Lunedì, 24 settembre 2018
Laura Garavaglia - Correnti ascensionali – CFR,
2013, con immagini di Daniela Gatti

Mi capita spesso di leggere libri d’artista in cui dipinti e fotografie
vengono associati, a volte, in maniera tematica, alla poesia: alcuni
progetti sono originali e ben costruiti, altri meno, ma ne apprezzo sempre
il connubio, la fusione, la potenza del linguaggio poetico comune a tutte
le espressioni artistiche. Correnti ascensionali di Laura
Garavaglia, CFR 2013 è molto più di un libro d’Arte. È uno scrigno di
gioielli: poesie in lingua italiana con traduzione in inglese di Barbara
Ferri, in romeno e spagnolo di Mario Castro Navarrete, e fotografie di
porcellane (medaglioni, vasi, centrotavola) di Daniela Gatti. Le
combinazioni sono eleganti e illuminanti. È sacro il dire e il fare delle Correnti, infatti, il percorso razionale, visionario e intimo
trasforma i particolari in affascinanti contemplazioni del tutto. Così le pagine non interloquiscono solamente con le
immagini, ma, soprattutto, con il controcanto di altre lingue per
declinare, solennemente e miracolosamente, l’appartenenza alla stessa
natura. Il lettore è accompagnato dal senso di realtà presente e da aspetti
folgoranti del passato nella bellezza di metriche e colori in cui la
fascinazione emozionale indica direzione e partecipazione. (rita pacilio)
Continua a leggere "Laura Garavaglia - Correnti ascensionali, nota di Rita Pacilio"
Sabato, 4 aprile 2015
AA.VV. - La disarmata - CFR Edizioni,2014
Un libro divertente, e mica è poco. Be', non soltanto questo,
naturalmente. Una collettanea uscita da un incontro tra amici, tutti
uniti dall'esser nati a Napoli, "pur se in maggioranza migranti", e di
avere un comune amor critico verso questa città. Viola
Amarelli, Francesco Filia, Vincenzo Frungillo, Immo (non chiedetemi chi
è, non ne ho la minima idea) e Gianni Montieri si sono divisi il compito di mettere in
versi una specie di attraversamento, non solo topografico, della città,
partendo ovviamente da loro "sentimento" o ri-sentimento nei suoi
confronti. Un attraversa,mento, o un ghirigoro, che secondo Flaiano è
in Italia (figuriamoci poi a Napoli) la linea più breve tra due punti,
un giro tra pubblico e privato, tra presente e passato, tra possibile e
improbabile, tra sociale e politico ma senza ridondanze, un piccolo,
personale sguardo, ma senza voyeurismi, sul corpaccio cittadino.
Non aspettatevi una "guida" di Napoli. Anzi, ci sono elementi
sufficienti per perdersi, eventualmente, come si conviene in poesia. E
non aspettatevi nemmeno la camorra, o Scampia, o cose del genere, e
anche di munnezza ce n'è poca. L'approccio è ovviamente soggettivo,
potremmo dire intellettuale o, proprio a fare i difficili, borghese, ma
senza dubbio anche emotivo nei confronti di questa città "disarmata"
(una speranza?, una constatazione di impotenza? uno smantellamento?) e
complicata. Complicata talvolta anche per il fatto che ci si aspetti a
torto la "narrazione" napoletana, che vi si cerchi sempre una
napoletanità, una eccezionalità. E invece gli autori sono stati bravi a
darne uno sguardo per così dire laterale, anche ironico, anche onirico,
anche metalinguistico (una città può essere un linguaggio, magari più
della sua lingua?). Certo poche città come Napoli si prestano a farne
una metafora, anzi una allegoria, mica si può fare un libro così su
tutte le città, non certo su Firenze, figuriamoci su Pisa, magari forse
su Roma, che ormai però non ha più una identità se non quella della
corruzione politica e urbana. E come c'è qualcosa di attrattivo, anche
nel ricordo, per qualunque forestiero che abbia sostato almeno un po' a
San Gregorio Armeno o sul Decumano inferiore, certamente c'è qualcosa di
ombelicale tra un napoletano, anche se migrante, e Napoli, qualcosa di
cocciutamente persistente in quello che ho chiamato amor critico,
resistente oserei dire a qualsiasi mutazione antropologica.
