Venerdì, 10 dicembre 2010
TRASPARENZE DI FRONTIERA
Esistono geografie e topografie ideali. Strade di citta’ che si sovrappongono come se appartenessero allo stesso agglomerato urbano. Cosi’, ad
esempio, quando mi capita di andare a Firenze e passeggiare davanti a palazzo Pitti, la prima cosa che inevitabilmente mi viene in mente e’ la citta’
di Trieste. E’ un ricordo che in me ha un’ origine casuale e che , dal punto di vista temporale, si colloca agli inizi degli anni ottanta, quando, da
neoiscritto all’ universita’ di Firenze, ero in cerca di un alloggio. La ricerca mi porto’ a conoscere una famiglia istriana che viveva, e penso che
viva tuttora, in un appartamento davanti a palazzo Pitti. Ebbene, come mi venne spiegato con dovizia di particolari tramandati dalla generazione piu’
vecchia a quella piu’ giovane, in quell’appartamento trovo’ ospitalita’, durante la guerra, il poeta triestino Umberto Saba. E’ ovvio che questo non
e’ l’unica cosa che unisce due citta’ cosi’ differenti tra loro come lo sono Trieste e Firenze. Ma e’ probabile che per me quell’esperienza fu, in
qualche modo, determinante, sia pure inconsciamente, per quel processo interiore che mi porto’ ad avvicinarmi alla grande letteratura triestina.
Il viaggio che da Trieste porta a Firenze fu un itinerario ideale di una intera generazione di intellettuali di frontiera, attivi fra il 1900 e il
1915. Di fatto il connubio fra queste due citta’, opposte per carattere e tradizione, celebra l’ intrusione, nella sconnessa terra che dal duro
altopiano carsico si sbriciola come arenaria marnosa nel mite mare altoadriatico, di quel luogo ideale che e’ la lettaratura. Scrive Giani Stuparich in Trieste nei miei ricordi:
“ Sembrera’ casuale un rapporto fisico e interiore tra la Toscana e la Venezia Giulia, tra Firenze e Trieste, eppure tutte le volte che io ripenso alla
mia esperienza trovo che il rapporto e’ profondo: tra le due terre c’e’ una rispondenza di contrasti e somiglianze che va piu’ in la’ di una semplice o
passeggera simpatia…Mai , come in quelle sere fiorentine con Slataper, io sentii, per merito della sua creazione, nascere il Carso dalla Toscana.”
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Sabato, 13 novembre 2010
Vorrei con questo post portare un piccolo contributo alla conoscenza di un poeta, un poeta italiano, per quanto di nazionalità croata. Un poeta
notevole, dico subito, anzi per molti versi extraordinario, e uno dei libri più intelligenti, densi e generosi di suoni e suggestioni in cui mi sia
imbattuto negli ultimi tempi.
Ultimamente mi è capitato spesso di ricevere voci da quella area che appartiene più al tempo che allo spazio, che potremmo azzardatamente definire
austroungarica, o mitteleuropea, una enclave linguistica italiana che di certo non è separata dal mondo, ma che per qualche ragione mantiene un
rapporto fecondo con una tradizione nostra, come se, per fare un esempio, un poeta grandissimo come Saba appartenesse più a quella area che a questa,
dove un pò s'è perso. Lo dico perché in questo libro di Mauro Sambi si rintracciano così tanti echi che è del tutto naturale definirlo
in primis un canzoniere, non solo perché in effetti lo è, ma anche perché ci riporta col pensiero, in tanti momenti, al grande triestino, come pure ad
altre voci del Novecento nostrano, Sereni, Zanzotto, e il sempre presente Montale, senza tuttavia che questi rimandi
mai si trasferiscano in manierismi. Se la questione di una poesia italiana per così dire extra territoriale è di per sè interessante, va però detto che
nel caso di Sambi il fatto che sia nato a Pola è abbastanza marginale, avendo egli studiato e lavorando oggi in Italia. In altre parole, anche qui,
come in altri casi, non si tratta certo di una poesia "di confine", dato che non presenta tracce di una osmosi tra due mondi, ma è saldamente rivolta
all'Italia, a una tradizione feconda e faconda guardata in faccia, non in cagnesco come fanno tanti poeti, e contemporaneamente tenuta in abile equilibrio.
