Lunedì, 16 novembre 2015Ricostruzione del senso, distruzione del concetto La ricostruzione del senso / la distruzione del concetto
(appunti di poetica, anche se non pare)
Nel 1965 Joseph Kosuth (Toledo, USA, 31 gennaio 1945) "inventa" l'arte concettuale, ovvero un'arte come attività significante e sul significante; come superamento dei limiti del medium; come opera preminente rispetto alla sua stessa esistenza di oggetto; come idea e linguaggio in sé; un'arte "in cui l'accento cade sull'intento del creatore, mentre l'oggetto su cui l'intenzionalità dell'artista si concentra può essere puramente accidentale" (P. Rescigno). Kosuth comincia con una installazione intitolata "Clear, square, glass, leaning", quattro lastre quadrate di vetro appoggiate al muro che recano ciascuno rispettivamente una scritta denotativa corrispondente ad una reale qualità: trasparente, quadrato, vetro, appoggiato (inclinato). L'idea è lanciata, ed è un'idea sostanzialmente di "linguaggio". Ma forse la sua opera più famosa, sempre del 1965, è "One and three chairs", un'altra installazione composta da una sedia, dalla sua riproduzione fotografica a grandezza naturale e da un pannello che riporta la definizione della parola "sedia" di un dizionario (ciò che qui si vede sopra nella fotografia è una delle diverse repliche, già una questione, questa, a sé stante). Il processo, secondo alcuni critici, è quello del passaggio dal reale alla sua rappresentazione, fino al concetto, alla sua definizione astratta, un codice che deve essere interpretato mentalmente al di là della sua collocazione, del contesto o perfino della presenza dell'oggetto stesso. E' un gioco, quindi direi, che porta Kosuth da Duchamp, spesso sotto traccia nei suoi lavori (l'oggetto "già fatto"), verso Wittgenstein, il linguaggio come raffigurazione logica del mondo. Nei confronti del fruitore l'invito è a conciliare, più con l'intelligenza che con la rappresentazione oggettuale, la realtà con le sue codificazioni (rappresentazioni) iconiche o logico linguistiche. Un'esperienza riproducibile, tra l'altro, di fronte a qualsiasi oggetto della vita quotidiana. Una esperienza critica, quindi, nei confronti della realtà come "originale", intendendo questo termine anche nel senso che comunemente si attribuisce ad un'opera artistica (originale/copia), oltre a quello di ab origine. Il "godimento" è intellettuale, la metafora è della diffidenza rispetto al "vero", a me pare. Kosuth in un certo senso "triplica" (e criticizza) Magritte e la sua pipa ("Ceci n'est pas une pipe", La trahison des images 1928/29), ma si può dire anche che costruisca un ready made plus, in cui l'oggetto da solo non basta a conquistare lo statuto di opera d'arte. Nel 2003 Nemanja Cvijanovic, nato nel 1972 a Rijeka (Croazia), dove ancora vive e lavora, ma formatosi prevalentemente a Venezia, "riscrive" con lo stesso titolo l'opera di Kosuth, un'operazione postmoderna - eh sì per una volta usiamo questo termine non a sproposito -, copiandone (citandone) un pezzo (la parte diciamo così "riproducibile") e sostituendone una parte: si tratta della copia della foto della sedia di Kosuth, della fotocopia del pannello della definizione di "sedia" (si presume sempre quella "di" Kosuth), mentre la sedia reale viene sostituita - così si dice - con quella sulla quale è stato fucilato il partigiano Vjekoslav Dukic il 5 gennaio 1941 (l'oggetto in effetti appare malconcio, con un pezzo mancante, come colpito dai proiettili), evento di cui dalla semplice visione dell'opera non è dato sapere, se non sulla base di una informazione aggiuntiva, completamente extratestuale rispetto all'opera stessa. In pratica una didascalia, ovvero un'operazione linguistica che sta "fuori".
Qual è il significato di questa installazione? Potremmo avanzare delle ipotesi, che probabilmente stanno insieme:
a) una effettiva riscrittura di ciò che possiamo chiamare la trama del lavoro di Kosuth, sulla base di una sorta di insoddisfazione di Cvijanovic, forse nei confronti dell' anonimato dell'oggetto e delle sue rappresentazioni;
b) volontà di inserire un elemento semanticamente "altro", anzi storicamente diverso, meglio ancora, storicamente precedente, e in ogni caso portatore di una sua precisa identità, di una unicità che potremmo definire museale;
c) intenzione di indicare una sorta di preminenza della Storia, in
forza della quale (cioè in forza della perdita di anonimato) le
rappresentazioni dell'oggetto (veramente vero) appaiono
inutili, demotivate, superflue. Nota a margine: pare emergere un
carattere europeo, nel senso di incapacità di fare a meno della storia
che caratterizza il vecchio continente;
d) interruzione di fatto, intenzionale o meno, della ripetibilità,
virtuale o effettiva, dell'opera, non tanto quella di Kosuth quanto in
generale dell' idea dell'opera di quel tipo, proprio per effetto dell'unicità della
sedia di Cvijanovic. Nota a margine: serialità e autoreferenzialità
sono tratti caratteristici di molta arte concettuale (e poi della pop
art). Per Kosuth non solo sedie, ma anche lampade, martelli, poltrone,
badili da neve (ma non ci aveva già pensato Duchamp nel 1915?), orologi
(in questo caso cinque, diversamente oggettivati) e altro. Repetita
iuvant, verrebbe da dire soprattutto all'autore. Si presume infatti che
il fruitore dovrebbe aver capito il concetto alla prima. L'impressione
tuttavia è che non siano nemmeno repliche, ma piuttosto ricostruzioni dell'opera in luoghi/contesti diversi, quasi con quel che c'è
a disposizione. Ma quello della serialità è un altro problema, da
distinguere dalla riproducibilità, nel senso che aveva indicato Benjamin
nella sua opera del 1936 (nel caso di Cvijanovic la serialità è
ovviamente impossibile);
e) non escludendo inoltre l'intento di citazione parodistica, uno dei
caratteri più tipici del postmoderno, come avevo accennato prima.
Cvijanovic sembra voler dire a Kosuth: la realtà è questa, molto più
drammatica, molto meno generica. O anche: questa è una sedia, rovesciando l'assunto magrittiano;
f) infine, l'opera di Cvijanovic è un commento all'opera di Kosuth (v. sotto), un commento politico,
posto a chiosa di una intercambiabilità o una molteplicità
industrialistica che se vuole essere critica alla lunga finisce per
essere una riproposizione della stessa.
