Martedì, 18 dicembre 2018
…VIAGGIO, RACCONTO, MEMORIA, attraverso le fotografie di Ferdinando
Scianna
All’inizio di questo viaggio per immagini nella retrospettiva “Viaggio,
Racconto, Memoria” ai Musei san Domenico di Forlì è la
miriade di scatti e storie, racconti e memorie legati all’universo
fotografico di Ferdinando Scianna: la quintessenza del suo stile, il suo essere attraverso la fotografia a stretto contatto con il mondo,
in presa diretta con la vita e parte in causa della storia che in maniera
estemporanea documenta nel lavoro di reportage. La selezione di immagini
dedicate a Bagheria nella prima sala rende testimonianza alla sua terra
natale, la Sicilia, luogo d’appartenenza e di radici, di fughe obbligate
nel corso degli anni ed ossessivi ritorni, di salti in avanti nel tempo al
presente e riecheggiamenti di un mondo arcaico e vagheggiato simile a
scintille di memoria dall'infanzia o dalla prima giovinezza ritrovate in
fulminei istanti di fuga dal presente.
“
Bagheria, l’odiato-amato paese in cui sono nato, dove ho passato la mia
infanzia, in provincia di Palermo, dove ho vissuto fin ai 23 anni,
dolce e terribile luogo dell’anima dove ho scattato ben più fotografie
di quanto non sospettassi. Ho continuato a fotografare a Bagheria nel
corso degli anni, negli innumerevoli, desiderati ora temuti, felici ora
dolorosi, qualche volta inevitabili ritorni”.
La questione ossessiva quanto inevitabile per Scianna sull’essere siciliano
si lega alla ragione prima, all’essenza stessa del fotografare che per lui
è indiscutibilmente un modo, forse il solo di approcciarsi alla realtà, di
esserci e guardare il mondo nel tentativo di comprendere, fosse solo
qualche istante decisivo, e di raccontarlo attraverso il mezzo fotografico.
Cosa significa essere nati in quel luogo, isolato e isolano, impregnato di
anacronismi e tradizioni, riempito di rituali e affondato in un immobilismo
fuori dal tempo, letargico e fatale, poi andare via, allontanarsene per
gettarsi nel maelstrom del vivente da Milano a Parigi collaborando con
un’agenzia internazionale e prestigiosa come Magnum o nei vari reportage in
giro per il mondo, eppure continuare a guardare, a esplorare la realtà con
occhi da siciliano.
“
Quando partiamo la nostalgia comincia a tormentarci, il lavoro di
trasfigurazione della memoria in un ritorno tanto sognato quanto reso
impossibile. Dalla Sicilia si scappa ma non si lascia mai l’ossessione
delle origini.”.
Origini, radici, la terra di Sicilia
Le fotografie della prima sala scattate negli anni ’60 dalle inquadrature
altamente cinematografiche ricreano ambientazioni, atmosfere, stati
emozionali dell’intrinseca identità dell’isola evocando in scorci
suggestivi immagini giunte dagli anni dell’infanzia o della prima
giovinezza in Sicilia. In “maestro d’acqua”: un uomo di età avanzata appare
seduto tra gli arroccamenti a ridosso del mare sulle coste palermitane
intento a sorvegliare un gregge. Solitario, asettico, inerte all’ azione,
il suo sguardo appare gettato lontano oltre gli altopiani, pensatore
estraniato dal presente. Palermo velata da una tenda è inquadrata in
un’altra fotografia. Dietro quella il profilo di una donna si intravvede
tenendo per mano il figlioletto in primo piano: tendaggi, schermi o reti
mediano lo sguardo e separano, oscurano, pongono dei filtri visivi alla
memoria rendendo quel mondo lontano e fittizio, più distante e remoto. Un
gruppo di uomini in un bar avvolti da una coltre densa e grigiastra di fumo
aspirano lentamente dai loro sigari mentre si soffermano indolenti e
solitari a giocare a carte e a scommettere sul nulla del proprio presente.
Bagheria sono le case arroccate sugli scogli in prossimità del mare,
scavate dentro la pietra in un piccolo borgo solitario e resistente, lì da
secoli esposto alle intemperie e alle tempeste, alla durezza della vita dei
pescatori, costruite l’una a ridosso dell’altra a strapiombo sulla
costiera. È lo sguardo di una donna anziana lucido e acuto in primissimo
piano dagli occhi tempestati di nera ematite rilucente di ghiaccio. Sono i
volti di donne avvolti da veli neri nel sole accecante del mezzogiorno a
ridosso delle case del villaggio. Sono orizzonti, “dalla terrazza della
casa dei miei nonni si vedevano agrumeti fino al mare, dalla cappella di S.
Giusipuzzu la Villa Rosa si stagliava libera contro il monte Pellegrino”.
Continua a leggere "Ferdinando Scianna - Viaggio, racconto, memoria - riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli"
Martedì, 26 giugno 2018
Zhang Dalì, Meta-morphosis
(a Palazzo Fava a Bologna)
E’ una storia di metamorfosi, di transizioni e ri-creazioni quella che
l’artista cinese contemporaneo Zhang Dalì racconta nella mostra attualmente
in corso a Bologna a Palazzo Fava, una storia in cui il senso di
cambiamento è pervasivo e a diversi livelli: politico ed economico nella
Cina globalizzata d’oggi, urbanistico nelle demolizioni e rifacimenti
massici della capitale, poetico nella capacità dell’artista di dare voce e
corpo alla transizione del paese verso una nuova forma di capitalismo
globale con tutti i traumi e contraddizioni che in esso si riflettono. Il
“realismo estremo” di Dalì esprime per l’artista la necessità di guardare
alla realtà d’oggi del suo popolo, del suo paese, e riflettere, esaminare,
dare voce a una coscienza critica, nella frattura anche tra realtà e
individuo perché, come egli afferma: “l’arte ha il dovere di esprimere il
proprio scetticismo verso la brutalità che esiste nel mondo reale”.