Il libro (L'alloro di Pound, Ed. Edit Fiume, 2009, collana Altre lettere italiane) raccoglie la produzione di un quindicennio (dal
1994 al 2009) ed è preceduto da una bella prefazione, ampia, colta e articolata, di Gabriella Musetti. Produzione che non è solo poetica, ma anche
traduttiva, come dimostra la versione, secondo me molto buona, di undici sonetti shakespeariani e uno di John Donne che fanno da spartiacque tra le due
parti principali dell'opera, oltre a quelle di altri importanti autori.
Traggo alcuni passi significativi dalla ottima prefazione di Gabriella Musetti: "Una osservazione va subito fatta, per sgombrare il
campo da ogni possibile equivoco: la poesia di Sambi non è una poesia intellettualistica, che mira a una precisione chirurgica del dato linguistico e
si misura con la tradizione al puro fine speculativo o di agone. È una poesia che nasce da urgenze intime, sofferte, laceranti, ha una sua carica
eversiva più o meno scoperta, e trova una sua esposizione di parole dentro una forma scelta con cura come luogo di incontro/confronto/scontro con la
tradizione con cui dialoga costantemente. Forse proprio la cultura e la professione scientifica che Sambi esercita nella vita lo portano a un rigore
attento nelle scelte dell’espressione poetica, come traduzione perseguita da un codice del vissuto profondo a un codice dell’espressione verbale,
sapendo bene che ogni traduzione, benché accurata, è sempre imperfetta". In questa poesia, aggiunge Musetti "la domanda di senso è sottesa a molti
versi, esplicita, a volte, oppure appena celata, si intravede a mezza via tra le parole, una domanda che in-terroga la natura e anche marginalmente il
mito (Endimione, la luna, Albireo – stella doppia nel braccio più lungo del Cigno, le costellazioni), cercando di ripescare nella tradizione
collegamenti e fili che hanno percorso il tempo. È una interrogazione pacata ma non per questo meno profonda. Una interrogazione che mette in campo
diversi luoghi del sapere, cerca “uno scarto dell’occhio” che apra a una visione inedita. Anche l’errore è un luogo fecondo dove può accadere la
percezione immediata che travalica, mentre la ripetizione dell’errore è già consuetudine".
Di sè, del suo lavoro Sambi scrive: “La mia è una poesia del limite, in primo luogo del limite tra tempo e annullamento del tempo. Per questo mo-tivo
la mia è ininterrottamente poesia d’amore. Perché l’amore è il primo strumento, forse l’unico, che porta a sfiorare il confine tra tempo e non-tempo,
ma contemporaneamente ne sancisce l’invalicabilità. L’amore si manifesta per epifanie. Si sfiora il limite. Ma un definitivo passar oltre non è dato –
quelle illuminazioni, o vertiginose ascensioni, possono segnare una vita, ma non fanno una vita. Una poesia del limite ha bisogno di gabbie canoniche.
In quest’ottica la poesia è fatta di quattro elementi: la gabbia; lo scarto (sempre calcolato) dalla gabbia; la musica, che può confermare o invalidare
la gabbia; il significato/senso, che può convalidare o contrastare gabbia, scarto e musica. Tento sempre (sempre di più...) di volgere il gioco di
forme canoniche e scarti dal canone, di convalide e contrasti, alla massima semantizzazione della gabbia: la gabbia deve farsi significante al massimo
grado possibile. [...] Amore, poi, consente di lasciare nel vago distinzioni del tipo filia/eros/agape.” Aggiunge Musetti: "In queste parole, al di
là del contenuto, si esprime una consapevolezza del fare poesia che nasce, evidentemente, da una lunga frequentazione dei testi poetici della
contemporaneità e del passato, ma anche da una meditazione-interiorizzazione delle modalità dell’espressione poetica e degli autori, una ricerca
continua che interroga gli strumenti, il lessico, le forme, i ritmi, i metri, il linguaggio, nella scelta quasi “scientifica”, nel senso di razionale,
calibrata per ottenere il meglio, delle potenzialità della parola poetica, una strada che parte dal dato soggettivo – mai scartato – per raggiungere
una “dicibilità” generale. (...) L’esperienza è frutto dell’attimo e della persistenza, il movimento veloce di ciò che è vicino e l’apparente stasi
dello sfondo, quasi un immutabile fondale scenico su cui si muovono, a differenti velocità, le vicende quotidiane e le memorie. Ma anche questo è falso
dualismo, illusione ottica. L’adeguamento della forma, a volte, stringe e costringe la passione prima, che pure si avverte urgente sotto le formule. È
una scelta di adeguamento non superflua ma, sebbene rigorosa e addirittura extraordinaria, porta il limite della materia prima ribollente in una forma
lucidamente e spericolatamente ancorata alla tradizione come scelta etica di parola, immette tradizione e sperimentazione in una scelta stilistica che
ha profondi ancoraggi."