Poi naturalmente in questo quadro ognuno ci mette del suo, con i suoi mezzi: Viola Amarelli
nella sua sezione "rettoriche" usa il linguaggio come una installazione
in una via della città, quasi un corpo estraneo da cui la realtà, le incrostazioni di materiali vengono
estrusi e ricollocati, reimpostati nel suo stile attraverso il valore
sibillino e insieme accusatorio dei nomi, degli aggettivi che denotano
all'infinito (ipoteticamente possibile) gli attributi del luogo e le sue
rogne; Gianni Montieri immagina, in "turisti americani", il probabile (perché
no?), un piccolo Grand Tour di cui Partenope dovrebbe essere tappa
obbligata, e letteraria più che turistica, dei "suoi" autori (Roth,
McCarthy, Carver, DeLillo, Bolaño ecc.) collocandoli in posti
strategici della città, in punti rossi su una mappa ideale (you are here ►), ma come una location,
un esterno giorno dello sguardo e del pensiero dell'autore come se
fosse interpretato suggestivamente da altri, con un'aria un po' così, un
po' di come se, un po' straniera, o viceversa immaginando "il pensiero
quotidiano dei presenti viaggiatori, leggermente sorpresi, ma attenti"
(Elio Grasso, nella postfazione); anche Francesco Filia,
nella sezione "stradario", sceglie l'incrocio di vie, i luoghi, una
toponomastica però in questo caso del tutto personale, legata ai
ricordi, alle sensazioni, alle esperienze, uno scenario anche teatrale
popolato di gente, di affinità e differenze anche sociali, di "strati"
di cose e persone, di storie però per così dire "ripetibili", non del
tutto relegate al passato, non del tutto fissate nel presente, che
appaiono essere non meno organiche a questa città delle sue strade
ortogonali; la geografia "vissuta", ma da una prospettiva differente, è
anche la scelta di Vincenzo Frungillo, nella sezione
"zona est" ("storico insediamento di un proletariato industriale
spazzato via dalle logiche postmoderne", nota degli autori),
essenzialmente un luogo quasi senza nomi, uno spazio fisico e mentale in
cui la storia "assurge a testamento personale e popolare, contiene la
mai programmata transizione fisica della poesia" (ancora Grasso), ma col
peso del dolore patito direttamente, sia esso della morte di qualcuno
amato, della "dismissione", o dello sfregio ambientale di quel medesimo luogo che grava sulla
morte stessa, che inquina le acque e gli animi ma che non impedisce
tuttavia quella traduzione in versi a cui allude Grasso; mentre il
registro di Immo si distanzia sensibilmente
dagli altri, nella sezione "ci stanno un napoletano un napoletano e un
napoletano, ovvero: 8 poesie ma 9 pagine (come higuain) sul significante
NAPOL", pur non interrompendo "la corrente tra poeti della stessa
foggia" (sempre Grasso): non la interrompe infatti, semmai raccoglie
certi materiali decantati dagli altri e li "curva nell'invettiva pop e
amarissima" (da una nota degli autori), magari ci cazzeggia un po', li
rappa, li performa, li mette in "musica" (e non ci scordiamo che piazza
musicale è Napoli, da sempre), proletarizza il tono, ma li mantiene in
tensione, recupera delle maschere, compresa quella del folle
Scardanelli, l'eteronimo con cui Holderlin tentò di prendere le distanze
da sé stesso e dal suo passato. Ma in fondo non ci sono distanze da
prendere. Per tutti Napoli, anche quando non nominata, è insieme reale e
sfuggente, ma sostanzialmente, per quanto possa sembrare
contraddittorio, qualcosa di rassicurante, che bene o male c'è, con una
sua perdurante presenza nell'anima, per tutti orgogliosamente un ubi consistam, un fondamento. (g.c.)