Forse l'ipotesi può essere complessivamente riassunta come una ricostruzione del senso, o il suo tentativo di ricondurlo fuori dal "dubbio". Ma quella di Cvijanovic è in fondo una banalizzazione, al di là del forte riferimento storico, soprattutto perchè pone una delle questioni (tra le altre) capitali, e cioè se il nuovo è davvero nuovo (o forse dovremmo dire innovativo, cosa già diversa). A me pare che qui la ricostruzione del senso si traduca in una distruzione della metafora (o forse meglio della metonimia) e in ultima analisi di quella del concetto. In questo senso l'opera appare irrilevante da un punto di vista culturale, proprio in confronto a quella che la precede. Se l'opera d'arte può essere paragonata a quei discorsi che sono all'origine di un certo numero di atti nuovi, come potremmo dire con il M. Foucault de L'ordine del discorso, il commento, che secondo il filosofo francese, riaprendo il discorso su un certo testo "ha come unico ruolo, quali che siano le tecniche messe in opera, di dire infine ciò che era silenziosamente articolato laggiù", qui non genera di fatto un atto nuovo. Nel commento, aggiunge Foucault, "il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell'evento del suo ritorno". E' lì che il confronto è perdente. [E' una riflessione aperta.] (g.c.) Sabato, 29 novembre 2014No commentI commenti sono bloccati, causa ennesimo attacco di spam. E può darsi che, buon ultimo, li lasci così. Mi sono un po' rotto di cancellare "women long sleeved chiffon shirt New" o "cheap air jordan 3 retro 2013" oppure "canada goose logo t shirts apparel" o "women casual dress Bandage" (però a qualche cultore del cut 'n' paste SMBD potrebbero fare comodo). Siccome l'alternativa è qualche raro saluto da amici o qualche rarissimo commento con vaghe sfumature critiche ogni tot mesi, non so se ne vale la pena. Si potrebbe dire "il commento è morto, viva il commento", o anche "morto il commento se ne fa un altro", ma non funziona. Mi pare che una attonita afasia, seguita dallo sproloquio - politico o no - delegato ad altri pochi, abbia colpito la gente in molti campi e sia uno dei segni del nostro tempo. Figuriamoci poi gli sparuti lettori di versi, a meno che non si tratti, spessissimo, di esprimere il proprio entusiasmo su Facebook (yesss, I like, I like, I like, I LIKE IT!, uhmmm.., che sembra tanto una cosa post-porn ma non fatevi illusioni, non siete così ganzi). Vabbe', diciamolo, alla fine non è che i commenti mi angustino più di tanto. Hanno smesso da tempo di essere una forma di comunicazione. Chi vuole ringraziarmi o mandarmi affanculo per qualcosa che ho scritto (nessuna delle due cose è obbligatoria) lo fa privatamente, chi vuole farmi sapere qualcosa di serio il modo lo trova. P.S. Riflettevo anche su un'altra cosa, anch'essa non proprio una novità ma tant'è, mi piace arrivare ultimo. Sul fatto che gran parte della poesia è autoprodotta (usiamo un eufemismo) passando attraverso piccoli editori. I quali, insieme ai loro responsabili di collana (anche nomi di un certo rilievo) dovrebbero avere la responsabilità, lo scrupolo, di fare con qualche criterio una selezione di ciò che pubblicano. Cioè di fare il loro lavoro. Una cosa rara quanto i commenti. Ed il perché è ovvio. E' una delle poche attività commerciali che sorride al "produttore" girando il culo al consumatore. Ne deriva che gran parte della roba che circola è illeggibile (ma volevo usare un'altra scatologica parola che col culo è correlata) compreso un po' di quella che ho in questo momento sulla scrivania. E questa è una delle ragioni per cui invece di fare la solita recensione ho messo un po' di parole in fila. Buona domenica. (g.c.) Domenica, 21 settembre 2014Appunti di lettura (ad alta voce) Parto dall'esperienza di giovedì scorso a Milano, in occasione della
presentazione del libro antologia "Totilogia - involatura sulla poesia
di Gianni Toti" (libro di cui spero di parlare a breve), durante la
quale ho letto due o tre testi di Toti, e li ho letti come mi andava di
leggerli. L'esperienza in sè, divertente e positiva, è qui solo
l'occasione per qualche breve riflessione, un po' a ruota libera, sul dire, leggere, recitare (che sarebbe già un bel titolo per un saggetto). E leggere altri da sé stessi, soprattutto, testi di autori che non siamo noi.
Diamo per scontato che solo l'autore sa come andrebbe letto un suo
testo, e forse nemmeno lui, dato che, come credo, il testo poetico può
sempre essere soggetto ad "illuminazioni" di senso (e anche di suono)
anche per l'autore stesso. In genere l'autore ha comunque un'idea
precisa sul da farsi. Credo ad esempio che Ungaretti avrebbe letto "I
miei fiumi" cento volte allo stesso modo che in questa registrazione,
piuttosto nota. Penso anche che sarebbe difficile, avendo sotto mano
questo documento, darne una versione molto diversa, a meno che non se ne
voglia fare una cover rap o una citazione intertestuale. E che dire di Ghérasim Luca e della sua ancora oggi sconvolgente Passionnément?
Ma mettiamo il caso di non avere l'autore sotto mano, perché assente,
distante, non documentato o semplicemente morto. Purtroppo (o per
fortuna, da un'altra prospettiva) il testo poetico non è una partitura
musicale, in cui gli accenti, le misure, le pause ecc. sono più o meno
chiaramente identificati. Se questa "mancanza" lascia spazio a un certo
margine di autonomia interpretativa, tuttavia sapere come
leggere un testo di un altro è, in via generale, una presunzione, e
questo vale ovviamente anche per me. Perciò affermazioni del tipo che la
poesia (quale? tutta?) andrebbe letta lentamente, staccando con ampi
vuoti come questi le parole in modo che
l'ascoltatore possa intendere e
gustare a pieno il senso delle parole, mi
lasciano qualche perplessità, se non altro perché la poesia non è fatta
solo di parole ma di molte altre cose. Come del resto mi lasciano un po'
dubbioso le "scuole" in cui viene insegnato a dire la poesia e gli slam
nei quali la spettacolarizzazione scenica della lettura fornisce
talvolta una fin troppo comoda mascheratura alle carenze qualitative del
testo (in questo caso il proprio, quindi lasciamo perdere). Forse -
ecco, appunto - oltre al dire bisognerebbe anche insegnare il capire criticamente il testo (o autocriticamente, se si tratta di roba propria).