“Penso che l’artista contemporaneo senza una presa di posizione netta
non possa creare nessuna grande opera. Deve prendere una posizione che
gli permetta di distinguere tra bene e male e dare un giudizio di
valore. La creazione artistica incarna un’ideologia così come
un’umanità. Se non c’è compassione, amore ma solo l’idea di arte come
giullare di corte allora l’artista sarà uno snob e uno speculatore”[1]
.
L’arte contemporanea in Cina dal suo punto di vista può solo essere un’arte
di ribellione, perché senza tale presa di posizione sarà l’interesse a
condurre il gioco o la pura logica del profitto. L’artista, secondo Dalì, è
colui che riesce a dare una voce, una coscienza critica e espressiva a
quello che sente manifestarsi intorno a sè nel mondo nella società, nella
vita che lo circonda e al quale i molti non possono dare voce. Di qui, la
necessità di comunicare, condividere con la maggior parte o dare visibilità
al massimo grado attraverso la fotografia, l’installazione o i graffiti in
modo da rendere palese una verità o una visione che viene dal profondo
senza incorrere in una mistificazione del reale che conduce a in un’arte
elitaria, complessa o distaccata dalle persone.
“AK-47”, auto-ritratto
Il mio volto è questo ritratto espanso e reso attraverso una miriade di
punti, unità luminose, pixel quasi dell’immagine elettronica nella
litografia stampata. Ricoperto dal marchio indelebile di un nome, logo di
un’arma da fuoco e cancellato dalla medesima come dall’ evidenza esposta di
una violenza innegabile per quanto celata, dissimulata in maniera sottile o
resa invisibile nella società d’oggi. Tuttavia, anche, è uno sguardo che
penetra e attraversa la fitta maglia di questa rete densa e occlusiva per
vedere attraverso e giungere, incisivo come un obiettivo al punto focale
dell’immagine, tale lo sguardo dell’artista sul reale.
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Venerdì, 18 maggio 2018
“Revolutija
”, artisti russi tra avanguardia e rivoluzione (al Mambo di bologna)
“Revolutija” dal titolo della mostra al Mambo di Bologna, è lo spirito
rivoluzionario che travolge e scuote nell’anno tumultuoso del 1917 una
Russia millenaria e zarista nello sguardo di artisti d’eccezione come
Kandinsky, Malevich, Chagall, Tatlin, Replin ecc. E’ ancora il fervore
culturale, lo spirito della modernità, l’anima dell’avanguardia nei suoi
diversi movimenti che tra il 1910 e il 1920 rinnovano profondamente il
volto dell’arte attraverso un’ondata di creatività che come una ventata
violenta e travolgente precorre il rovesciamento politico del paese, lo
esalta e lo condivide. Da un punto di vista artistico assistiamo al
concepimento di “forme creative che maturano attraverso i decenni” e si
inseriscono pur nella loro diversità in quel progetto di rinnovamento
estetico radicale delle avanguardie europee. Politicamente, la rivoluzione
è il centro nodale e l’apice di un pensiero nuovo, marxista e leninista di
ispirazione che sfocerà nel rovesciamento dell’ordine stabilito, la fine di
un mondo e l’inizio, brutale, incerto e imprevedibile di un altro per
giungere più tardi alla sua involuzione totalitarista negli anni ‘30.
Nell’immagine d’apertura “Che vastità” (1905) di Il’ja Repin in maniera
quasi surreale due giovani appaiono sospesi in un turbinio d’onde in mezzo
all’oceano; si lasciano trasportare, il cappello di lei svolazzante
trattenuto a da una mano contro le ondate tempestose e il vorticare
dell’aria marina, lui euforico con le braccia aperte e il torace portato
verso l’avanti come per accogliere o sfidare le forze incontenibili dei
mari e dei venti. Inebriati, quasi sospesi contro il vasto scrosciare delle
onde nel moto tumultuoso dell’oceano appaiono scivolare sulle acque
visibilmente rapiti dall’entusiasmo per la ventata di nuova libertà.
L’uragano spontaneo e travolgente come estasi ai sensi preannuncia un tempo
nuovo, una scintilla accesa nell’oscurità, l’idea di un movimento
sotterraneo se non emerso ancora , che come questi fiotti si approssima
impossibile ad arrestare.
Repin, “17 ottobre 1905”
Volti vividi, realismo e passione, Repin coglie in questo grande affresco
della classe liberare “il carnevale della rivoluzione russa pieno di
follia, colori e beatitudine” mentre si festeggia l’alba di un nuovo
secolo, agli albori di un moto del 1905 che sfocerà dodici anni più tardi
nella rivoluzione d’ottobre. Una folla di volti di diverse età e
provenienze, entusiasti e liberali, nobili o borghesi, studenti, operai e
ufficiali cantano versi rivoluzionari in primo piano nell’affresco di una
società in ebollizione che incarna euforicamente lo spirito del nuovo,
irriverente e vitale alle porte. I volti nitidi ed esuberanti appaiono
rapiti un una sorta di estasi collettiva di cui il fervore politico permea
l’ area e aleggia tra le linee, dietro gli sguardi, ovunque tacito
attraverso la scena.
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Martedì, 27 febbraio 2018
Il “muro” è immagine, traccia dai molteplici sensi e sovra-sensi oppure
architettura data storicamente nello spazio, e ancora metafora
letteraria in testi, canzoni o opere d’arte nella mostra attualmente in
corso a Palazzo Belloni, “The Wall”. Un itinerario per farci riflettere,
una mappa concettuale che dirama come un labirinto e sfalda in molteplici
sfaccettature di pensiero da una sala all’altra, e ancora un viaggio
attraverso il video, le installazioni, i quadri e testi letterari. Perché
in fondo là è la dicotomia del suo essere, su due piani, a due facce, come
ciò che difende ma anche che separa e preclude l’accesso, o ancora la
barriera che qualora blocca lascia intravvedere una possibilità
nell’altrove, e nascondendo rivela se le sue pareti si trasformano in
superfici espressive, iscrizioni d’arte o architetture che dimorano e danno
vita allo spazio.