Continua a leggere "AA.VV - La disarmata"
Mercoledì, 4 febbraio 2015
Enrico Barbieri - Il tremore della terra - CFR Edizioni, 2014 
Trovo difficoltà a inquadrare questo libro di Enrico Barbieri, fatto di
una poesia che definirei di superficie, che sembra sfiorare le cose,
ritraendosene poi velocemente. Una poesia generata dai più diversi
spunti, da un "qualcosa" (v. oltre) che l'autore coglie di volta in
volta e intorno al quale cerca di aggregare la sua scrittura: la vita
nella sua genericità, una stagione, un piccolo fenomeno osservato,
uccelli, un fiume, l'amore, una natura in cui non sempre ci si
rispecchia. Una poesia lirica in cui tuttavia l'io appare un po'
sovrapposto, che mi pare non sia né decisamente centrale né cautamente
appartato, non sia riferito a una tradizione consolidata senza essere -
d'altra parte - effettivamente post-moderno (aggettivo che usa Pasquale
Vitagliano nella sua prefazione). Un libro che non è scritto male, ma
che mi lascia nella lettura una impressione di indecisione, di
irresolutezza, quasi di timore di percuotere la materia per strapparle,
più che un suono, una voce, un movimento. Tanto che di fatto sono pochi i
testi che ho deciso di estrapolare per pubblicarli qui (v. oltre),
quasi tutti tra l'altro provenienti da un'unica sezione delle quattro
presenti, intitolata "Sequenze", che mi pare la migliore per concretezza
e resa poetica e per una sua capacità narrativa. Del resto l'universo
poetico di Barbieri mi sembra costituito di schegge, più che di detriti
baudelairiani, e quindi ha una natura rapsodica, frammentaria. E
tuttavia non si tratta di mettere in dubbio le "cose" che Barbieri vuole
dire, o la loro "verità", assoluta o personale, e perciò non si tratta
minimamente di mettere in discussione la sua "ispirazione" (e bisognerà
prima o poi trovare un'altra parola). Però credo che questa silloge
rientri nel novero dei libri che avrebbero bisogno di una seria opera di
editing in grado di valorizzare quel che di buono si intravede (e ce
n'è), soprattutto nelle ragioni che hanno mosso l'autore a scrivere (e
ce ne sono). Un'opera di editing che nessun editore, piccolo o grande
che sia, è in grado o ha la voglia di fare, qui da noi, dove siamo
ridotti al livello di stamperia.
Certo potrei provare ad appoggiarmi alla prefazione di Pasquale
Vitagliano che è, lo dico subito, abbastanza benevola, ma che dice un
paio di cose assolutamente vere o che assumiamo per vere. La prima è che
"i suoi versi [dell'autore] nascono orali e dopo vengono fissati nelle
forme scritte della poesia". Se questo è vero allora credo che si
ripresenti il problema a cui ho accennato altre volte: che la stesura su
carta di qualcosa che è nato per essere rappresentato o recitato su un
palcoscenico talvolta porta alla luce una stramatura del tessuto che il
suono della voce può solo tentare di coprire. che imbelletta. Se così è,
io credo - ma è naturalmente una mia opinione - che sia necessario per
Barbieri (ma anche per tutti quelli che fanno poesia orale) fare i conti
con la sostanziale diversità tra due forme e mezzi di comunicazione.
Mettere certi testi su carta è una specie di prova del nove che dovrebbe
suggerire di impegnare (e impregnare) diversamente il linguaggio,
metterlo di più in tensione, puntare di più sul suo potenziale
connotativo e polisemico piuttosto che sul suo "suono" evocativo. In
realtà io non credo, a differenza di quanto scrive Vitagliano, che in
questa poesia "l'architettura finale del verso [sia] la scena" a
beneficio dello "stupore del lettore-spettatore, il quale legge e allo
stesso tempo guarda e ascolta". Non credo che funzioni esattamente così,
se non altro per il banalissimo fatto che il lettore, a differenza
dello spettatore, ha un potere reale e attivo sul testo, di
rileggerselo, di interpretarlo come vuole secondo le proprie inferenze.
D'altra parte, premette Vitagliano, "non c’è oggetto, né soggetto che
ingombri la scena". Tranne forse i versi che il lettore, comunque, è
chiamato ad interpretare, tanto più allora se la scena, davvero, è
spopolata.