Un buon punto di partenza resta a mio avviso la sensibilità personale
del lettore, per quanto possa apparire fumoso questo concetto. Se uno
parte dalla tecnica probabilmente restituisce all'ascoltatore la
tecnica, non so se mi spiego. Se uno parte dall'empatia, dal
riconoscimento delle percezioni anche emotive che il testo gli ha già
dato prima, privatamente, può anche darsi che riesca a
restituirle a chi ascolta (tra l'altro sono sempre stato convinto che la
poesia andrebbe sempre letta a voce alta, anche nel chiuso della
propria cameretta, e questo rimane un buon inizio). Sensibilità e
occhio. Perchè l'autore, a parziale correzione di quanto dicevo
all'inizio, qualche segnale di "partitura" o di sotto testo, per dirla
in termini teatrali, lo dà. Credo sia utile, a mio avviso, considerare
la punteggiatura se c'è (nei testi contemporanei sempre più assente), le
interlinee, i rientri le indentazioni e gli allineamenti al margine
destro, che raramente un autore mette lì a caso, ed altri arnesi come
gli enjambement. Tutta roba che serve a dare un ritmo, le sospensioni, i
silenzi. Ma soprattutto credo che sia necessario intendere il tono del
componimento, se sia di modo maggiore o minore, se sia ad esempio grave
o ironico, se contenga un'ossessione o una liberazione. Lo so, sono
cose ovvie, ma forse non tanto a giudicare da quello che sento in giro.
Dovendo fare un esempio, citerei intanto una delle poesie di Toti che
ho letto a Milano, tratta dal libro. Ironia e critica di certi artifizi
lirici, con un pizzico di surrealismo che però dichiara un principio di
realtà assoluto:
(NECROLOGIO PER LA METAFORA)
non paragonava più niente a nessuno / non diceva più alla sua donna che era come una rosa / che era una rosa / non ripeteva neppure più alla sua rosa che era come la sua donna / che era la sua donna / ma quando lei arrivava sei come te ripeteva e quando aspirava una rosa sei come una rosa constatava e gli veniva quasi da piangere perché // la sua donna era solo la sua donna le rose erano le rose e tutte le donne del mondo tutte le rose il come era abolito nessuno lo sapeva più distinguere tra il volto e lo specchio / finalmente …
Gli slash (/) sono sospensioni, quelli doppi (//) una sospensione
allungata prima della conclusione, i grassetti i punti che a mio avviso
in lettura andrebbero enfatizzati, proprio dove il poeta mette in
discussione l'usurato "come" della metafora, annullandolo. Mi sembra
abbastanza intuitivo, tutto sommato, ma naturalmente non definitivo,
perchè in qualche modo la lettura è sempre una forma di prevaricazione
del testo.
Anche se possiamo non essere completamente d'accordo con U. Eco quando
afferma: "un testo vuole lasciare al lettore l'iniziativa
interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un
margine sufficiente di univocità", è indubbio che in quel margine
risiede il diritto creativo e inalienabile dell'autore, di cui chi
legge, più o meno professionalmente, deve tener conto.
Concluderei invitando alla lettura di una poesia che amo molto, tratta da "Variazioni" di Amelia Rosselli:
Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il mondo è vedovo se tu non muori ! Tutto il mondo è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi dalla tua nascita e l'importanza del nuovo giorno non è che notte per la tua distanza. Cieca sono che tu cammini ancora ! cieca sono che tu cammini e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.
E' evidente il meccanismo di ripetizione, reiterazione, circolarità, di
isolamento della parola, di verso costruito sul fiato, un testo in cui,
come in altri "l'idea non era più nel poema intero [...] ma si
straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o
da nessuna parte" (Rosselli, in "Spazi metrici"). E' in funzione di
questo, del suo precipitare di parole-pietre e altro ancora che
bisognerebbe pensare la sua lettura, probabilmente. E' un terreno
aperto. Voi come la leggereste?
Martedì, 17 giugno 2014res sunt consequentia nominum Vi consiglio, se non lo avete letto, il saggio di Davide Castiglione "Le cose, le cose, le cose - Svuotamento e stallo nella poesia recente", pubblicato
sul sito "In realtà la poesia" (QUI). Incentrato sostanzialmente sul progressivo spostamento di senso dell'oggetto, anche filosoficamente inteso, verso una
indeterminatezza che è indice di un sostanziale scollamento tra scrittura poetica e realtà e di cui il sostantivo "cosa" e derivati è insieme sintomo e
acuzie, presenta molti elementi di interesse condivisibili e altri che andrebbero messi in discussione. Di recente Pietro Roversi ha detto la sua
sull'argomento (v. QUI), portando altri elementi che da una parte sostanziano il discorso di Castiglione, dall'altra ne evidenziano qualche limite, nel
senso che l'attenzione alle "cose" non può che essere l'inizio (e non il traguardo) di un discorso sullo "svuotamento", che a mio avviso coinvolge non solo
vocaboli ma anche appiattimenti stilistici, lirismo ricorsivo e topico, espropri del significato (a favore del significante), ecolalie, difesa di un
vocabolario canonico rassicurante e così via. Una riflessione che, al di là del saggio di Castiglione, non può non coinvolgere chiunque faccia scrittura poetica.
Spero di poterne dire di più. Nel frattempo pubblico qui un mio testo semiserio sull'argomento. Semiserio perchè ritengo importante non prendersi, almeno una volta ogni tanto, troppo seriamente, almeno come autori. I riferimenti, di vario livello, ivi contenuti non sono casuali.
so che non so, le cose: non so, amico mio, le cose, le cose le, insomma, cose qualcosa non so talvolta qualcuno le cose mi passi quel coso non sa qualcuno (qualcuna) può essere ma le cose, eh le cose... e la cosa? si sa che forse la cosa non è il nome che ha la cosa non sta o - se sta - sta pristina al verso e lo cosa il verso il verso cosato le cose le cose versate: i meli i meli i meli i risi i risi i risi i bisi i bisi i bisi... où sont alors les choses d'antan Heloise? ché se i nomi son di consequentia cose e i versi son di consequentia nomi allora i versi son di consequentia cose e vivono solo un giorno come le rooose.