“Parole sui muri” (installazione gruppo Loup)
Parole come pietre, dense e stratificate si aprono dal loro guscio di
silenzio e incomprensibilità in diverse lingue nella prima sala come
citazioni letterarie da fonti tanto lontane nel tempo quanto ravvicinate
per la loro simbolica evocazione: le pietre sacre in cui fu eretto il
tempio di Gerusalemme nell’Antico Testamento, le mura di Uruk sulle quali
Gilgamesh incise le sue fatiche e riportò le storie del passato narrando
ciò che era segreto, Italo Calvino dalle “rosse mura di Parigi”, infine
E.Dickinson in avanzare è la condizione stessa dell’esistenza e le pietre
tombali solo un ristoro all'eterno fluire del tempo che le rende odiose
all’anima . Parole sacre o di poesia proliferano in caratteri verdi e ocra
fiammanti attraverso i filtri di plastica rossa, ora blu sul piastrellato
bianco e luccicante del fondo.
Se i muri sono da sempre mezzo o tramite attraverso cui i messaggi si
depositano, le parole si scrivono o si proclamano magari abusivamente o
nell’impeto di un momento, essi, da un altro punto di vista, appaiono come
ciò che separa, ostacola e preclude un reale scambio. Ci fanno pensare ai
muri di parole che non arrivano a destinazione, barriere di
incomunicabilità nella profusione dei messaggi inviati o ricevuti, ancora
ai muri virtuali su cui si scrive senza avere nulla da dirsi, infine al
silenzio di fondo che mormora nella sovra-produzione di messaggi, notizie,
cronache o delle parole urlate dai media al quotidiano.
Continua a leggere "The Wall, intorno e attraverso i muri, nota di Elisa Castagnoli"
Venerdì, 12 gennaio 2018
Elliott Erwitt, “Personae”: un mondo in immagini (visto ai musei
S.Domenico a Forlì)
“Personae” retrospettiva che rende omaggio con un’ampia scelta fotografica
ai capolavori del fotografo americano Elliott Erwitt presso i musei S.
Domenico di Forlì è una molteplicità ironica, a tratti poetica o
umoristica, sempre tuttavia profondamente umana di ritratti: i volti delle
celebrità o quelli di gente ordinaria, cani che prendono spesso le loro
sembianze e fanno loro il verso, infine i volti delle città viste
attraverso punti di vista d’eccezione che li rendono unici, icone come tali
entrate nella storia della fotografia. Nella prima sezione in bianco e nero
fino alla metà degli anni ’70 Erwitt si sofferma in particolare sulla
distorsione del punto di vista, spesso prediligendo quello degli animali
che affiancano gli esseri umani e guardano quella stessa realtà dalla loro
postura, nelle loro dimensioni e posizionamento sulla terra con un
implicito risvolto ironico o parodico.
“
Le cose che mi divertono nella vita...le persone senza dubbio_i
paesaggi meno_ quello che fanno nella vita e come si comportano. Tutta
la mia fotografia riguarda questo. I cani sono un ottimo soggetto
perché sono universali e li trovi ovunque nel mondo. Non obbiettano ad
essere fotografati e non chiedono mai impronte..
”
“New York city”, 1974 ( Taking the shot from a tiny dog perspective”)
Cosa significa essere o vedere la realtà dal punto di vista del piccolo e
del minoritario, del basso e non dell’alto, del micro e non del
macroscopico, portare l’attenzione ai piedi anziché alla testa, volgere le
prospettive come in questa immagine mettendosi nei panni di un piccolo
chihuahua umanizzato. La realtà percepita da quella prospettiva appare a
lui enorme, disumanizzante negli stivali neri di cuoio lucidi e militari e
in grandi zampe simili a quelle di un cammello che gli cammina accanto.
Erwitt gioca con i paradossi e si diverte a ribaltare la superficie
traslucida ed edulcorata, troppo educata delle apparenze per decentrare
costantemente con ironia lo sguardo del suo obiettivo, periferico
sull’animale; in particolare assume la misura dei vari prototipi di
cagnetti antropomorfi, abitati di umanità parodiando la medesima per
parlare del mondo che lo circonda.
Nella fotografia divenuta icona erwittiana di New York (1946) per esempio,
la città è vista esclusivamente attraverso un dettaglio fotografico portato
ed espanso in primo piano: i piedi della donna si mostrano enormi,
ingigantiti all’ennesima potenza attraverso i sandali neri sullo sfondo di
un viale alberato e di alti edifici in fuga prospettica verso il fondo. Il
contrasto appare evidente e scherzoso tra la minuscola postura del
Pittsburgh nano che fissa l’obbiettivo e di cui il fotografo assume il
punto di vista e le dimensioni di una realtà estranea, smisurata qui resa a
lui incommensurabile.
I volti delle città allo stesso modo sono filtrati attraverso lo sguardo
erwittiano di questi prototipi canini alter-ego dell’umano. New York è un
viale spazioso nei pressi di Hyde Park democraticamente visto assumendo il
punto di vista del piccolo o del periferico in primo piano. Londra (1966) è
l’interno borghese di un salotto ricoperto di moquette floreale, tappetti
decorati e un sobrio camino vittoriano al centro sul quale troneggia un
orologio a pendolo in suppellettile contornato da minuscole ceramiche e
grandi sontuosi candelabri. Nell’immobilità del luogo un bulldog appare al
centro tra il cinico e il derisorio spossato dal grigiore del lusso
circostante.
Continua a leggere "Elliott Erwitt - Personae, riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli"
Mercoledì, 29 novembre 2017
Writing-Surrealism (suggerito dalla mostra "I Rivoluzionari del 900",
Palazzo Albergati, Bologna)
Uno degli aspetti più interessanti della sperimentazione surrealista_ tale
che essa appare rivisitata nella mostra bolognese, "I Rivoluzionari del
'900" attualmente a Palazzo Albergati_ è la ricerca di un automatismo nella
creazione, nella “scrittura automatica” per esempio, modalità che libera
l’artista o il poeta dal controllo della ragione intesa come quella gabbia
di pensiero positivista borghese o del retaggio asfittico di una certa
tradizione estetica in inizio ventesimo secolo. L’automatismo, permettendo
di eludere il controllo della coscienza, costituiva una via privilegiata
per attingere a una sorgente più antica, perlopiù inconscia e liberare in
questo modo radicalmente l'arte dai vincoli della realtà quotidiana.
