più. Scrisse allora:
Albarella, è bianca la tua fronda che guarda nel buio. Bianchi non si fecero i capelli di mia madre. Dente di leone, così verde è l'Ucraina. Non fece più ritorno mia madre ch'era bionda.**
«Da allora dolore e sensi di colpa, che aumentavano quando conoscenti e amici deportati, tornati a casa nel frattempo, gli davano notizie dall'inferno. L'amico Weißlass raccontava anche come fosse riuscito a salvare la sua vecchia madre. Il senso di colpa per essersi messo in salvo, mentre i suoi genitori erano andati incontro a sicura morte, non abbandonò più Paul. Neppure quando, senza documenti di viaggio, su un automezzo militare sovietico, abbandonò per sempre il suo paese natale, venne a Bucarest, dove restò fino alla fine del 1947 e poi, con l'aiuto di contadini ungheresi, fuggì prima in Ungheria e in Austria, per approdare da ultimo a Parigi. Era cominciato il suo lungo esilio. Ormai lui si annoverava tra i morti. La vita gli pareva un incubo, come se gli uccisi lo attendessero, come se per rimediare a questa condizione innaturale dovesse essere superata la separazione... Ma, soprattutto, a non abbandonarlo più fu la madre morta...»
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* Versi della lirica giovanile di Paul Celan SchwarzeFlocken, «Neri fiocchi». [n.d.t.] ** Versi della lirica celaniana Espenbaum («Albarella»). La traduzione italiana è di Giuseppe Bevilacqua, cfr. Paul Celan, Poesie, Mondadori, Milano 1998, p. 23. [n.d.t.]
(1) Qui il narratore (lo stesso Schlesak) riferisce parte di una conversazione avuta negli anni '70 con l'amico ebreo Adam Salmen, che era venuto a ritrovare nei luoghi dell'infanzia, nella Transilvania romena. Il doloroso sarcasmo di Adam si riferisce al fatto che alcuni membri della famiglia del narratore, come molti degli appartenenti alla minoranza cattolica di lingua tedesca ( i Sassoni della Transilvania) avevavo aderito con entusiasmo al nazismo, fino a diventare parte delle SS operanti nei campi di sterminio. Una "colpa" che l'autore ha rielaborato, insieme alla sua travagliata biografia di "esule", nelle sue opere letterarie, tra cui questo "L'uomo senza radici" e "Il farmacista di Auschwitz", due libri di grande rilievo.
Notizie su Dieter Schlesak qui e qui. Un saggio di Schlesak su Celan (in due parti) qui.
Domenica, 18 novembre 2007
In memoria di Paul Celan
Deponi queste parole nella tomba del defunto
presso i mandorli e i ciliegi degli uccelli---
minuscoli teschi, fiorite gocce sanguigne, occhi,
e Tu, O amarezza che gli sorreggi il capo.
Deponi queste parole sulle sue palpebre
come eufrasie, come medievali campanule
che fioriranno nell’ombra, questa volta.
Lascia che brillino i recisi tulipani con la pioggia.
Deponi queste parole sulle sue palpebre d’annegato
come monete o stelle, o altri occhi.
Ricopri il cielo rigonfio di macchie di sole
mentre il tuono apostrofa la terra.
Sillaba per sillaba, strappate via e plasmate,
le parole si sono ricomposte nell’angoscia.
E’ l’ora spettrale del rimpianto,
l’ora del vuoto, afflitto ed assoluto.
Deponi queste parole sulle labbra del morto
come ferri ardenti, come lingua di fuoco.
Un’aquila perlustra il cielo in cerchio e grida.
Che Dio supplichi noi per questo uomo.
(trad. G.Cerrai)
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