Martedì, 8 aprile 2014Maalox 8 - Chi vince vince (Opera prima 2014)
(*) http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/significato-origine-perplimere Sabato, 7 dicembre 2013Maalox 7 - Pseudorilke
Pisa, 17 settembre 2013 Egregio amico, i tuoi testi mi sono arrivati qualche giorno fa, per posta
elettronica. Ti ringrazio per la fiducia, ma è tutto quel che posso
darti in cambio. Non posso addentrarmi nella natura dei tuoi versi,
poiché, come ebbi a dire spesso, di ciò di cui è sostanzialmente inutile
parlare è meglio tacere. Senza contare che le critiche sono a senso
unico come la strada davanti a casa mia, nel senso che tutto quello che
se ne ricava in cambio è un grazie o un imbronciato mugugno. Quel che
consola è che vivaddio non ci si incontrerà mai di persona nella vita, e
quindi, del silenzio che segue quasi sempre una recensione, si potrà
dare tranquillamente la colpa a Telecom. Ciò premesso, consentimi solo di dirti che i tuoi versi hanno per lo
meno il pregio di non avere una natura loro propria, né una loro
autonoma fisionomia. Il che è un bel vantaggio, rendendoli adattissimi
sia a comparire in qualche antologia di giovani (cosa autorizzata quasi
esclusivamente dalla tua età anagrafica), sia a conseguire un numero
cospicuo di targhe nei più disparati premi letterari. Lascerei perdere
tuttavia le poesie del tipo la tua “a Silvio”, che seppur sotto l’egida
di quel grande solitario del Leopardi non può andare bene (i premi, come forse
sai, sono quasi tutti in mano ai comunisti della Pro Loco). Mi domandi se trovo buoni i tuoi versi. E lo domandi a me?!? Prima
lo hai domandato ad altri. Li invii alle riviste. Li confronti con altre
poesie, e ti metti in agitazione e rompi le scatole se certe redazioni
rifiutano le tue prove. Riempi le bacheche di Facebook e ci metti pure
il copyright in fondo! E che palle! E datti una calmata! Non puoi mica
scassare l'anima a tutto il mondo con la scusa che la posta elettronica
non costa nulla! Comunque, poiché mi hai chiesto un consiglio, io ti
dico, in tutta sincerità: ma perché non fai un favore al mondo e la
pianti? Ma cos’è questa prescia di scrivere, te l’ha ordinato il
dottore? Non potresti scrivere qualche poesia d’amore e amen, quel tanto
che serve per farsi la romanticona di turno? Ma se proprio devi
scrivere, se non ce la fai a lasciare in pace la tastiera, allora fruga
dentro di te alla ricerca di una profonda risposta, fatti almeno un paio
di domande. Primo: se non scrivo crepo? Secondo: se vado a fare una
passeggiata nel parco mi viene una lirica oppure sto attento a non
pestare qualche merda di cane? Perché se la risposta alla prima domanda
è sì, se guardi le foglie d’autunno invece di vedere dove metti i
piedi, se mi vieni fuori con la famosa “urgenza” di scrivere che a me
ricorda tanto una sirena d’ambulanza, allora c’è poco da fare,
bisognerà farsene una ragione. Che dirti?, avvicinati alla natura,
cerca, come un novello Adamo, di dire ciò che vedi e vivi e ami e perdi,
descrivi tutto, soprattutto le "cose" (eh, senza le "cose" non si cosa,
non si fa poesia), se la natura ti fa schifo rivolgiti alla crisi
(altro bell'argomento), se no c'è il disagio urbano, le minoranze, la
polluzione notturna e quella atmosferica, il disordine alimentare, ah,
dimenticavo, il corpo, il corpo va fortissimo, specie dopo che l'anima
si è dimostrata poco competitiva. Insomma, se proprio devi, cercati un
target, anche di nicchia, inventati uno stile, fai qualcosa. Con due
raccomandazioni: a meno che non
sia in ballo la romanticona di cui sopra niente poesie d'amore, ci ho ripensato, perché quasi tutte le parole
buone sono già state prese, peggio dello Scarabeo; e niente sonetti, che
sono difficili e poi ci ha già pensato Massimo Sannelli. Che altro dirti? Mi pare di essere stato chiaro, ma in fondo volevo
solo consigliarti di seguire in silenzio la tua insana inclinazione
(ricorda che il silenzio è d'oro, specie per i tuoi afflitti lettori)
senza aspettare risposte da tutti. Che poi nella migliore delle
ipotesi ti mentono, anche quando ti cliccano "mi piace" su Facebook. Ti
mentono esattamente come tu fai con te stesso (dai, lo sai che è così)
quando ti dai del poeta. Non ti restituisco i tuoi versi che gentilmente mi hai voluto
confidare. Tanto sono sicuro che ne hai un bel po’ di copie, e poi è
inutile intasare la rete, in Italia non c’è banda abbastanza larga per
tutto ciò, manco la fibra ottica. Ma ti ringrazio ancora per la fiducia,
a cui ho cercato di dare una risposta sincera e in buona fede, non
tanto per rendermi degno di detta fiducia, quanto per dimostrarti che la
