Martedì, 13 ottobre 2015
Alcune cose sono cambiate, nella poesia di Massimo Pastore, da quando ne scrissi nel 2009 e nel 2012 (vedi QUI). Già tra il primo e il secondo incontro qualcosa era cambiato, nel senso di una maturità non sempre positiva (là dove sembrava annacquare qualche "spirito") ma sostanzialmente vissuta, voglio dire non solo acquisita a forza di letteratura, ma conquistata anche poeticamente, anche dolorosamente, sul campo. Massimo è per me un poeta di indubbio interesse, perfino quando pensa di smettere di scrivere e poi per fortuna ci ripensa. Lo è perchè senti sempre sotto i versi una forza primeva e un po' selvaggia anche allorquando, come in questi testi, recupera una voce totalmente lirica, parlando d'amore (certo, e che altro?) e d'altre evenienze ma con l'aria di avere ancora i pugni in tasca mentre ti guarda in faccia. Lirica o lirico-metafisica o surreale, ma sempre lirica è, centrata su un soggetto intensamente ed emotivamente attraversato da correnti, da sogni, da visioni, con meno "violenza" anche nella forma, nella costruzione dei suoi piccoli edifici narrativi, ma che ancora non ti lascia tranquillo, per così dire, perché ci senti ancora (ed è un bene) qualcosa di perturbante sullo sfondo, come in un quadro di Füssli. E' bene, anzi caldamente consigliato, leggere queste poesie insieme a quelle (v. link sopra), che magari ci si accorge che Massimo è questo e quello, che insomma ha diversi registri, anche stilistici, e questo è un valore, diversi dolori, e forse ha anche diverse vite, ma una cosa è certa, secondo me, che lui, a differenza di altri, di queste vite ne fa uso, nella sua poesia, sempre tenendo in mente la loro fragilità, il loro volare su ali di vetro. E' questo filo diretto che la parola, senza troppi infingimenti o concettualità, mantiene con l'esistere ad essere la vera sostanza della poesia di Massimo, la sua ragione, e forse anche il suo potere salvifico. (g.c.)
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Domenica, 1 aprile 2012
Massimo Pastore è uno che aveva pensato di smettere di scrivere, cosa che depone a suo favore, a volte bisogna averceli certi dubbi, e invece molti altri che quella incertezza dovrebbero avercela proprio non ce l'hanno. Ma quella di Massimo non era un'autocritica, e poi comunque per fortuna ci ha ripensato. No, voleva smettere perchè per lui la poesia è dolore. Dolore sia espresso in versi, sia sofferto a scrivere. Ma come sappiamo, di "dolore" ne son piene le fosse (poetiche). Poi bisogna vedere quale, se ha dignità poetica. Massimo è poeta figurativo e cantastorie (v. QUI) come tanti musicisti della sua terra ligure. Ma anche un romantico depurato da romanticismi, uno che piace alle donne, un acido che a qualcuno può dare imbarazzo. Non ha eccessivi pudori, e un poeta non dovrebbe infatti averne. Certo a volte indulge, un pò posa, fa il maledetto. Ma a suo credito va detto che non parla, come altri, per sentito dire e se questo non bastasse è uno che osa, nel linguaggio, nell'invenzione metaforica. Mi ha mandato un po' di poesie. Gli ho risposto dopo qualche tempo: "Caro Massimo, eccomi qua...purtroppo ho avuto poco tempo ultimamente. Ho letto le tue poesie. Potrei dire in una battuta: da Bukowski a un Ginsberg eterosessuale, ottime per essere lette in pubblico, attorializzate col corpo, sputate addosso alla gente. E' questa la tua cifra, insieme a una ferocia o rabbia di fondo che a volte non controlli (e forse è giusto così). L'amore è una materia difficile, in poesia come nella vita (se esiste una differenza tra le due cose). Anche feroce, appunto, specie se è quasi soltanto scontro di carni, di quella maniera infantile di conoscere che è il tatto e la ferita. Alcune poesie sono molto buone, altre meno (ma solo perchè, mentre tutto fila liscio, ogni tanto d'improvviso ci infili qualcosa come per dispetto o per posa), altre no. Altre coinvolgenti, quando (es. Rame o Confesso) ti ricordi di avere un cuore lirico da qualche parte. Ma, a parte tutto, da tutto questo magma emerge un bella stoffa. Se riesci a mettere d'accordo potenza e controllo (come in quella pubblicità di pneumatici) sei a posto!" Poesie di amore e morte, intesi non tanto come polarità topiche consunte quanto come luoghi narrativi dove il dolore si palesa e mostra la sua maschera. Amori che non durano, un pò esibiti e hors de scène, carnali e di una sottesa violenza sempre borderline; la morte del padre, sempre presente anche quando non espressamente citata, elaborata in particolare in un intenso testo in prosa che qui non ho voluto pubblicare, una autentica elegia rap. E anche squarci urbani o interni giorno in cui si vive velocemente e senza meta e velocemente si scrive come se fossero graffiti, una lingua con i suoi codici, la sua anarchia, le sue distorsioni. Poesia che può piacere o non piacere, senza vie di mezzo. Ma che non passa inosservata.