Se quindi, ripeto, è possibile rinvenire in singoli testi di Barbieri
segni di una capacità di poetare, soprattutto quando - invece - soggetti
e oggetti appaiono sulla scena, sono d'accordo col prefatore quando
scrive che "il cammino di “reductio ad unicum” intrapreso da Barbieri è
stilisticamente agli inizi. Ci sono parti ancora disomogenee che
richiedono uno scavo più coraggioso, per poter giungere ad un approdo
poeticamente maturo". E per quanto sia giusto riconoscere a Barbieri una
sua etica della poesia, una sua "onestà", mi pare arduo dire che questo
valore, di per sé e da solo, possa produrre una poesia "già completa,
compatta e solida come una noce, perfettamente centrata tra spazio e
tempo, in equilibrio stabile tra memoria privata e collettiva, realtà e
metafisica, natura e libertà". Ma non resta che lasciar fare al tempo e a
Barbieri, naturalmente. (g.c.)
Continua a leggere "Enrico Barbieri - Il tremore della terra"
Martedì, 30 dicembre 2014
Marina Pizzi - Segnacoli di mendicità - CFR Edizioni, 2014
Leggo con molta simpatia la prefazione che a questo libro ha fatto Gianmario Lucini, recentemente scomparso. Ho sottolineato alcuni
passaggi, dei quali due o tre combaciano con cose che ho scritto in passato riguardo al lavoro di Marina, altri mi trovano in disaccordo. Ma a parte questo
la prima cosa che mi sento di rimarcare è la aperta disposizione a capire e a condividere, a interpretare e ad accogliere che Lucini aveva nei confronti di
tutta la poesia, anche quella che con ogni evidenza è lontanissima dalle sue corde, di chi - annota - "è abituato a leggere (e a scrivere, come il
sottoscritto) la poesia in modo diverso, più vicino alla tradizione". Una cosa che va tutta a suo onore.
L'approccio di Lucini potrebbe apparire disarmato, di fronte alle asperità che presenta il lavoro (questo e tutti i precedenti) di Marina. Tanto che in più
punti sembra invitare il lettore a non voler "capire", a non tentare di afferrare il "senso" delle parole dell'autrice. Tuttavia relativizza, giustamente,
il problema del "senso" ed è lettore troppo acuto per arrendersi, individuando alcuni punti essenziali. Vediamoli.
Mi pare indubbio, come Lucini nota per prima cosa, che Pizzi segua una sua maniera di versificare tutto sommato tradizionale, quasi un verso libero in cui
non è infrequente trovare dei perfetti endecasillabi o assonanze o perlomeno una quantità enorme di parole parossitone che degli endecasillabi sono il
fulcro, la cui finalità però non è tanto quella di stabilire un ritmo o una piacevolezza quanto quella di creare un "ordito di suoni, un contrappunto sul
quale innestare il materiale linguistico", secondo le parole di Lucini, che aggiunge che se così non fosse quello del poeta "potrebbe essere scambiato per
un linguaggio schizofrenico" (e c'è molto di assolutorio, della buona disposizione di Lucini, in questa affermazione). L'obbiettivo quindi sarebbe quello
di creare un "ambiente sonoro", una specie di camera acustica in cui il lettore riceve le suggestioni dell'autore, appunto soprattutto sonore, come
principale "significato" dei suoi versi. Tuttavia questo ci porta ad una certa passività di chi legge o almeno a quanto Lucini sottolinea più
avanti.