medesima, tutto sommato, non era ben riposta. Tuo caramente Giacomo Cerrai Sabato, 23 novembre 2013Maalox 6 - La poetica del semiasseQualche considerazione sparsa partendo da uno spunto. Ho scritto qualche tempo fa su FB: "La parola deve essere decisa". Ora, dei pochi che hanno commentato, nessuno ha colto un paio di cose essenziali. La prima riguarda il vocabolo "decisa", la sua intima ambiguità: decisa come aggettivo qualificativo?, o decisa come participio passato di una forma riflessiva? Tralasciando il fatto che la frase è nel primo caso assertiva e imperativa, nel secondo sibillina e sciamanica, l'altra cosa è che, con ogni evidenza, in entrambi i casi qualcuno deve pur... decidere, su questa parola: o riguardo al suo carattere (anche le parole ne hanno), o riguardo alla sua scelta o selezione. Comunque sia il problema è tutt'altro che marginale, specie in ambito artistico. Siamo nel campo del paradigma, per dirla con Jakobson (e prima di lui De Saussure), e cioè là dove chi comunica deve selezionare le sue brave parole. Dopodichè deve decidere (appunto) che farne. Deve scendere cioè sul terreno della combinazione delle parole medesime, per farne una frase (sintagma), un verso o quel che vi pare. Fin qui tutto regolare: in prima battuta si fa una scelta "sulla base dell’equivalenza, della similarità e della dissimilarità, della sinonimia e dell’antinomia" (Jakobson), poi si costruisce la frase sulla base della "contiguità", cioè della "accostabilità" delle parole, ad esempio in termini sintattici o di contesto o logici oppure, in ultima analisi e meglio ancora, di metonimia. Ma Jakobson aggiunge una cosa interessante, in relazione alla "funzione poetica" del linguaggio: che essa “proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione. L’equivalenza è promossa al grado di elemento costitutivo della sequenza”. D'accordo, ma che significa? Intanto, cos'è la funzione poetica? In parole povere si ha una funzione "poetica" del linguaggio quando l'attenzione, la cura, l'accento riposti nella selezione (delle parole) vengono spostati in maniera rilevante - rispetto al messaggio in sé, al cosa dire - sulla modalità di comunicazione, quando cioè "nella concreta esecuzione del linguaggio ‘poetico’ l’equivalenza, la similarità degli (tra gli) elementi (parole, sintagmi ecc.) prevalgono sulla loro contiguità e cioè sulle regole stesse della successione" (V. Coletti, voce "Lingua poetica", in "Treccani.it"). Quindi, in parole povere, la funzione poetica del linguaggio si prende la briga di ricombinare, di rompere o sostituire la norma, di scegliere ad esempio sulla base del suono invece che della logica, di deviare. Ovvero si prende la briga di come dire. E' ovvio che la poesia non sta tutta lì (è uno dei limiti delle tesi di Jakobson e dello strutturalismo in genere), c'è naturalmente dell'altro, e lo dimostra il fatto che la "funzione poetica" è lo strumento principe per l'invenzione di quegli slogan politici o pubblicitari, così poco poetici, che ci rompono l'anima tutti i giorni (del resto lo stesso Jakobson avverte che "ogni tentativo di ridurre la sfera della funzione poetica alla poesia, o di limitare la poesia alla funzione poetica sarebbe soltanto una ipersemplificazione ingannevole"). Ma alla fine e in estrema sintesi tutto questo discorso vuol dire che è il poeta a decidere non solo se una parola "equivale" a un'altra, ma anche se un costrutto, un suono, un azzardato accostamento semantico hanno diritto di cittadinanza nel testo, se sono equivalenti quanto e più di una struttura ordinaria. E' il poeta a decidere il suo personale linguaggio sregolato. Continua a leggere "Maalox 6 - La poetica del semiasse" Lunedì, 9 aprile 2012La buona poesia
Su Poesia 2.0 continuano gli interventi di vari autori sulla "buona poesia" (v. QUI). Ho pensato di scrivere anch'io due note, anche allo scopo di chiarire qualche punto a me stesso.
La buona poesia
L'altro giorno mi è arrivato in casella un comunicato stampa di una
lettura pubblica, uno dei tanti che ricevo. Il condizionamento che
scatta di solito in questi casi è quello che mi fa muovere il dito verso
il tasto CANC. Poi chissà per quale ragione ci ho
ripensato, ho letto la poesia che vi era contenuta, la breve nota
biografica dell'autrice che informava che la medesima era la vincitrice
del premio Taldeitali 2011. Che non è il Montale né il Montano ma
nemmeno quello della Associazione del Verso Sbilenco. Insomma non
proprio un premio scalcinato.
Ora, sappiamo benissimo che una rondine non fa primavera e nemmeno fa
inverno un'oca lombardella che vola verso sud. Ma quell'unica poesia lì
in cima al comunicato stampa era proprio brutta. Certo, poteva rimanere
il dubbio che il resto del corpus poetico della autrice fosse di
straordinario valore, ma il fatto che quel testo fosse stato scelto,
forse dalla stessa poetessa, per campeggiare nel volantino lo rendeva
emblematico, anzi esemplare. E, a sua insaputa, esemplare del fatto di
essere brutto. O se preferite cattivo.
Per me, intanto (e l'ho detto altre volte), una poesia è brutta quando
lascia il tempo che trova, come il libeccio. Quando si disperde in un
istante nel rumore di fondo dell'impoetico, o se vogliamo del "poetico"
indifferenziato (sì, come la spazzatura) fatto di slogan pubblicitari,
di jingles, di accostamenti consunti, di associazioni d'idee, di
semplice esibizione di sentimenti che sono tanto belli quanto (si spera)
già noti a tutti. Quando si perde di vista, tra i tanti, il rischio di
una lingua meramente denotativa, che diventa pura descrizione e tracima
nei versi con parole, simboli, metafore, strutture così tante volte
usate da essere diventate oggetti enumerabili. Di converso,
come avvertiva in una delle sue "scuole di poesia" Massimo Sannelli,
“stiamo attenti a non dilagare in immagini troppo personali; forse siamo
gli unici a considerarle belle, e per gli altri potrebbero essere
semplicemente enfatiche o incomprensibili”. E aggiungeva che è inutile
mettere cuore nella propria opera se poi il poeta non "prende distanza
dalla sua materia, e (...) più se ne distanzia più la fa sua e la rende
infuocata”.