L’artista doveva semplicemente limitarsi a lasciar affiorare le linee e le
forme quasi casualmente nei disegni automatici di Arp e Masson,
nell’universo di segni primitivi di Joan Mirò o diversamente nelle
solarizzazioni e sovrapposizioni fotografiche di Man Ray. Il surrealismo,
liberando in tal modo il potere dell’immaginazione, intendeva riallacciarsi
direttamente alla sfera del sogno, dell’inconscio, in qualche caso
all’allucinazione prodotta dalla follia o al tutto possibile del gioco
d’infanzia.
Nella scrittura automatica, secondo Breton, l’intento surrealista del poeta
è quello di ottenere “ la rivelazione istantanea di tracce verbali la cui
carica psichica si comunica direttamente al sistema percettivo-cosciente”.
Gli accostamenti sorprendenti di soggetti su una tela, la scrittura
prodotta da sensazioni, memorie o idee in libera associazione o gli
incontri fortuiti con gli “oggetti trovati” sono alcune delle vie percorse
dal surrealismo per infondere nuova linfa vitale alla creazione artistica
di inizio novecento. Vorremo leggere qui di seguito alcune delle opere
viste a Palazzo in senso surrealista giustapponendo immagini e parole con
una simile libertà espressiva scaturita dall' incontro fortuito tra la
scrittura le linee, le forme i e colori.
Joan Mirò, “Women and birds”
“Comincio a dipingere e la forma diventa indice di qualcosa”
“E’ la traccia grossolana lasciata da un colpo di spatola nero, una
pennellata spessa e corposa su una tela bianca. La neve si riempie di forme
guizzanti, colorate e libere in un mare cromatico e gioioso, fluttuante
sullo sfondo. Chiazze di colore primario entrano in lotta tra loro come
degli opposti attraendosi e respingendosi senza sosta: rosso ardente e
infuocato, verde genuino, giovane e rigenerante, giallo vivido e
splendente, blu intenso e oltremarino. Al di sopra, una nera impronta si
avvolge a spirale, la trama di un gioco avverso del destino; una nuvola
oscura si propaga attraverso la tela, sopra il taglio netto di una corda
avvinghiante che si annoda su sé stessa fino a soffocarla. Si viaggia
attraverso i sensi nel campo magnetico creato sullo sfondo dai colori
primari: giallo, sensuale forza di vita, rosso essenza-radice, blu
oltremare, azzurro etereo, celestiale come il vagare di una mente nel
sogno, poi la traccia nera a raso, esposta e barrata in esterno sul bianco
candore. Esplosione violenta di un tratto che marca irreversibile e
essenziale.
Continua a leggere "Writing surrealism, nota di Elisa Castagnoli su "I rivoluzionari del 900", in mostra a Bologna"
Giovedì, 6 luglio 2017
Immagini e parole da Joan Miró (partendo da "Sogno e colore" a Bologna
P. Albergati)
“Sogno e colore” a Bologna espone le opere degli ultimi trent’anni
dell’artista catalano Joan Miró, protagonista incondizionato del
surrealismo e del rinnovamento pittorico nel ventesimo secolo con grandi
tele della maturità intimamente legate all’isola di Maiorca dove decide di
stabilire il suo atelier permanente a partire dal 1956. Centrale resta qui
l’ispirazione desunta dalle forme organiche e dal mondo della natura
attraverso gli splendidi paesaggi di Maiorca in una luminosità vivida,
sublimata e riflessa tuttavia, filtrata unicamente in pure intensità di
luce e colore. A partire dagli anni ’60 si assiste infatti a una svolta
pittorica e, insieme, a una metamorfosi plastica della sua opera: Miró
intensifica sempre più il grado di espressività sulle grandi tele e
semplifica progressivamente le linee e i tratti riducendo i motivi
iconografici mentre attinge sempre più a una multipla ricchezza di
linguaggi e tecniche pittoriche tra disegno, collage, scultura ceramica e
l’aggiunta di ogni tipo di materiale: gli “objects-trouvés” più diversi che
riconnettono la pittura alla "non-arte" del quotidiano. All’ insegna della
più totale libertà espressiva, e nella piena autonomia plastica dei segni
un immenso universo poetico si rivela tela dopo tela, fondato su un
linguaggio materico e insieme su un alfabeto di linee essenziali, dai
tratti semplificati e i temi ispirati alla natura. Le immagini oltre
all’apparenza astratta rinviano , tuttavia, sempre più a un sostrato
materico originario, come bagnassero in una sorta di ordito visivo e
magnetico le cui radici affondano nell’ inconscio, nel sogno o nella
visione intuitiva della natura. Tale, la trasmutazione lirica della realtà
per i paesaggi di Maiorca. Le tele di Miró parlano ai sensi e all’
immaginazione evocando libere associazioni di pensiero ma, anche per chi
guarda, la tessitura di un vero e proprio campo visivo; la pittura diviene
soprattutto negli ultimi decenni una forma di scrittura universale,
onnipresente che riassorbe tutto e ogni cosa e la trasforma, la metaforizza
in un alfabeto di segni ora lievi, delicati o minutamente tracciati come
fossero linee di china, ora densi, corposi e materici dati per getti o
pennellate di colore. Le forme naturali appaiono sempre più immerse in un
movimento intrinseco come in una danza di corpi che si muovono in un campo
ritmico e sonoro propri.
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Martedì, 9 maggio 2017
Patti Smith, "Higher Learning" (esposizione fotografica a Parma)
Patti Smith riguardo a “Higher Learning” la mostra fotografica a lei
consacrata in occasione della Laurea Ad Honorem conferitale il 3 maggio a
Parma afferma: “In termini di formazione è l'omaggio a un altra forma di
sapere, l'università della vita, dei libri, dei poeti e dei viaggi”.
