Non incrociavo Federico Federici da anni, almeno da quando
circa dieci anni fa avevo pubblicato qualche testo della sua bella
traduzione dal russo di Nika Turbina (Sono pesi queste mie poesie,
v.
QUI
) e soprattutto avevo brevemente annotato la sua raccolta L'opera racchiusa (v.
QUI
), con cui aveva vinto il Montano 2009 (e qualcuno lo ricorderà anche come
autore con l'eteronimo di Antonio Diavoli). Ora, cioè qualche tempo fa, mi
manda il suo Mrogn, uscito per Zona alla fine del
2017, premio Pagliarani 2016 per la raccolta inedita.
Mrogn è un luogo preciso, da qualche parte dell'Appennino Ligure, designato
da un toponimo dialettale di cui sfugge il senso. Mrogn è un luogo
immaginato, ambientazione e set di accadimenti misteriosi e insieme
ineludibili. Mrogn è la coincidenza, anzi la tangenza di presenza umana e
natura, entrambi su un confine invisibile tra dimensioni diverse e tuttavia
intrecciate. Mrogn è una metafora, e quindi un coagulo di senso, non
necessariamente esplicito ma, forse proprio per quello, necessariamente
esplorabile. Mrogn è, probabilmente, un viaggio per il quale la lingua è il
principale passaporto, anzi un viatico, in un'oscurità la cui dissipazione
è una sfida, forse perdente. Infine, e proprio per tutto ciò, Mrogn è un
poema, con quel che ciò significa in termini di spazio e tempo, di respiro
e unità di intenti, di indagine ed epos dell' "evento".
Qualcosa accade o è accaduto, lassù. Sì, forse indagine è la parola giusta,
basta non perdere mai di vista il fatto che non è la soluzione che conta, e
nemmeno la concretezza di qualsiasi fatto. Anzi, è chiaro fin
dall'inizio che è l'incerto, l'indefinito, il probabile non provabile, questi ed altri gli elementi da cui principalmente
è composta questa scrittura. L'accaduto, qualsiasi cosa esso sia, ha un
valore traslato poiché non è che un frammento su cui si esercita un
tentativo di penetrazione della realtà, intesa - in ultima analisi
- in senso astratto. Va notato subito però che, trattandosi di un poema,
qui non c'è, non può esserci niente di frammentario o rapsodico, insomma ho
fatto riferimento a spazio e tempo per qualche ragione. Se i testi sono
brevi o brevissimi è perché hanno, devono avere, l'essenzialità dell' indizio, fissando in esso una porzione di accaduto, e a ciascuno
ne segue un altro, una serie, una sequenza che compone il macrotesto, se
posso usare questo termine improprio. Si arriva alla fine del libro, lo
dico subito, senza soluzioni del "dramma", perché - va detto anche questo -
il dramma, inteso in senso teatrale, è in realtà un presentimento,
forse una leggenda, o una paura, privata o collettiva.
C'è in effetti una dimensione che potremmo definire teatrale, una possibile
interpretazione a più voci, voci indefinite, anch'esse forse metafora di un
indistinto popolo che vive, forse scrive, forse legge, la vicenda poetica.
Sono essenziali qui, in cima ad ogni testo, degli exerga didascalici, delle
indicazioni quasi di scena, di teatro o cinema, che avviano (ma non
conducono, quello è affar suo) il lettore. Facciamo qualche esempio:
(sottovoce – corsivo a verbale); (altri rilievi, anatomie di scena);
(esterno: notte); (primo testimone: un sacrestano)
, e così via. E' chiaro che tutto concorre ad un tono di indefinito
mistero. I "reperti" disseminati come testi apparentemente in sé conclusi
non portano nemmeno a definire che esista un "fatto". Ed è questo, io
credo, uno dei temi del lavoro, se non il principale: una verità
irrealizzabile come vera, perché relativa, intersezione e contaminazione di
parole e punti di osservazione, in un certo senso "privata" di ciascun
osservatore. Esattamente, se vogliamo, come la verità dell'artista, nel
momento stesso in cui si manifesta. Il vero si possiede forse con il suo
"nome" ("l'ha raggiunto il nome, / preso"; "non avrà altro nome / al di
fuori di sé"; "lo scomparso ha nome?"; "Non si può affermare / che sapremo
il nome / dentro cui è morto"; "Lasciateci da soli / a cercare il nome";
"si ripete in bocca della preda / il nome, quasi s'avverasse / in quello";
"lascia perdere / il bersaglio / - è il nome"; "Si sentiva minacciato / nel
suo nome" ecc.). In definitiva, con la parola che identifica e tenta di
organizzare il reale.