Continua a leggere "La buona poesia" Martedì, 7 febbraio 2012Maalox 5 - Basta con la poesia bambocciona!Basta con questi poeti mammoni che vogliono fare poesia senza allontanarsi da casa!! "Noi italiani siamo fermi alla poesia fissa nella stessa città, di fianco a mamma e papà", dice giustamente la critica Cancellieri. Come darle torto? La poesia deve essere flessibile, bisogna abituarsi all'idea di cambiare poesia spesso, chi se lo può permettere vada a fare poesia all'estero!, come qualche tempo fa suggeriva acutamente il critico Celli. Era ora che qualcuno lo dicesse! Finalmente la critica militante e di rottura si sta risvegliando da un annoso torpore e punta il dito al vero nocciolo della questione, la "poesia bambocciona". Basta con questi poeti fannulloni che una volta trovato un verso, una "stanza" o una quartina anche part- time ci si adagiano sopra per tutta la vita! Essi sono incuranti di quel male oscuro che il critico Monti lucidamente diagnostica nella poesia fissa, e cioè la monotonia che, per quanto ci faccia rima, con la poesia non può andare d'accordo! Non solo: non è azzardato ipotizzare, in parziale discordanza con il critico Brunetta, che la monotonia della poesia fissa sia una delle cause del noto e diffuso "assenteismo poetico". Per quanto deprecabile, come non capire chi si dà malato per starsene a letto a leggere l'ultimo Fabio Volo o abbandona per una mezz'ora la poesia fissa pe annà a comprà un par de cicorie? Insomma i tempi cambiano, come ricorda la critica Fornero, non possiamo "prométtere" ai nostri giovani una poesia fissa, figuriamoci poi gli ormai obsoleti ammortizzatori poetici, come certi concorsi o quell'inutile Canto 18 che parla di ruffiani e adulatori, ormai del tutto scomparsi dal settore poetico. Insomma, è la crisi in cui versa il nostro PD (Poetic Debt, debito poetico) ad obbligarci ad affrontare la sfida della flessibilità. Chi ha studiato da poeta lirico non è detto che possa esercitarsi con nuvole e mal d'amore e foglie morte fino alla pensione, sai che palle! E del pari chi fa il poeta di ricerca non potrà continuare a fare il ricercatore a vita, per quanto precario. Dovrà cambiare, delocalizzarsi, ristrutturarsi, magari decostruirsi. In altre parole dovrà diventare competitivo, puntare sulla qualità. E' la globalizzazione, ragazzi, vi attende la sfida con i paesi in via di sviluppo poetico. Mercoledì, 9 novembre 2011Maalox 4 - A me mi frega l'educazioneC'è chi mi dice ma che roba leggi?, c'è chi mi dice ma non potresti
pubblicare più roba di questo tipo invece che di quest'altro? Parlo di
Imperfetta Ellisse, naturalmente. Ora, partendo dalla premessa che è un
blogghetto e che cosa gliene frega alla gente di cosa pubblico,
bisognerebbe intanto capire che spessissimo parlo di libri che mi
arrivano (gentilmente), che molti di questi scritti hanno un valore che
varia molto, che ecc. ecc.. E bisognerebbe cominciare a leggere un pò
meno superficialmente quello che scrivo. Che non è oro colato, altra
premessa, e non vuole fare opinione. E che a ben vedere non si occupa
nemmeno proprio del libro di cui sta parlando, ma di qualche spunto di
riflessione o problemuccio generale che potrebbe far comodo o essere
interessante. In altre parole (e tanto per fare un esempio): a me non
interessa se il/la poeta/essa X scrive con tutta la Treccani accanto, o
se appiccica le parole credendo di essere inglese, o se pensa che la sua
crisi sia emblematica di tutte le crisi, o che ami le foglie al vento
più di ogni altra cosa. No, a me interessa partire da lì per dire:
guardate che a mio modesto avviso se continuate a scrivere così (o di
queste cose) non andate da nessuna parte, o forse voi ci andate ma la
poesia no ecc. Non lo dico proprio così però, e questa è un'altra
questione. Perchè se si andasse a leggere con un pò meno di fretta
digitale, forse si coglierebbe qualcosa tra le righe. Già, tra le righe,
ed è lì che sbaglio. Perchè non mi piace dare bastonate a nessuno. Sono
un non violento della recensione, che confida nell'intelligenza degli
altri, nel suggerimento, per quel che può valere. Insomma, sforzatevi,
cercate di capire al volo. Cercate di capire che non si parla tanto di
voi quanto della poesia (con la p minuscola, certo) e di dove a mio
avviso la poesia (la vostra, la mia, quella di tanti epigoni di sé) va a
parare.
Continua a leggere "Maalox 4 - A me mi frega l'educazione" Martedì, 25 ottobre 2011Shoot the poet / Tirez au poète Tempo fa ho scritto su Facebook, per scherzo ma non tanto: "Ma lo posso dire che a me Alda Merini non è mai piaciuta?". Si è scatenata una piccola standing ovation virtuale, che mi ha inevitabilmente riportato alla mente quest'altra memorabile scena (novantadue minuti di applausi!!): Ora, non voglio dire che Alda Merini sia la corazzata Potemkin della situazione (e nemmeno io il Rag. Fantozzi), ma è certo che per molti poeti e poetastri essa rappresenta non tanto un'eredità quanto un "troppo", un episodio da archiviare, con tutto il rispetto per la vicenda umana. Archiviare il merinismo dovrebbe essere in teoria operazione più agevole e meno dannosa del supposto superamento, mai realmente realizzato, del montalismo (figuriamoci poi il Petrarca). Ma temo che ci saranno fiere resistenze, soprattutto da parte dell'ala emozional-sentimentale della poesia femminile contemporanea, oltre ovviamente dalla industria editoriale che ci specula da anni sopra. Neanche a farlo apposta sabato scorso su La Repubblica c'era un'intervista di Nello Ajello a Giorgio Bàrberi Squarotti, in occasione dell'uscita presso Manni Editore del suo ultimo libro di critica, "Le donne al potere". Tra le altre cose queste due battute: Oltre che critico di poesia, tu sei poeta in proprio. Ricordo il titolo d' un tuo saggio, a suo modo polemico, Addio alla poesia del cuore. Che cos' è questa "poesia del cuore"? E che cosa significa dirle addio?