“Queste immagini”, spiega la Smith, introducendo la raccolta inedita di
centoventi polaroid in bianco e nero, poi di citazioni e opere letterarie
che hanno ispirato il suo lavoro nel corso degli anni, “sono
rappresentazioni visive del pellegrinaggio e della gratitudine, un infinito
amore e rispetto per quelli che rappresentano le voci della nostra cultura
attraverso le loro più grandi opere e l'umiltà dei loro più piccoli gesti o
strumenti”. Le immagini, scattate con una vecchia macchina fotografia Land
250 Polaroid e stampate in copia argentea ad edizione limitata di dieci
copie raccontano i viaggi, le peregrinazioni, gli spostamenti, tracciano la
storia delle influenze letterarie, la serie di voci poetiche e artistiche
che hanno accompagnato o seguito il cammino della compositrice punk rocker
e poetessa Patti Smith nel corso degli anni. Scandagliano, in particolare,
i dettagli, gli oggetti, una serie di indici e indizi visivi che ci pongono
sulle tracce di una storia culturale condivisa e insieme personale della
Smith come in una inedita creazione letteraria nata da tali peregrinazioni
attraverso il globo. Vi compaiono manoscritti, macchine da scrivere,
interni di atelier o abitazioni dove scrittori e artisti-amici hanno
impresso le stigmate della loro vita e opere, poi corsetti, stampelle,
medicinali, dettagli di luoghi che si riallacciano simbolicamente a singole
biografie - uno per tutti la sedia rilegata in pelle lucida dall’eleganza
assoluta e ineguagliabile di Roberto Bolano -, infine i sepolcri dove
scrittori e poeti hanno lasciato la loro memoria per l’eternità. E ancora
sono polaroid in autoritratto, una vestaglia discinta distesa su un letto,
l’abito nero appeso di Beuys, la bandana di William Burroughs, istantanee
riprese nel corso dei diversi viaggi in Europa, una croce vicino al mare,
le insegne dei caffè che hanno segnato il percorso dell’artista da Detroit
a Berlino, da Venezia a Marsiglia, infine l’eterno Café Ino, nello scorcio
tra il tavolino d'angolo e la finestra. Là è l’antro silenzioso dove la
scrittrice si rifugiava a leggere, riflettere o semplicemente osservare e
lasciar fluire di fronte agli occhi sorseggiando caffè nero in solitudine.
Continua a leggere "Patti Smith - Higher Learning, una nota di Elisa Castagnoli"
Martedì, 28 marzo 2017
“LA LINEA DI PIOMBO”, JONAS BURGERT (al Mambo di Bologna)
Sono scenari teatrali, rappresentazioni di quello che Burgert considera la
drammaturgia dell’esistenza umana nell’inesausta necessità di porre la
questione sul “ senso”, poi nel dare forma e corpo al proprio universo
poetico e personale. Tele di sorprendenti dimensioni e d’una complessa
tessitura visiva appaiono sulle pareti dalla hall centrale dello spazio
espositivo bolognese affollate di figure fantastiche , umane o meno, d’un
mondo insieme onirico e inquietante, straripante di presenze nello
“scandagliodipendenza”, Lotsucht, dell’artista berlinese
attualmente in mostra al Mambo di Bologna.
“Scandagliodipendenza”, come titola l'originale “the plumb line”, sarebbe
quella “linea di piombo” insondabile e sottile di realtà o limite ultimo di
percezione sotto la quale l’artista è chiamato a discendere nel tentativo
di esplorare, mettere in luce, dare una forma poetica e insieme una “messa
in spazio” visiva, esuberante e barocca nello stile di Burgert, alla
complessità, alla contraddizione, al groviglio emozionale di un’esistenza
guardata alla lente magnificante di un microscopio interiore al filtro
espansivo della propria immaginazione. La sua pittura lavora a tale livello
simbolico, immaginativo, subcosciente e onirico insieme, ai margini o ai
lati oscuri della realtà manifesta dando forma e spazio, in primo luogo, a
ciò che si nasconde dietro la rappresentazione o superficie apparente della
medesima. Paesaggi allegorici, scenari apocalittici da fine del mondo,
figure fantastiche di diversa natura o provenienza come creature quasi
umane, sciamani, arlecchini, demoni o amazzoni popolano le sue tele. In
altri casi sono i ritratti dei volti visti a distanza ravvicinata oppure le
figure femminili simili a incantatrici, muse o baccanti nelle varie
rappresentazioni che rimandano all'archetipo femminile della “grande madre”
nel duplice aspetto di generazione e degenerazione, procreazione e
distruzione. Allo stesso modo le pareti si squarciano lasciando
intravvedere cumuli di corpi ammonticchiati tra le macerie di un mondo alla
deriva, varchi o buchi improvvisi si aprono al suolo ai quali si affacciano
in sordina i personaggi per scrutare quello che si nasconde nel sottosuolo,
oppure demoni, prendono corpo ma anche figure dell’immaginazione o del
sogno, infine volti femminili simili a divinità d’una straordinaria
bellezza. E, ancora, paure ancestrali prendono forma attraverso scenari
distopici da fine del mondo, oppure composizioni teatrali sapientemente
costruite emergono nella brillantezza dei colori manieristi e dell’esubero
barocco delle forme, là dove si affaccia incombente a tratti un’oscurità
minacciante. Nei ritratti in primo piano di Burgert il gioco si esplica tra
il gesto del nascondere e quello del rivelare, tra il celare o
letteralmente sommergere parti del volto o della figura sotto cumuli di
altri corpi, oggetti o macerie e, dall'altra parte, paradossalmente di
mettere a nudo il centro di gravità d’uno sguardo, d’un emozione o uno
stato d’ essere catturato attraverso un complesso scenario .