Lassù su quel colle, si diceva, qualcosa c'è o c'è stato, esiste o è
esistito. Una scomparsa, o una morte. Come anticipa il risvolto di
copertina: "Chi è morto? Un animale, si direbbe. Chi è scomparso? Un uomo,
si direbbe - se non che anche l'uomo è un animale". Va bene, ma questo è
avvenuto prima, per paradosso possiamo dire prima ancora che il
libro venisse scritto. Il libro viene in un certo qual modo dopo, in
risposta a quelle domande e ad altre che inevitabilmente seguono. Come
quella di cosa sia realmente l'oggetto della caccia/indagine, una caccia metafisica, come sottolinea la motivazione del Premio
Pagliarani, ricordando giustamente la caccia allegorica del caproniano
Conte di Kevenhüller (là alla Bestia, qui all' "altra cosa"). Il luogo è
essenziale, non tanto nella sua dimensione fisica quanto soprattutto nella
sua essenza simbolica. Simbolica è la sua oscurità, simbolico è il suo
intrico. Il luogo è il bosco (e bosco è una di quelle parole - nome, animale, ecc - che ricorrono nel libro, come
segnavia), un luogo senza confini istituiti ("Non esiste il punto / dove il
fiume penetra / nel bosco, né / le vene il corpo" e "sulla carta non esiste
bosco"), nel quale addentrarsi è cedere una parte di sè o paradossalmente
acquistarne, segno che la ricerca (di verità, di risposte) è un valore nel
suo svolgersi, è formazione. E', in altre parole, trasformazione,
forse metamorfosi ("Non si penetra nell'ombra. / Entra in noi l'ombra del
bosco"). Le cose, nella caccia, evolvono. E non è un caso che dei testi
abbiano un carattere sapienziale, che ricorda certe "sentenze" dell' I Qing, il Libro dei Mutamenti: "Lo scomparso ha nome? / L'animale
un'orma, un verso? / Chi cercò nel bosco un varco / è perso". Ma evolvono
come enumerazioni di oggetti o come evidenze di una incapacità di dissipare
per sempre l'oscurità del bosco e l'opacità della verità che si suppone
esso contenga. E forse come metafora della lotta - spesso perdente ma
sempre necessaria - della parola per essere "definitiva" sulle cose e sulla
realtà, specie su una realtà in schegge, sulle tracce di essa ("Che parola
mise sulle tracce, / o che parole erano le tracce? / Chi parlò, / senza
coprirsi di silenzio?"). E' un nobile tentativo, come sempre è la
scrittura, di gettare l'ombra al di fuori di noi.
L'indagine alla fine non ha esito, ma lo sappiamo già, perché un "rapporto"
proprio all'inizio del libro ci informa:
Non è stato possibile giungere oltre l'evidenza dei fatti. I reperti
(pezzi di roccia, cortecce incise, piume, peluria e schegge d'osso), i
rilievi (foto, tracciati, filmati), il sonoro (spifferi d'aria, fischi
di serpi, legna spaccata e parlate in dialetto) sono oggi archiviati al
museo contadino di *. Qualcuno ogni tanto li studia.
La gente del luogo, arrivando l'inverno, ha paura.
L'uomo è sepolto nel bosco. Il bosco nell'uomo.
Mrogn, 7 ottobre 2012
Ma non è nemmeno una sconfitta, è la stessa ricerca il segno e il significato del lavoro, come dicevamo all'inizio, la
compenetrazione di indagine e oggetto indagato, come abbiamo appena letto.
Un libro di fascino, indubbiamente, stilisticamente imperioso e tuttavia
aperto all'immaginazione anche visiva del lettore, nelle ampie radure (del
bosco, del testo) lasciate a chi legge, negli spazi bianchi, come innevati, tra i versi. E il cui principale interesse sta in una ricerca non solo
sulla lingua, peraltro mantenuta a un livello strutturale semplice e
ordinato, anche in funzione della natura volutamente frammentata del testo,
ma comunque sempre serrata ("Taglio per taglio, rima per rima, la caccia
alla lingua è proiettata in cabina di montaggio", ci rammenta Fabio Zinelli
nella motivazione al premio); ma ricerca anche sui temi, sulle cose da
dire, sui livelli espressivi, sulla "storia", su tutto ciò che poi
sostanzia e incarna quella lingua, non lasciandola mai mero strumento privo
di suggestioni. Un linguaggio franto e sincopato, e volutamente antilirico,
non emotivo, che consegue l'ossimoro di una trasparenza
dell'incerta e brumosa oscurità del mistero.