Del secondo punto che annota Lucini, cioè che la lingua di Pizzi appaia progettata, non sono del tutto convinto, non credo insomma che, per quanto
Marina operi una sua evidente selezione delle parole come tutti, ci sia in lei una strategia, un artificio, a parte la scelta frequente, come
accennavo prima, di parole piane. Per la verità quando parla di progettazione Lucini si riferisce appunto alla ricerca di musicalità, ma anche delle
potenzialità associative, di calembour, di gioco di certi accostamenti anche quando "cozzano" producendo, aggiungo, come un attrito sconcertante. Il fatto
è, a mio avviso, che, come ho detto altrove, l'approccio di Pizzi alla lingua, la "sua" lingua, non è solo ludico-strumentale (e di ludico c'è poco
davvero), ma è fortemente emotivo, al di là delle apparenze, tanto che - scrivevo - è in questa funzione emotiva che Marina "rinviene (e, certo, anche
seleziona, lima, ecc.) le sue parole, i suoi personali nessi metaforici, scardina il rapporto naturale tra parole e cose, mette in crisi la
relazione dei segni, recupera quella dei suoni" (un testo esemplare può essere ad es. il 64, vedi più oltre). E certamente - altra cosa che annota Lucini -
è importante qui il ruolo dell'inconscio "generatore di simboli" che l'autrice sfrutta per ridurre il ruolo della coscienza quale "censore" che tende a far
passare solo il prodotto della "riflessione". Ruolo che non deve essere sottovalutato, certo come fonte, ma che entra in qualche contraddizione con quel
tanto di progettazione di cui si diceva prima. Potremmo dire allora, in sintesi, che in Pizzi il controllo non è assoluto, né può esserlo, e che i
testi migliori vengono illuminati, anche di senso, dall'equlibrio di questi due elementi principali. E credo che proprio il raggiungimento di questo
equilibrio sia la vera faticosa ricerca di senso di Pizzi ("leggiucchio le voragini del senso / l'arbitrio di commettere adulterio / con le frattaglie del
non senso", brano 33), del suo tentativo di leggere la sua realtà.
Da queste caratteristiche, dall'accostamento insolito di significato, dall'ambiente sonoro generato da questa poesia, secondo Lucini deriva una ristrutturazione del ruolo del lettore "il quale non è più colui che deve capire il messaggio, ma colui che deve creare un senso
lasciandosi trasportare dalle suggestioni", ruolo in cui diventa fondamentale l' "ambiente sonoro" e la "musica" che lo stesso Lucini aveva già
sottolineato. In altre parole il lettore deve "lasciarsi sedurre dal senso che quelle espressioni provocano in lui", non ha altra possibilità, è anzi
"inutile soffermarsi (a nostro avviso) cercando il pensiero dell'autrice che, ne siamo convinti, fa di tutto per non seminare significati certi e
definitivi nei suoi lavori". Con questo giudizio abbastanza netto ecco che si torna al concetto di passività del lettore accennato qualche
paragrafo fa, Giudizio che non è contestabile in sé, ma che implica almeno un paio di osservazioni. La prima è che la lettura appare insieme passiva (la
seduzione) e soggettiva (il senso provocato in lui, magari diverso da quello provocato in altri), cosa che peraltro corrisponde molto a
una delle possibili funzioni evocative della poesia. L'altra e conseguente è che il lavoro del poeta, dell'autore, diventa improvvisamente aleatorio, cosa che non nego abbia il suo fascino ma che espone l'autore ad un arbitrio al di là delle sue intenzioni creative, di quel che voleva
dire. In altre parole, per dirla con U. Eco, se il lettore ha l'iniziativa interpretativa il testo vuole essere interpretato con un margine sufficiente di
univocità, ovvero appunto non arbitrariamente. Per parte mia in passato avevo scritto che "la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore,
la sua scrittura e' ego-centrata e in quanto tale e' pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilita') cosi' come lo vede l'autrice" e che "da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore,
una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E' una specie di viaggio
esoterico, di riconquista di codici". Personalmente sono ancora convinto di questo, del fatto che la seduzione, che comunque c'è, non basti, che lo sforzo
riguardi soprattutto il riconoscimento del profondo sistema metaforico della poesia di Marina, riconoscimento in cui certo l'esperienza personale del
lettore, la sua "soggettiva" ha un'importanza fondamentale (ma invito a leggere quelle mie note). E' comprensibile in
ultima analisi, e in parte fondato, che Lucini da una parte, come si è visto, inviti a non ricercare a tutti i costi il "pensiero" dell'autrice e
dall'altra, più avanti, affermi che forse quel "pensiero" non esiste: "non esiste, quindi, un definibile e/o oggettivabile pensiero poetico
dell'autrice, anche se, a lettura ultimata, risulta chiaro anche se non esplicitabile, che l'autrice segue un suo pensiero, una sua teoresi". Un pensiero
che, seppur marcando uno iato tra pensiero stesso ed espressione, "si può intuire da molte spie, una delle quali potrebbe essere ad esempio la frequenza di
determinate parole nei testi". E' questa la giusta e centrata intuizione di Lucini, su cui sono davvero d'accordo, e cioè che, facendo un passo ulteriore,
si possa ricostruire ciò che altrove ho chiamato il sistema mefatorico di Pizzi, ovvero il vero senso della sua scrittura. E' questo il
lavoro da fare.