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Martedì, 17 gennaio 2017
Frida Kahlo: un universo poetico attraverso l’auto-ritratto (a Palazzo
Albergati, a Bologna
)
“
Il mio lavoro nel corso di dieci anni è consistito nell’eliminare tutto
quanto non provenisse dalle pulsioni liriche interne che mi spingevano
a dipingere. I miei temi sono stati sempre le mie sensazioni, i miei
stati d’animo e le profonde dinamiche che la vita andava producendo in
me.. rappresentazioni di me stessa che erano quanto di più sincero e
vero potessi fare per esprimere quel che sentivo di me e d’avanti a me
.” (F.Kahlo, lettera a Chavez. 1939)
Basta guardare i ritratti dipinti a partire da un medesimo modello, quello
di Natascha Gelman, collezionista privata della pittura muralista messicana
e prima acquirente insieme al marito delle opere di Frida Kahlo e Diego
Rivera - la collezione privata attualmente esposta a Palazzo Albergati di
Bologna - per rendersi conto dell’abisso stilistico che separa e tiene
insieme i due artisti, allo stesso modo del legame esistenziale e creativo,
spezzato e mai interrotto, al centro della mostra bolognese nella presente
scelta curatoriale . Il ritratto dipinto da Khalo molto più ridotto nelle
dimensioni si vuole intimista e attento al dettaglio, focalizzato in primo
piano sul viso della donna per escludere tutto il resto della figura:
analitico, introspettivo tanto da rappresentare quasi un alter ego della
pittrice assumendone l’intensità e la pregnanza del volto, i tratti
marcati, la medesima fierezza e dignità dello sguardo. La versione dipinta
da Rivera, al contrario, nelle dimensioni molto più imponenti tanto da
occupare un’intera parete, magnifica il modello, la seduzione e la bellezza
del corpo femminile attraverso uno sguardo esterno che rende omaggio alla
donna oggetto di seduzione come presenza iconica, glamour, amplificata
quasi sulla parete in estensione anziché in profondità. Tale la distanza
stilistica che separa la pittura dei due artisti.
Come appare dalla mostra, la pittura della Kahlo è un ritorno ossessivo e
seriale sull’autoritratto nel corso di una vita, ora esorcizzando nella
figurazione di sé momenti o eventi dolorosi, tragici o patologici
dell’esistenza ora, per sublimare una bellezza, un’espressività e uno stile
fuori dall'ordinario. La sua arte si presenta, in ogni caso, come una
pittura dell’interiorità contrassegnata, tuttavia, da una profonda
“americanidad”, quell’appartenenza e impronta all’anima e alla cultura
messicana nelle sue molteplici commistioni indigene, ispaniche e coloniali.
Il lavoro di Frida in stretta sintonia con quello di Rivera si situa
all’interno del movimento di “Rinascita Messicana” tra il 1920 e il 1960,
parte di quel gruppo d’ avanguardisti post-rivoluzionari tra i quali
Rivera, Siqueiros, Orozco ecc.. denominati appunto pittori “muralisti”. Pur
nella sua aperta rivendicazione di un attivismo politico a favore del
rinnovamento del paese e, successivamente di un’ideologia comunista in
Messico, la Kahlo si allontana inesorabilmente dalla concezione di un’arte
pubblica, collettiva e popolare al servizio della rivoluzione che, come
voleva Rivera, svolgesse una funzione politica e sociale di consapevolezza
per tutto il popolo. Perché, la dimensione intorno alla quale si dispiega
tutta l’opera di Frida nel corso di una vita è quella dell’esistenza
stessa, nel suo attaccamento viscerale alla medesima sotto il segno della
sofferenza, dall’infermità fisica e dei ripetuti drammi personali con gli
esiti dolorosi o patologici che ne conseguono. Di qui la pittura è per
Frida dagli esordi carta traslucida e riflettente di adesione e messa a
distanza del sofferente vissuto , mappa figurativa del proprio corpo,
strumento e via privilegiata di “trasmutazione del dolore in bellezza”,
infine un modo per esprimere, dare continuità, o meglio riversare la
densità amorosa e conflittuale della relazione a Rivera in molteplici
figurazione di sé dentro la forma dell’auto-ritratto.
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Domenica, 11 dicembre 2016
"Genesi" di Sebastiano Salgado: fotografia e scrittura per immagini ( ai Musei S. Domenico, Forlì)
"Genesi" per Salgado è viaggio alla ricerca del mondo delle origini, la natura tale che ha preso forma e si è manifestata per secoli prima che
l’organizzazione delle società moderne iniziasse ad allontanarci, e renderci estranei ad essa, inconsapevoli della nostra originaria provenienza. Le
immagini di “Genesi” esposte attualmente ai musei S. Domenico di Forlì scattate da Salgado dal 2003 al 2011 nel corso di 25 viaggi e riproposte presso le
più importanti istituzioni d’arte del mondo da Parigi, a New York, da Milano a Buenos Aires raccontano perlopiù di paesaggi terrestri e marini, sconfinano
in regioni remote della terra dove la natura domina limpida, incontaminata nel silenzio della sua magnificenza; attraversano le foreste pluviali e
tropicali dell’Amazzonia, la vastità delle savane o i deserti roventi d’Africa, le distese di ghiaccio nel grande nord delle zone antartiche più rigide
della terra oppure le isole solitarie del Pacifico. Regioni troppo fredde o troppo aride perché la vita umana possa insediarsi se non in contingenze
estreme o attraverso le sue forme più resistenti: specie rare di animali, piante e tribù indigene di popolazioni insediatesi lì da secoli a stretto
contatto e in perfetta sintonia con le leggi prime della natura. Come scrive Salgado: “nel corso di otto anni in cui ho viaggiato attraverso il mondo per
questo progetto ho imparato a lavorare con altre specie che quella umana …non come fossi un etnologo o un giornalista ma per scoprire, mettere in luce,
esplorare o dare voce, visibilità e bellezza al pianeta. Il paesaggio è vivo, immanente all’umano, come i minerali, i vegetali, gli animali, il pianeta è
intrinsecamente connesso in tutte i suoi elementi, vivente a tutti i livelli. Ho capito quanto rispetto gli dobbiamo, un rispetto immenso”.