Infine, al di là di ciò che può scrivere il recensore, una cosa che ama
pensare il lettore: che a volere un po' tirare le cose per il bavero, mi
piacerebbe leggere qui anche forse una metafora politica, di quel timore,
di quella paura di un nemico misterioso, di quella incertezza che pervade i
nostri tempi. Insomma mi piace pensare che la poesia, ancora e ancora,
assorba e restituisca il suo tempo. (g. cerrai)
*
qualcuno, che prima è venuto, è andato via lasciando
presto il suo sigillo d’acqua al centro della stanza
l’angelo ammirato attentamente nel dipinto ha
labbra chiuse, sciàmano in un coro poche voci
care, i gridi si confondono, le rondini
*
per aver soltanto vòlto il viso al tuo passaggio
hai finito lì da dietro di guardarmi, dove non vedevo
a onor del vero: non sono forse belli i tuoi occhi? o
come non sapessi già il colore dei capelli, l’opera
dolce delle labbra, il fiato, il dono della voce, chiusi
dietro al dito che indicava la più breve via in silenzio
*
l’aria ferma mi dà pace quanto basta alla figura
che ritorna a farsi viva nell’immagine intravista,
solo ricongiungimento al caldo della luce, poi caduti
il corpo, la sostanza delle cose, l’incolmabile divario
che ti ha resa un’altra lì da me; non tra noi
ricade l’ombra dove entrando il fuoco più si vuota
la materia prende a sé in un ago azzurro luce propria
*
credi, poi che di tutti i nostri gesti
cade l’ombra addosso ai muri
vi penetra una parte, s’apre il varco
tra briciole di pietra intorno all’architrave
dura poco poi nel vivo della storia
altri giorni prima, per diversi pesi,
si equilibra indietro il tempo, il piatto
uguale trattenuto a mano, basso;
hanno un solo suono i passi
dalle spalle indietro e poi
Ricevo la segnalazione da Federico Federici e pubblico volentieri:
pigreco
Nasce oggi “π -trimestrale di conversazioni poetiche” a cura di Federico Federici, su invito di David Nettleingham. La rivista entra così a far parte del Conversation International Poetry Project che, su ispirazione dell’esperienza maturata dalla rivista Conversation Poetry Quarterly di Canterbury, si propone di creare un circuito poetico unico ed eterogeneo attraverso redazioni e pubblicazioni in diverse parti del mondo. L’uscita del primo numero è prevista per Aprile 2009.
____________
È possibile partecipare inviando sino a sei testi poetici inediti di qualsiasi lunghezza e su qualsiasi tema, e una breve nota biografica all’indirizzo redazionepigreco@gmail.com (formati ammessi:.doc, .ps, .pdf) entro il 31 Marzo 2009. Gli autori scelti restano in possesso di tutti i diritti dei testi pubblicati e responsabili in caso di violazione delle leggi vigenti in materia di Copyright.
I quattro testi di Nika Turbina che presento qui sono inediti per quanto riguarda la rete. In realtà sono le quattro poesie finali della bella, struggente raccolta "Sono pesi queste mie poesie" che Federico Federici ha curato per i tipi delle Edizioni Via del Vento (36 p., Euro 4,00), con l'amorevole attenzione con la quale segue ormai da anni la vicenda artistica della Turbina. In questa occasione ho chiesto a Federico di scrivere una nota introduttiva ai testi. Lo ringrazio di cuore per questo, rimandando per altre notizie, foto, letture al suo blog (v. qui)
Su alcuni inediti di Nika Turbina
Federico Federici
Gli ultimi testi in Sono pesi queste mie poesie non appartengono al primo lavoro già edito di Nika Turbina, Quaderno di appunti.