Qualche altra osservazione, per chiudere. Avevo già segnalato in una delle note precedenti su Marina una sua certa "maniera", qualcosa di più di uno stile
consolidato. E cioè la scoperta, anzi la costruzione, di un meccanismo poetico funzionante e collaudato. Anche Lucini nota qualcosa in questo senso quando
parla di via percorribile, parla del libro come di "una proposta che regge, è di buona qualità ed è aperta (corsivo mio), alla portata di tutti,
passibile di ibridazioni e di innesti, soprattutto con la musica". Le parole di Lucini prefigurano una specie di format accessibile da un lettore
che decida di farsi poeta. E in effetti si potrebbe avere l'idea, brutale e del tutto ingiustificata, della sostituibilità all'interno dei testi di Pizzi
di elementi lessicali o parti strutturali che li compongono. Un modello formale che però, come tutte le forme, è una scatola vuota che andrebbe riempita
con il talento dell'autore. E tuttavia la modalità è potenzialmente inesauribile. In questo senso si pone in contraddizione col concetto stesso di
"ricerca", almeno di ricerca di forma. E in questo senso va anche interpretata sia la prolificità di Marina sia la sua pressoché costante caratteristica di
numerare i testi in lunghe filze (99 in questo caso, oltre 100 in diverse altre occasioni). Tanto che a volte ci si domanda se Marina non sia (e non
sarebbe la sola) l'autrice di un solo Libro suddiviso in tomi arbitrariamente e che i testi stessi, che appaiono finiti, siano davvero "finiti".
Eppure, al di là dell'eventuale automanierismo, mi pare che in molti testi, tra cui quelli della mia selezione, il registro di Pizzi, la sua capacità
evocativa ed espressiva si sia ulteriormente affinata, forse anche grazie ad un lieve ma percettibile riavvicinamento ad una significatività. Ad
esempio dove il dato è più "concreto" la poesia è più "leggibile", intendendo entrambi gli aggettivi in senso lato (si veda a titolo esemplificativo il
brano 28). Analogamente, per fare un diverso esempio, l'uso del "tu" assume un'importanza sostanziale, da personaggio. Il tu, se dovessimo disegnarlo o
esprimerlo con il linguaggio dei segni, sarebbe un dito puntato. Contro chi? Quello di Marina è un tu bifronte, come un giano, un tu in cui è possibile
riconoscere abbastanza agevolmente quello che mimetizza l'io dell'autrice e quello "titolato", dell' "altro", di chi sta (o stava) di fronte. Entrambi
colpevoli, in qualche misura, e perciò oggetto dell'invettiva linguistica, del frangersi di ondate verbali, per quanto misurate (a volte in perfetti
endecasillabi) e musicali, come aveva visto Lucini.
Non resta da dire in definitiva che quella di Marina è, in effetti, una scrittura difficile, intorno alla quale è altresì difficile esaurire gli
argomenti. Poichè mi sono occupato della sua scrittura in almeno sei diverse occasioni (il primo post risale al 2006, trovate tutto su Marina Pizzi in
IE QUI) rimando volentieri
chiunque sia interessato a quelle note, con l'avvertenza che alcune delle cose che ho scritto potrebbero essere rivedibili. Buona lettura.(g.c.)
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Domenica, 17 agosto 2014
Enzo Campi – Ligature - CFR, 2013
È accattivante il ritmo e la sonorità, indiscutibilmente struggente per intensità e contenuto, del poemetto Ligature – CFR, 2013 di Enzo Campi.
Questo lavoro in versi conferma l’assoluta autonomia dell’identità letteraria dell’autore che si impone con una voce disegnata, raffinata, creativa e
innovativa. Tutto il percorso poetico dell’autore, attraverso sillabe scandite metricamente, è composto di reminiscenze, vizi e virtù dell’uomo di ogni
tempo. Leggendo con attenzione percepiamo il pensiero complesso di Campi che si svela, a mano a mano, che condivide con il lettore il perimetro dei suoi
componimenti a cui assegna una motivazione filosofica e un gusto estetico: suono, pausa, sagome stilistiche che anticipano il senso delle metafore.