In questo senso la fotografia per Salgado diviene nelle sue parole “ una lettera d’amore scritta al cosmo , verso una natura in cui gli umani devono
sentirsi parte integrante ”,e, dunque, nel corso degli anni un grido di allarme, un monito sempre più chiaro perché il pianeta non divenga oggetto di
distruzione incondizionata da parte dell’uomo, esposto ai profondi disequilibri del suo eco-sistema generati ogni volta che si perde quella connessione
profonda al mondo naturale perché si impone una logica di sfruttamento, di profitto incondizionato, di uso e abuso senza limiti della straordinaria
ricchezza di risorse che esso ci offre.
Salgado decide nel corso di un viaggio durato una vita di percorrere il mondo a piedi, a bordo di piccoli aerei, di barche, di canoe e persino d’una
mongolfiera per fotografare “ l’immensa bellezza del continente”, i suoi santuari naturali, le sue isole.
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Giovedì, 3 novembre 2016
Sperimentazioni visive e poetiche: partendo da "Bologna dopo Morandi 1945-2015" (a Palazzo Fava a Bologna)
Dodici stazioni da percorrere come attraverso una serie di tappe o soste obbligate di riflessione e visione nel tragitto stilistico e temporale che segue e
traccia l’evoluzione dell’arte bolognese dal dopoguerra ai giorni nostri nella mostra attualmente in corso a Palazzo Fava, “Bologna dopo Morandi 1945-2015”
curata dal noto critico d’arte Renato Barilli. Una settantina di artisti, l’epicentro di una città o meglio di una zona geografica intorno alla quale
prendono forma differenti esperienze pittoriche e artistiche dal ‘45 al contemporaneo , infine una personalità indiscussa e catalizzatrice, quella di
Giorgio Morandi, dalla quale inevitabilmente dover partire per ridisegnare l’oltre, il post o il dialogo con quel passato. Morandi spartiacque in ogni caso
tra l’arte moderna e contemporanea nel panorama bolognese, limite inglobante da dover oltrepassare o bypassare per andare all’incontro con altre modalità
espressive e personalità artistiche forse meno note, ma anche, punto focale del cammino aperto dall’avanguardia fino ad abbracciare tutte le possibili
evoluzioni e involuzioni del post-moderno per approdare al panorama variegato dell'arte contemporanea.
Cronologicamente si parte dall’influenza post-cubista degli anni ’30, al cui vertice resta la pittura di Sergio Romiti- nature morte dall’eredità
morandiana che sfociano in una forte ispirazione analitica e compositiva- cui fa seguito l’impetuosa ondata, la rivoluzione stilistica attuata
dall’Informale in Italia alla fine degli anni ’50. La voce del critico più noto all’epoca in quest’ambito, Francesco Arcangeli, accompagna la transizione
rilevando criticamente il passaggio dal limite estremo dell’ “ultimo naturalismo” alla nuovo esubero di giovani artisti informali come Ennio Morlotti,
Mattia Moreni, Alberto Burri e Mandelli. L’inevitabile via d’uscita dalla sperimentazione estrema e univoca dell’informale sarà segnata da una nuova
“ricerca della relazione” raccontata da artisti come Concetto Pozzati i cui lavori confluiscono nel clima della pop art e del new-Dada degli anni ’60.
Altre stazioni di rilevo nella mostra sono la Scuola di Palazzo Bentivoglio con i due poli di Arte Povera (Pier Paolo Calzolari) e ribaltamento della
medesima in un clima post-moderno e citazionista con Luigi Ontani. Una sala è ancora dedicata ai fumettisti incentrati attorno alla personalità di Andrea
Pazienza e un’altra sala all’esperienza fotografica sperimentale e solitaria di Nino Migliori. Infine la Nuova Officina Bolognese apre uno spazio di
ricerca nell’ambito della video-arte, dei nuovi media, del digitale e dell’installazione video cui è lasciato il secondo piano della mostra come il punto
più estremo, l’approdo ultimo in cui confluisce il “post-post” della metafisica morandiana.
Continua a leggere "Bologna dopo Morandi - Riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli"
Venerdì, 17 giugno 2016
Riflessioni sull’arte: “Silencio vivo”, artiste dall’America latina
(esposizione al Padiglione d’arte contemporanea di Ferrara)
Il “silenzio è vivo”, abitato, portato fuori attraverso un grido dirompente nel grande affresco di Teresa Margolles ospitato per Biennale Donna
alla mostra ferrarese, collettivo di giovani artiste provenienti da diversi paesi dell’America latina. O ancora, è esasperato attraverso la non-parola
d’uno stile individuale lasciato all’espressività unica di singole voci femminili differenti quanto connesse da un filo conduttore che attraversa tutta la
zona geo-politica e culturale presa in considerazione. Tematiche ricorrenti alla realtà sud-americana attuale sono l’esperienza dell’emigrazione, dello
sradicamento e della mobilità obbligata di masse di individui, le dinamiche di censura e persecuzione o la privazione di libertà politica e individuale
imposta dalle dittature militari che hanno segnato la storia recente di questi paesi, infine la criminalità o la violenza diffusa nei confronti delle fasce
più marginali della popolazione, fomentata dall’ instabilità politica e dalla fragilità del tessuto sociale.
Dunque a quali voci appartiene questo silenzio, da dove proviene e a chi prestano la parola, l’espressione, il corpo queste giovani artiste sud-americane?
Il silenzio è in primo luogo quello imposto dalle dittature del passato, in Brasile per esempio, come vediamo nel lavoro di Anna Maiolino trasferitasi lì
negli anni ’60 e sperimentando direttamente la situazione di pericolo, alienazione e censura imposte dal regime militare in atto dal 1964 alla fine degli
anni '70. Oppure, è il silenzio raggelante, l’alone di incredulità e shock emotivo prodotti dal tessuto di criminalità generalizzata e distruttiva, da
quella violenza gratuita e diffusa che investe quotidianamente e in maniera particolare le donne nella società messicana come ci racconta Teresa Margolles.
O ancora, è il silenzio alienante della condizione del migrante, del profugo, di colui che si sposta, emigra, fugge o perde le proprie radici per ragioni
politiche o economiche, per scelta o destino. Tale condizione identitaria appartenente a molti individui in questa parte del mondo è filtrata, per esempio,
attraverso l’esperienza di Anna Mendieta nata all’Avana nel ‘48 e costretta a emigrare negli Stati Uniti nel ‘61 in seguito alla svolta collaborazionista e
anti-rivoluzionaria del padre.