«Quel mio lavoro riguardava la letteratura del Sette-Ottocento e mostrava i limiti di una poesia di marca patetica, che è di moda ancora oggi». Insomma, esprimevi antipatia o dileggio per chi scriveva versi con il cuore in mano. «Appunto. È sempre qualcosa di inferiore dal punto di vista espressivo. Non a caso Leopardi, che è il contrario di tutto questo- fa cioè una poesia filosofica, di contenuto, non sentimentale o emotiva- diceva: cuore mio taci, non parlare più». Vuoi citarmi un esempio di "poesia del cuore", in Italia, negli ultimi decenni? «Alda Merini. Il suo mi sembra il caso più tipico». Ecco qua, bello diretto. Va da sé che nessuno è del tutto esente da un certo patetismo, men che mai Bàrberi Squarotti, anche se a volte dà l'impressione di farlo apposta per prenderti astutamente per il naso ("Le tamerici fragili davanti / al mare di Pescara sotto il vento / strisciante, esili ancora le fogliette /rosate..."). Ma tant'è, il gioco è divertente, se proprio non vogliamo farne un esercizio critico. Care le mie merdacce, quale dei poeti vivi o morti vi ispira un moto fantozziano? Ditemelo. Dichiaro ufficialmente aperto il nostro solito dibattito, come direbbe il Professor Guidobaldo Maria Riccardelli. Shoot the poet! Sabato, 6 agosto 2011maalox 3- vomitatoio facebookLo so, mi farò dei nemici. Ma pensavo: aprire un gruppo su Facebook ha lo stesso valore sociale delle sputacchiere nei saloon del Far West. Uno apre una pagina, un gruppo, un profilo, esattamente come fanno alcune altre migliaia di persone e in meno di un minuto le stesse migliaia di persone cominciano a vomitarci dentro i loro affanni, i loro pensieri per lo più marginali, i loro mal di pancia o la notizia che il loro gatto finalmente ha vomitato (a sua volta?) una palla di pelo. Che c'è di sociale in questo, se non la condivisione di un fallimento, quello dell'incapacità di usare uno strumento (seppure nei limiti che ti impongono i capitalisti possessori del mezzo) per fini che siano meno che futili (a meno che ovviamente non si debba organizzare una rivoluzione in un paese di merda tipo....l'Italia?)? Finchè il giochetto è puro entertainement e avete tempo da perdere, la cosa può anche andare, insieme a tutte le altre menate delle foto, dei giochini, delle applicazioni, dei baci, dei mazzi di fiori, degli auguri, delle torte virtuali e compagnia cantante. Ma per favore, non mi venite fuori con la storia dell'interesse comune, della comunità, specialmente se si tratta della poesia. Che c'entra la poesia con tutto questo? Che tipo di conforto (esatto, conforto) cerchiamo con il pubblicare la nostra poesiola in uno spazio aperto che attraversiamo con la velocità di chi ha fretta di trovare il gabinetto? Il saluto degli astanti? Il "mi piace" che per comodità (un click contro otto caratteri spazio compreso, vuoi mettere) è stato trasformato in un bottone? Le cento porte aperte in cui entri, depositi il tuo frutto, per poi passare la giornata a spulciare le settecento notifiche "anche X ha commentato..." alla ricerca di qualcuno che parli bene di te? Che poi ti tocca rigraziare Sara, Mara, Clara e anche Manrico, Enrico e Lodovico? Vogliamo renderci conto che tutto, in questo ambiente, è stato depotenziato, per diverse ragioni? In parte semplicemente perchè "non c'è tempo per". Non c'è tempo per leggere tutto, ovviamente, ma non c'è tempo nemmeno per scrivere qualche parola a giustificazione di quel "mi piace" (ma è interessante notare l'assenza di un bottone che dice "non mi piace", a suo modo un'altra bella comodità), non c'è tempo per pensare, per farsi venire un'idea, per esempio su come usare Facebook come un'installazione artistica o in modo un po' debordiano, situazionista, più dirompente. L'altra ragione di depotenziamento è che su Facebook non c'è spazio che non sia frantumato, parcellizzato, ridotto alle dimensioni di un cracker in bocca a un criceto. Mettere insieme un mosaico attendibile è impossibile, se non forse costringendo gli amici a convergere sul tuo "prodotto" taggandoli spietatamente. Purtroppo gli altri fanno altrettanto, e siamo da capo. Facebook è depotenziato semplicemente perchè è distraente, non c'è nessuno strumento che sia davvero condivisibile. E come insieme di individualismi, paradossalmente si adatta alla perfezione alla "poesia" (sì, mettiamola per un momento tra virgolette). Del resto Facebook è una rappresentazione reticolare della poesia così come la intendono troppe persone. E cioè un qualcosa che viene dal profondo, sale sale sale spinto da una certa "urgenza" (quante volte l'avete sentita questa parola?) finchè finalmente esce alla luce, viene partorito (se lo si guarda benevolmente) o viene vomitato (se lo si guarda, nella gran parte dei casi, realisticamente). Estroflettendo il "prodotto" si spera sempre che a contatto con l'aria subisca un processo chimico che lo migliora, come avviene con il vino. Ognuno ha diritto di sperare quel che vuole, certo. Inoltre Facebook non solo è democratico, è anche gratis, non tanto perchè non costa niente in soldi ma perchè non costa niente in fatica, al contrario ad esempio di un blog. Non costa niente iscriversi ad un gruppo e scaricare in bacheca il proprio parto acriticamente, senza ripensamenti perchè Facebook è veloce e non c'è tempo di farsi venire qualche dubbio autocritico. Si sposta la responsabilità sugli "amici", ma gli amici come abbiamo visto non hanno tempo nemmeno per essere sinceri perchè bisognerebbe superare il doppio scoglio del pensiero e dell'onestà intellettuale, e quindi non c'è riscontro vero, non c'è discernimento. E siamo da capo.
Intendiamoci, non ho niente di personale contro questa poesia
"liquida", che deborda e come l'acqua occupa tutti gli interstizi e gli
spazi che trova, tutti gli anfratti che non siano minimamente moderati.
Se non fosse che Facebook ha fatto da accelerante di una entropia che
era già presente in internet, aumentando in maniera esponenziale la
velocità degli "interventi" e diminuendo in modo direttamente
proporzionale il tempo di permanenza sulla "notizia". Siamo tutti
diventati campioni della lettura veloce, quando va bene. Ci siamo sempre
lamentati che ci sono troppi scrittori e quasi nessun lettore, di
poesia in particolare. Ma se c'è qualcosa che farà fuori definitivamente
la lettura infilandola giù per il nostro bel vomitatoio, state sicuri
che quello è Facebook (e il suo fratellino, ancora più subatomico,
Twitter). Non si tratta nemmeno più di quel sovraccarico informativo,
quel "information overload" di cui ho parlato in altre occasioni.