L’autore, con il suo segno, incarcera, il silenzio improvviso e tutto ciò che è mutevole nella contemporaneità. Enzo Campi sa che alla speranza segue la
disillusione e che alla gioia bisogna aspettarsi l’amarezza, infatti ad ogni seduzione corrisponde la sua contraddizione. Un simile lavoro è una sfida per
la letteratura tradizionale: Campi osserva il mondo da un’angolazione obliqua e si premura di assumersi le responsabilità degli sguardi, dei colori, delle
ipocrisie che sul piano inclinato, vengono fuori dalla tragicità delle combinazioni. Gli squarci di inquietudine gratificano e appagano il senso nostalgico
che il tempo convenzionale porta in sé. I parametri non sono, però, censurati: il poeta si impone di risanare il cattivo gusto con la voce fatale del bello
a cui mescola la necessità del contatto con la memoria, del controcanto ideologico, di cui se ne fa una ragione. L’autore crede nel movimento
della poesia: ecco perché lega alla scrittura poetica il senso delle cose terrene e ripercorre le intuizioni rimpiante come ligature
valoriali, cioè possibili alternative per la libertà dall’ombra. (rita pacilio)
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Giovedì, 10 luglio 2014
Stefano Guglielmin - Le volpi gridano in giardino - CFR 2013
Spesso leggere o scrivere poesia significa compiere percorsi non lineari, significa entrare in un labirinto di opposizioni/relazioni, di
concetti/spazio-temporali con numerosi nessi che si vengono a stabilire tra le parole e i significati a esse correlati. Evidentemente non bastano, però, i
significati o i sintagmi nominali! Il poeta ricerca, con urgenza e improvvisi cambi di prospettive - con tecniche di replica storica e molteplicità
interpretativa, con virtuosismi stilistici - i modelli della realtà e le multiformi labirintiche sfumature delle condizioni socio-umane remote, le forme
intime e segnate dal passaggio dell’identità dell’essere umano. Cerca e ricerca, con prepotente immagine simbolica, la sua memoria, comunque sopravvissuta
al chiassoso realistico mondo in cui continuamente pur si ricrea, si rinnova. Ne Le volpi gridano in giardino, opera poetica di Stefano Guglielmin
(CFR, 2013), accade questa resistenza; avviene, infatti, il rapporto comunicativo e continuo con il mondo e le cose che non è allusivo o allucinato: si
avverte l’influenza estetica baudelairiana, il suo elegante simbolismo, mai paralisi dolorosa dell’impersonale, ma continua composizione e deframmentazione
del reale e della storicità. Guglielmin condivide e coglie i percorsi della storia da un punto di vista oggettivo e allargato, cioè da spettatore, da
osservatore/ascoltatore dell’essenziale: ogni tradizione classica educa alla precisione e alla trasparenza dell’esperienza capillare lasciando al lettore
la capacità interpretativa delle pluralità dei sensi metaforici. Stefano Guglielmin è un poeta, scrittore, ma è anche un ‘critico’ e, quindi, un
conoscitore della ‘verità (per critica letteraria si intende un genere letterario! Berardinelli). Sono veramente pochi i critici/poeti/scrittori capaci di
trovare e inventare il confronto ‘drammatico’ tra l’opera e ciò che c’è (in senso allargato) nella cronaca del mondo; e Guglielmin sa mostrare la sua dote
preziosissima di appropriarsi di un sentire autentico riconoscendosi nell’uomo/volpe che si espone e descrive con la potenza specialistica del cantore. Il volume racchiude tematiche che occupano sfere personali, aree sociali e storico/culturali che offrono un originale e sorprendente
confine/accostamento tra il dissolversi di elementi che si combinano e ricombinano in presenze/paesaggi antitetici, ma allo stesso tempo, in presenze dalle
tonalità che hanno connessioni che svelano interpretazioni filosofiche (futuristiche aperture). L’opera, emblematicamente sezionata, così come la parola
poetica, incarna la sacralità della Natura e della Vita, nel dettaglio, la coscienza razionale del pareggiamento di ciò che è norma o devianza, di ciò che
rispecchia la scia rivelatrice della nostra origine simbiotica e dell’incompatibile fiducia/sordità madre/figlio (C’è bufera dentro la madre).