Pesciolino d’oro, scritto tra l’Italia e Yalta nel 1985, in concomitanza della visita a Venezia per la consegna del Leone d’oro, chiude una breve sequenza di inediti, ispirati a quel viaggio che toccò molte città. In essi, accanto all’apparente marginalità delle occasioni (un motivetto italiano che risuona nella trattoria da Gino, la calura dei pavimenti assolati, i gatti randagi e i corvi al Colosseo), è la consueta febbre d’Universo, latente nelle cose, stretta nell’accostamento lieve di due versi, che non fa rumore: «Nudi i piedi sulla sabbia, / le tracce rimangono lontano». Non è a caso che proprio Pesciolino d’oro, che ribalta in qualche modo lo schema classico dell’omonima fiaba russa, chiuda la sequenza: il ritorno a casa ristabilisce forse il sofferto primato della vita sulla pur breve fortuna del sogno.
Per gli ultimi tre testi inseriti nel libretto invece, posteriori al 1990, una datazione più precisa non è possibile. Nika Turbina non era solita indicare luogo e data della prima stesura, forse per abitudine a una forma di istintiva oralità che, sin dall’infanzia, aveva accompagnato le sue creazioni, quando toccava alla madre il compito di riportare su carta le parole. Il periodo in cui sono stati scritti, però, è certamente quello che ha inizio col suo trasferimento a Mosca, per continuare gli studi presso l’Istituto di Cinematografia e l’Istituto di Cultura.
Risulta al momento difficile tracciare un percorso chiaro e organico della sua poetica in età matura, ma ritengo che, in quello che sinora ho tradotto dall’archivio, siano già individuabili alcune linee, il cui spessore e la cui rilevanza andranno valutati e confermati a lavoro ultimato.
I temi a lei cari sin dai primi esperimenti poetici continuano ad agire: l’isolamento, l’infanzia persa o tradita, l’alterna fiducia nel potere salvifico della parola «Mi hanno tormentata le parole nuove. [...] / Mi sono vantata a lungo / di quella che ho scordato», il dialogo con una figura lontana o assente in cui s’incarna disperata la cura per gli affetti più vulnerabili «Mamma, mamma, una culla in seta / rossa come frangia sopra gli occhi». Accanto ad essi affiora occasionalmente una connotazione più civile, che rivela radicato amore e senso di appartenenza per la propria terra: «Sciogliere / le briglie all’anima, / scaldare le persone / con la forza oscura / di un amore grande. / La patria / che amo ardentemente».
Il linguaggio si carica di immagini, a volte delicate e nitide come nelle poesie d’infanzia, a volte articolate, quasi indistricabili «Scricchiola qualcosa in questo mondo finto. / La vita scola rapida nei tubi. /...Come un rivoletto d'acqua, / esagerando, / cade dal balcone / vanta d’aver fatto lui da testimone / alla storia della “Creazione”…», cariche di un’ansia e di un vigore nuovi, in cui lascia la parola solo un margine tagliente alla rassegnazione: «Passar / davanti alla bugia su un cavallo, / fare un nodo alla criniera. /Ai bambini dar la gioia / sorridendo alle sventure».
A tratti, ma con maggior frequenza che in passato, si trovano poesie ridotte al nucleo di una fiaba, in un’atmosfera tra epos e mito. Un testo, La rana zarina, ripete il gioco felice di Pesciolino d’oro, adattando e trasformando in chiave personale il contenuto originario della fiaba «Lascia che sia io / il tuo passato, / non bruciare quella pelle ora / che sfilo di dosso»; un altro sembra disegnare la figura di una Penelope di oggi, in una misteriosa atmosfera carica di attesa, durata anni o giorni, dell’amico/amante che si è allontanato e sta per ritornare «Srotolo il gomitolo – / da tempo non lo lavoravo io per te».
Oggi la lettura di tutti questi versi suscita in alcuni meraviglia, sconforto o sospetto in altri, presi più da un’ansia di morbosa indagine biografica, che da un interesse vero per la poesia, cui tutto pur si riconduce. Si dovrebbe prendere allora diversamente in considerazione chi li ha scritti: Nika Turbina. Come è indicato nella nota fornita dalla famiglia, e come si può intuire anche da fonti non ufficiali, rintracciabili su articoli sparsi e in rete, Nika trascorse l’ultima parte della propria vita lontano dall’interesse generale, quello stesso interesse in seguito più volte suscitato dalle tragiche circostanze della sua fine, dopo un’infanzia di rapidi successi e di promesse. I testi sono allora stati spesso preferiti in qualità di indizi di un malessere tutto personale, che l’ha condotta sino all’ultima fatalità, in quella notte in maggio.