Quello, se lo conosci lo eviti. Qui si tratta di assuefazione (quasi in
senso farmacologico) e temo che sia assuefazione al fast food poetico,
al frammento che specie nei gruppi aperti altre decine di frammenti
spingono inesorabilmente fuori scena nel giro (provare per credere) di
qualche minuto. Almeno in un blog se non leggi un post oggi te lo puoi
leggere domani. Te lo puoi addirittura rileggere!!. Siamo alla junk poetry. Siamo - temo - all'assuefazione al brutto. Va bene, basta non diventarne dipendenti. Sabato, 28 maggio 2011appunti sparsi - il presente di uno
La poesia, come l'arte in genere, dovrebbe aiutare a leggere il nostro presente o, meglio ancora, il futuro. Quindi: leggere un libro di poesia ormai ha un senso solo se riesce a darti un'idea di quello che sta succedendo (o magari sta per succedere). Insomma non il presente (o il futuro) di uno.
Quello che caratterizza molta poesia contemporanea è però uno sguardo concentrato su un altro presente, un eterno presente registrato però attraverso modalità tecnico-stilistiche, retoriche, espressive che contemporaneamente guardano al passato, a una tradizione non rimeditata, non abbastanza edipicamente "uccisa" per potersene poi impossessare. Uno sguardo sostanzialmente all’indietro.
Anche le forme del verbo sono una spia di questo approccio. Il tempo presente, tempo della cristallizazione del momento, è tanto più pesante in quanto fissato nella forma definitiva di un testo e in tal modo consegnato per sempre alla storia, per quanto letteraria, storia minuscola, futile e irrilevante, di uno. Ecco, appunto, un presente storico, come lo si intende comunemente, cioè narrativo o addirittura fiabesco, in senso quasi proppiano.
Oppure, ma solo come variante, un presente fenomenico o epifenomenico, in cui l'osservazione del poeta non si innalza a correlativo oggettivo (che andrebbe già bene), ma si ferma su fatti minimali, che ben che vada avviano una riflessione sulla frammentazione della realtà (spostando quindi l'oggetto di osservazione poetica), ma che hanno spesso un tempo di decadimento velocissimo, funzionando da fugace momento di interesse. Se poi a questa cristallizzazione si associa un io lirico accentuato e centrato, che cioè si pone narrativamente come unico mediatore e protagonista delle esperienze, allora il risultato nella maggior parte dei casi non può che essere deludente, notorio, irrilevante.
In questo contesto diventa irrilevante anche l'eventualità dell'invenzione, della bella immagine, dello scarto poetico. Resta appunto un "evento", una
intrusione in una massa poetica, con lo stesso effetto momentaneo che dicevamo prima. Il corpo testuale, cioè, nel suo complesso non riesce a rendere
un'idea, un disegno concettuale, denunciando il carattere rapsodico e occasionale dell'insieme. Il tempo si ferma, il tempo presente di uno, il poeta a una dimensione. (continua, forse)
Lunedì, 16 maggio 2011Maalox 2: in margine a una lettura a Pisa15/5/2011 in margine a una lettura a Pisa (Inglese, Matteoni, Mazziotta, Montieri, Simonelli). Suggestione di fondo: l'immaginazione batte la realtà non ostante l'inferiorità numerica. Vince insomma la suprema finzione, e mi piace ricordare che sono tutti concetti
di quella figura mitologica, mezzo assicuratore e mezzo poeta, che fu
Wallace Stevens. In altre parole la poesia che passa, o in questa
lettura è passata per me, non è tanto quella che descrive o ricorda o
rimpiange, sia pure nei modi di volta in volta istrionici o teatrali o
lirici o comici o surreali o linguisticamente "nuovi" , una realtà o una
storia; non è tanto quella che descrive una "prossimità" (concetto - introdotto da Inglese - che certo vuole significare molto di più, più intensamente, e credo di averlo capito) con le cose o la storia, anche personale. Ma è quella che la reinventa, o la inventa di sana pianta,
inventa un ricordo che non esiste o una delle infinite infanzie mai
vissute o una storia o una cosa che avrebbe potuto esistere (cosa, non oggetto, direbbe Remo Bodei), che non registra una piccola epifania ma è una epifania, meglio ancora una agnizione,
un riconoscimento di un territorio (la geografia non c'entra), un
rovesciamento della prospettiva. Sì. lo so, non è facile da capire,
bisognerebbe fare qualche esempio. Ma non lo farò, tanto si è capito chi
mi è piaciuto di più.
Venerdì, 18 febbraio 2011Teresa Ferri - Eufemismi e brutte parole
Premetto che non amo le cosiddette “brutte parole”, né è nel mio costume far uso di esse. Appartengo a una generazione educata al culto della bella lingua, ma non posso non tornare con la memoria, e con una certa nostalgia non passatista al ’68, quando, gli eventi, le cose, i comportamenti venivano chiamati con il loro nome. Contemporaneamente, i miei interessi, gli studi, l’attività critico-letteraria, la professione mi hanno portato a dedicarmi anche alla retorica, alle sue figure e all’argomentazione, per cui mi ritengo in un certo senso fortunatamente ‘deformata’ e particolarmente attenta all’uso della lingua. Ho dedicato una vita all’interpretazione e all’analisi dei testi letterari, sezionandoli con acribia per dare una voce il più possibilmente fedele alle esigenze e alle intenzioni della scrittura di poeti e scrittori, per cui sono avvezza a dare spazio a una sensibilità linguistica e lessicale che mi conduce a spogliare le parole delle loro incrostazioni, più o meno edulcorate, e così leggere nel loro uso finalità argomentative e ideologiche (ma non so se sia il caso oggi di continuare a parlare di ideologia). Premesso tutto questo non a fini narcisistici e autobiografici, ma solo per motivare l’origine di queste mie rapide riflessioni, voglio soffermarmi sia pure superficialmente e senza alcuna acribia filologica, sull’utilizzo della lingua in questi nostri giorni, infestati da un fioccare di notizie che coinvolgono i campi della politica, dell’etica e di un civile vivere democratico. Il mio interesse di letterata e non di politologa va soprattutto alla lingua dei mezzi d’informazione e dei politici, poiché è da essi che veniamo letteralmente bombardati e tracimati quotidianamente. Strattonata dal mio orizzonte di studi dai media, che riversano nelle nostre orecchie e nei nostri occhi spesso poco avvertiti, una marea di informazioni e parole, mi sono resa conto che molto frequentemente si usa il lessico con eccessiva disinvoltura, una superficialità che, a mio avviso, è strategicamente rivolta a confondere e ad ambiguare i messaggi per una serie di motivi che non possono non allarmarmi.
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