Il silenzio, infine, è il polo opposto all’altro estremo d’una comunicazione espansa all’ennesima potenza nelle società occidentali e non solo oggi: quella
ipertrofia di immagini, informazioni e messaggi resi possibili dalla rete globale, l’iper-connettività su un piano mondiale e a tutti i livelli_ economico,
dei media e delle culture_ la cui altra faccia è spesso l’assenza di una autentica comunicazione o d’un veritiero scambio umano nelle nostre società.
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Venerdì, 6 maggio 2016
La seduzione dell’antico”, tra classico ed estremo contemporaneo al MAR di Ravenna
In quali forme e modalità l’antico, il classico o il lascito dei grandi modelli della tradizione è stato ripreso, citato, recuperato, richiamato in vita in
senso proprio o nel suo “ inverso” attraversamento in tutta l’arte del novecento dalle avanguardie storiche alle neo-avanguardie a ridosso del
contemporaneo? Rilettura inedita, citazione ironica, iconica riscrittura contemporanea, simulacro o rifacimento dissacratorio dell’originale, tutte le
varianti mettono in discussione la definizione stessa di “modello” e il valore di “tradizione” nel suo modo d’essere compresa e re-interpretata oggi.
Soprattutto se pensiamo alla citazione di Bontempelli scelta per introdurre la prima parte dell’esposizione dove si afferma che “la tradizione non è il
passato morto” non è un nostalgico ritorno a una materia inerte o priva di vita ma “quello che vive e si tramuta” per muovere verso una nuova forma, quello
che di vitale resiste, persiste e, pur mantenendo un legame con la sua provenienza, non smette di riconfigurarsi sotto nuova immagine, in un linguaggio che
giunga ancora a parlare ai suoi contemporanei. Le opere rappresentate al Mar di Ravenna ricoprono l’intero arco del novecento facendoci comprendere come il
tema della “seduzione dell’antico”, del classico o del modello inflazionato dalla tradizione assume le sembianze di un ritorno alla figurazione per un
certo filone di pittura italiana del primo ‘900 nel pieno esubero delle avanguardie, e, ancora, di riscrittura inedita, deliberata rielaborazione di temi o
citazioni classiche in De Chirico, Severini, Carrà ecc, Infine, esso compare come influenza paradossale del passato sull'estremo contemporaneo malgrado la
separazione o il distacco sanciti dal post-moderno e nel rovesciamento dei suoi presupposti ri-emergenti più come alterità, simulacro o modello svuotato di
ciò che non si è più o in cui non ci si identifica più veramente nella relazione alla tradizione.
“La seduzione dell’antico” è, dunque, nell’inedita rilettura proposta dall´esposizione ravennate un dialogo aperto con la pittura novecentesca nelle sue
fasi alterne di ritorno alla figurazione o nel totale abbandono della medesima da parte dell’arte moderna. Infine, essa ritorna come la traccia
infinitamente riscritta e cancellata, rifatta e contraffatta della tradizione classica nell’estremo contemporaneo parlandoci di una ininterrotta
“trasmutazione di linguaggi” piuttosto che del nostalgico ritorno a una materia d´ archivio; sempre e comunque si vuole come sintesi inedita capace di
tenere insieme presente e passato, storia e mutevole attualità.
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Giovedì, 18 febbraio 2016
Pasolini e oltre : "Officina Pasolini" al Mambo di Bologna (esposizione fino al 28 marzo)
Officina come sotto-intende la parola è luogo di costruzione, di produzione manuale di oggetti, di un qualcosa che si realizza nel fare, nel comporre e
scomporre, nel tenere insieme parti, elementi aleatori, in apparenza minimali o insignificanti, nel montarli tra loro fino a produrre un oggetto finito, la
forma, il profilo e la struttura di un’opera; allo stesso modo la concezione della mostra monografica al Mambo di Bologna sulla vita e opere di Pasolini si
vuole come montaggio di estratti e testi letterari, scene cinematografiche, fotografie, appunti inediti e manoscritti originali, infine costumi di scena
che dischiudono un vero e proprio universo poetico, estetico e culturale, un percorso artistico a molteplici sfaccettature e contaminazioni tra le diverse
arti e linguaggi per un artista irriducibile a semplici etichette e categorizzazioni. Nel percorso pasoliniano trapela il suo metodo di lavoro intuitivo
che scorre fluidamente dalle parole alle immagini, dalla poesia, alla saggistica, al cinema o alla narrativa e delinea, nel passaggio il volto di un paese,
un'Italia che si trasforma profondamente nel corso di un quarantennio accompagnando le fasi del suo lavoro.
La scelta curatoriale del Mambo sceglie di esplorare attraverso una serie di scritti e immagini filmiche e fotografiche alcuni nuclei centrali, luoghi e
figure mitiche attorno a cui ruota e si costruisce, si consolida e si trasforma l’universo poetico di Pasolini dalle prime poesie in dialetto friulano,
alla narrativa ambientata nelle borgate romane del sotto-proletariato urbano, al cinema di poesia e agli scritti “corsari”, alla critica della società
consumista e del potere neo-capitalista, fino alle ultime opere uscite postume, il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” e il romanzo incompiuto
“Petrolio”. “Officina” in questo senso è anche il lascito di un’opera aperta e poliedrica che si vuole testamento per le future generazione di artisti,
poeti o registi cinematografici e teatrali, fucina di idee e immagini, scritti e riflessioni critiche alle quali attingere, ispirarsi o dialetticamente
mettersi in dialogo quasi proseguendo su un sentiero tracciato e lasciato aperto per un’opera come quella pasoliniana che, come sottolinea la mostra, si
vuole risolutamente non-finita, o meglio dal finale aperto, in divenire, in un divenire-altro, estraneo e oltre sé stesso: altra parola, altra lingua o
altro corpo a partire da quella.
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