Ho poco da aggiungere a quanto sopra, tranne che sottolineare ancora la ricchezza dei richiami culturali e stilistici e delle sonorità di questa poesia,
nonchè la straordinaria persistenza che rimane dopo la lettura, non solo di queste associazioni ma anche dellle idee e dalle riflessioni che ne
scaturiscono.
Pubblico qui una selezione di testi, con l'avvertenza che il libro è più articolato (due parti, dieci sezioni) e coerente di quanto possa apparire da
questo semplice post. E che ogni scelta è, per sua natura, arbitraria.
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Venerdì, 29 ottobre 2010
Aljoša Curavić è un'altra delle voci che mi giungono da una
apparente periferia dell'area linguistica italiana, quella istriana e
dalmatica per intenderci, dove è presente una comunità niente affatto
trascurabile. Rimasta fuori dei confini nazionali per le note vicende
storiche, ha saputo conservare e rinverdire una identità culturale ben
definita. Ma ci saranno altre occasioni per parlarne.
Curavić è
un poeta che ha letto parecchio, si direbbe. Non solo dagli exerga di autori noti spesso presenti, ma anche da richiami abbastanza decifrabili nella sua
scrittura. C'è un Saba (ovviamente), sincopato e infitto in una
sensibilità tutta ultramoderna attraverso l'uso di parole di allora
(sciabordii, flutti, rabescate) inchiodate in una visione di oggi, c'è
qualche limpido endecasillabo di stampo leopardiano, c'è anche il Pavese
poeta narratore, da qualche parte. Comunque sia la poesia di Curavić riesce
poi a liberarsi di certi debiti (ma chi non ne ha?) acquistando una sua
originalità, sopratutto in quei testi connessi a una identità, anche
storica e ambientale, più specifica, a cui il poeta è legato, non
ostante "la nostra micragnosa storia". Assai significative, da questo
punto di vista, poesie come "Frammenti di viaggio" e "Un pò di pace",
ispirate da un sentimento partecipe di appartenenza. Ma Curavić non è
poeta confinario, almeno non nel senso che intendeva Magris, dire questo
sarebbe riduttivo. L'identità di cui si diceva non è tutto, in lui si
ritrovano - in testi più essenziali, quasi spogli, a volte lapidari - anche i denominatori comuni della poesia, italiana e non,
attuale, la riflessione dell'io sulla realtà, certa inanità dell'essere
di fronte all'esistenza e alla sua descrizione ("come descrivere questa
sorta / di molle refrattarietà del male / di ostile benevolenza del
bene?", dice in un testo qui non riprodotto). La risposta, anche per
lui, credo che sia: provarci sempre, provarci con la poesia.