Non è certo il primo caso in cui episodi della vita di uno scrittore vengono riletti o esasperati a posteriori, per giustificare, quasi profeticamente, il legame tra scrittura e vita. Si tratta per lo più di cose di poco conto, buone per un trafiletto in riviste o quotidiani, in cui la retorica della bimba, che scrive meraviglie e recita indossando l’orologio dei Puffi, o quella affine della donna, che si getta, all’apice della disperazione, da una finestra, dopo avere spesso invocato il vuoto «In piedi sui confini: / solo un passo ancora, / avanti! Verso l’immortalità», hanno ancora una certa suggestione sull’ingenua sensibilità di molti.
A mio modo di vedere, invece, la questione sui testi e la vita di Nika Turbina, va inserita in un contesto più ampio, nel quale la ricostruzione(перестройка) di quegli anni non può essere completamente tralasciata. Chiunque viva in società o, con metodo e coraggio, tenti di sottrarsi ad essa, è prima di tutto venuto in contatto con qualcosa che lo ha segnato nel profondo, qualcosa da cui si è sentito definitivamente respinto o attratto. In questo senso, la portata degli eventi che investirono l’Unione Sovietica nella seconda metà degli anni Ottanta, la progressiva frantumazione di quel tessuto connettivo unico, in un territorio così vasto ed eterogeneo, non può avere inciso su spiriti sensibili toccandoli soltanto nella vocazione artistica. L’apertura ad Occidente, il contatto con la sua economia, il suo spirito poetico, hanno certamente disegnato gli spazi di un’altra quotidianità, posto in vivo le coordinate di un’altra cultura possibile, le sue istanze e le sue forme, procedendo dalle periferie sino al cuore centrale di Mosca, Leningrado, travolgendo la rete/gabbia di certezze cui si trovava ancorato l’individuo.
Qualcosa era già penetrato nei primi anni Ottanta, in cui esperienze diverse, ancora più o meno isolate o individuali, avevano iniziato a confrontarsi con la rinuncia, tipicamente occidentale, del poeta a farsi depositario unico dei codici di una coscienza condivisa. È a questo punto che l’estenuante scavo del verso, alla ricerca del suo ultimo strato significante, diviene per molti indagine rischiosa sul nervo stesso della vita, irritato, scarnificato, provocato al continuo conflitto di parola e corpo, sino al punto in cui né la scrittura ha più strumenti o forza per arginare il corpo, né il corpo riesce a farsi più carico della parola e si frantuma insieme al testo in un unico atto di in-comprensione.
Nella notte tra il 6 e il 7 maggio del 2001, ad appena ventisette anni, Boris Ryžyj, geofisico e poeta, si impicca nella sua abitazione di Ekaterinburg, con un gesto inaspettato, ma, si scoprirà, meticolosamente studiato e preparato. L’11 maggio 2002 la tragica fine di Nika Turbina a Mosca, con il volo da una finestra del suo appartamento: ultimo, disperato tentativo di abdicare la vita o disgraziata coincidenza, l’equilibrio perso malamente sedendo al davanzale, attratta da quel vuoto come da bambina? (1)
In entrambi i casi si tratta di personaggi, per circostanze diverse, già sottratti all’attenzione collettiva, ai quali mal si adatta la dialettica del genio, che, in un impeto tragico, accede al mito figurandosi la morte, tanto più in una società che andava trasformandosi in senso opposto, rinunciando alla figura del poeta-titano di chiara matrice novecentesca. Non si può parlare allora strettamente di letteratura-vita come causa-effetto, come se da ultima la vita aspirasse a una mimesi del testo (o viceversa). Tracciare una demarcazione netta, sostenere le ragioni della letteratura a fronte di quelle della vita, affidando all’una il compito di spiegare l’altra, è un approccio persino troppo superficiale, arbitrario, fitto di implicazioni più ideologiche che reali. E maggiore è il talento con cui ci si confronta, più vana è la pretesa.
(1)La famiglia racconta di una ragazza che stava superando ansie e insicurezze, che immaginava ancora il suo futuro. Bisogna ricordare che, a seguito del tentativo di suicidio nella notte tra il 13 e il 14 maggio 1997, Nika Turbina era stata sottoposta a numerose e delicate operazioni, che le avevano permesso di tornare, pur con qualche difficoltà, a camminare, lasciandole però problemi alla schiena.