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Lunedì, 22 giugno 2009
Se Henry Chinaski (cioè quello straordinario ubriacone di Heinrich Karl "Charles" Bukowski) e Fabrizio De André si fossero mai incontrati in qualche bar intorno al porto di Genova, probabilmente si sarebbero raccontati storie come queste, stringendo gli occhi al fumo delle loro sigarette. Un incontro impossibile, o immaginabile solo tramite la letteratura, o il sogno di un poeta come Massimo Pastore, di cui Bukowski è in effetti il nume tutelare. Non solo in quanto poeta, ma anche e forse di più come narratore, appunto, di storie, che recuperano pezzi di vita, pubblici o privati, con un linguaggio che alla vita (o a come si presume la vita parli) assomiglia. E poi magari questo linguaggio, anzi questa lingua proprio nel senso saussuriano, si addensa in forme chiuse e metriche o ripetizioni/ritornelli che - appunto - funzionerebbero benissimo musicate (v.ad esempio in Gesù dei carruggi, ma anche le inedite qui in calce). Perchè "lingua"? Perchè Massimo è giovane (è del 1978), e quindi con un pò di rabbia e di rivolta addosso e con qualche spinta dentro uguale e contraria. Così che a volte ricorre a un linguaggio condiviso, "giovanile", a un codice che, a volte pigiando sul pedale degli effetti, di disillusione e sfiducia deve avere il sapore. Ma anche, ecco, di malinconia un pò rimbaudiana un pò romantica, per cui anche il colloquiare quotidiano, il mimetico balbettio degli ubriachi, il parlare di tutti i giorni al bar (magari della "carogna" che ci sta sulle spalle, degli amori in attesa o persi, del popolo che sfila nei carruggi) vira verso un'aria lirica e limpida che tutto contiene, che sa di mare, che vignetta le storie e le inquadra come in una striscia di Corto Maltese. Con una certa varietà di registri, corti o lunghi al bisogno, con il controllo (non sempre perfetto ma spesso molto buono) della propria ispirazione, dei mezzi stilistici, delle buone vecchie figure retoriche, del ventaglio lessicale disponibile, Massimo compone piccole partiture, ma niente affatto minimaliste o bozzettistiche, proprio perchè non hanno questa pretesa, non vogliono essere emblematiche, rispondono al doppio bisogno di chi scrive e di chi legge. Il segreto infatti è raccontare cose note e lo stupore di esse meglio di quanto farebbe il lettore. E non è poco.
GESÙ DEI CARRUGGI
Credimi, l’astio e il malcontento
Si mischian ai sorrisi, ai marinai,
e camminan a braccetto sottovento
tra i carruggi ed i vinai,
credimi ti perderesti fratello
seguendo il polline del mare
che dalla lanterna come un uccello
vola portandone odor di sale
e magari potresti incrociare
la stanza di maria, sorriso messicano
un culo tondo da baciare
ed un gemito disumano
o magari ti troveresti per mano
in una strada piccina
tra l’africa e un napoletano:
“guagliò hascisc o cocaina.”
Credimi, l’astio e il malcontento
Si mischian ai sorrisi, ai carabinieri
E camminan a braccetto sottovento
Tra i carruggi e i negrieri
E potresti trovare tra chi muore di fame
Tra la rumenta e gli alcolizzati
Tra le briciole di pane
E il sorriso sdentato dei drogati
Gli occhi neri di un bambino
Profumo d’africa, elastici come caucciù,
suo padre è un assassino
e lui è dolce, lui è gesù.
I marinai salpano l’ancora e le mutande
Arrossisce il sole con mille forme
Pare proprio una festa di ghirlande
Mentre il figlio dell’assassino, gesù ora dorme.
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