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Venerdì, 8 ottobre 2010
La poesia di Gaetano Benčić lascia un retrogusto inconfondibile che dopo una prima lettura invoglia a recuperare quanto andato perso nel primo
assaggio. Ha un che di fiabesco, con quelle ombre e quei colori, saldamente piantato nella terra d'Istria, con i suoi paesaggi avvolti dalla bruma,
quando catturata dai crepuscoli o dalle albe sembra ripopolarsi di presenze ancestrali, quando tutto sembra possibile allorché il sogno varca la soglia
del reale presentandosi sotto sembianze inquietanti nella loro pudica ed aspra dolcezza. Nel loro fascino, insomma. Un indissolubile legame con la
natura vi traspare in controluce, evidenziando il lato essenziale delle cose, il nòcciolo pulsante dell'essere di un inquieto cuore (Il pavone sull’antenna). Osservatore e al contempo vivo e partecipe testimone, Benčić dà voce a questa esperienza inusuale ed irripetibile,
autentica e facilmente condivisibile dal lettore. Vivide le immagini che compongono la trama di questo mosaico onirico, dove l'io lirico sonda il vasto
mondo sommerso del proprio inconscio, teso a cogliere le più recondite sfumature entro delle coordinate spazio temporali dilatate, dove per mezzo di
una sintassi franta viene resa fedelmente l'atmosfera vissuta, sospesa in un attimo scabroso al limite quasi dell'afasia. Il percorso intrapreso è
impervio, come alcuni sentieri appena ravvisabili, dove la luce del giorno fatica ad entrarvi. Vasto il bestiario che popola questi versi, mentre
l'uomo è quasi assente, eccetto la voce in sordina del poeta, che più che parlare suggerisce offrendo spunti e indizi che affabulano il lettore. In
contrappunto ai versi appaiono i disegni di Ugo Maffi, a rappresentare quasi un libro nel libro, o meglio forse: una eco, un riverbero di luce e suoni,
di ombre e silenzi. Maffi sottolinea e traduce in altro linguaggio, interpreta ed accompagna il tutto ampliando a ventaglio il già ampio spettro
semantico dettato dai versi. Quasi una sintesi di quanto espresso da Benčić i disegni eterei di Maffi, sospesi tra sogno e premonizione, tra segreto
anelito e quieta accettazione del vivere. Una sinergia la loro, che ancora una volta conferma la radice comune a due diverse forme d'espressione
artistica; diverse sì, ma non per questo opposte: la poesia e la pittura.
Alessandro Salvi
Continua a leggere "Gaetano Benčić - Scrigno di naufragio"
Mercoledì, 15 settembre 2010
Alessandro Salvi è un giovane poeta croato di lingua italiana con già un discreto curriculum all'attivo. I testi che seguono sono tratti da una silloge ancora inedita, a sua volta parte di un più ampio lavoro dal titolo ("provvisorio", secondo l'autore) di Questa follia barocca. Il "provvisorio" o il "transitorio" non sono affatto accidentali nella poetica di Salvi, riferendosi essi a uno "spleen" che qualcuno aveva già notato in lui, sopratutto riguardo all'altro suo lavoro Piovono formiche carnivore e altre inezie (alcuni testi qui). Già, spleen et ideal, per dirla con Baudelaire. Certo, non si vuole qui scomodare il grande francese, se non per un flebile riferimento (o meglio ancora, un mio pretestuoso richiamo) a certe correspondances (vedi più sotto "io vi parlo da questa", "la bianca quiete della neve innerva") e tableaux (v. "questo succo d'arancia qui sul tavolo") che si trovano nei testi di Salvi. In cui c'è sì un disagio per quanto spesso stemperato nell'ironia, ma anche una speranza di poter "adempiere al compito di viverli [i giorni] e, perché no? migliorarli", come dice in una poesia, in un ideal che appartiene ancora, com'è giusto che sia, alla giovinezza, a quell'epoca della vita in cui i giorni sono ancora "nostri". Il poeta, per quanto "ostaggio" (a volte del "divenire", a volte del "provvisorio"), non smette mai di vivere dentro le parole, infilandole in testi interessanti, fatti per lo più di un linguaggio semplice con cui talvolta riesce a sfuggire abilmente alle trappole del banale, anzi rendendo spesso i versi come "lucidati e tirati a secco dalla bora e dal sole", talaltra intesse versi in cui la resa non corrisponde del tutto all'idea, che forse un pò si perde. Ma certa discontinuità è di tutti i poeti, è inevitabile. La sostanza c'è, secondo me, e c'è competenza linguistica e una certa consapevolezza. Il provvisorio, questo provvisorio ancorato (questo sì che è un ossimoro) nel '900 che non vuole morire, tanto saldamente da diventare tradizione, si combatte maturando la propria materia poetica. E spazio, in Salvi, ce n'è.
Continua a leggere "Alessandro Salvi - Santuario del transitorio"
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