L’autore entra in dialogo con le contraddizioni del suo tempo storico in una condizione privilegiata, da conoscitore esperto di terminologie e di immagini
antitetiche che spesso negano oggettivamente e che affermano interagendo linguisticamente, con elegante tono lirico, con le voci del passato ( Canti partigiani): la sua poesia diventa pane, madre, moglie, voce, bocca, (Canti dell’Amore Coniugale) cioè un complesso visionario che
ha un ritmo biologico e psicofisico attraverso cui fluisce e defluisce il corso del mistero remoto dell’acqua/cosmo/esistenza. L’acqua, qui, è
assolutamente/profondamente vissuta come una divinità terrena in cui si afferma la complessa legge della libertà. (rita pacilio)
Continua a leggere "Stefano Guglielmin - Le volpi gridano in giardino, nota di Rita Pacilio"
Giovedì, 17 ottobre 2013
Gianmario Lucini - Canto dei bambini perduti – CFR Edizioni, 2013 (disegni di Giacomo Cuttone)
Canto dei bambini perduti
di Gianmario Lucini è una nenia d’amore infinita in cui i lettori /spettatori partecipano a un prolungato raggio di vita e di morte in tutte le dinamiche
sociali e intellettuali che il poeta sa, con ebbrezza elastica ed empatica, evidenziare nei molteplici drammi umani: la disperazione e lo scandalo del
sopruso, il silenzio del dolore impietoso della perdita, lo sgomento cosmico di fronte alla torturata coscienza etica sempre in crisi e in bilico rispetto
al nichilismo del sistema. Lucini mette in scena il rimosso, le condizioni estreme, le ombre adornate del lutto che prendono voce, musica, movenze e
silenzi: i personaggi acquisiscono volti, nomi, sembianze che, l’esperienza visionaria di Giacomo Cuttone, sgola e tocca, incarnando e attestando, sia i
personaggi concettuali che quelli emozionali. I bambini perduti ritornano in tutto il loro simbolismo sovrabbondando in modo quasi esilarante;
corpi che in qualche modo hanno bisogno di gridare e invocare, mettere in ansia, sussurrare, ma, soprattutto, ricordare la bellezza della loro semplicità ( Una terribile bellezza è nata – William Butler Yeats), la loro fiducia estrema con cui sono stati immediati e presenti in questo mondo. Ci sono
appartenuti così, terribilmente intensi e luminosi, senza interferenze o filtri. Adesso, in questa sceneggiatura teatrale, ossuta e a volte gonfia di
tormento, terribilmente grigia (G. Cuttone disegna in bianco e nero) l’autore ci pone di fronte a mille domande, a mille cantilene. Siamo riallacciati alla
traccia, alla parte che viene lesa, negata: capirne i meccanismi perversi, le sostanze intime, la malattia sociale originaria, il perché della formazione
familiare marcia, far riemergere la struttura primaria, risalire al detto, al non detto, al ridetto, ricostruire la parte, rimettere in scena i dialoghi,
le paure, le forme postume. Gli equilibri sono precari, i miracoli non avvengono, le preghiere assumono forme laiche, emorragiche, diventano
denunce/rinunce. Il mondo non è più apparenza, ma forza autoriflessiva, visibilità, scoperta della luminosità e del buio su cui si muove l’impresa
dell’incorporeo nel corporeo. È un dono fertile: la poesia si veste di umanità, vuole superare la spoliazione della tragicità nel suo profondo, in modo
estremo e autentico, riemergendo dalla stessa eco, dalla stessa vita, dal sorriso compiuto di un bambino, dall’armonia che la sua bellezza ci insegna. (rita pacilio)
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Giovedì, 21 febbraio 2013
Alessandro Assiri, In tempi ormai vicini, Ed. CFR
Alessandro Assiri, poeta noto e “scafato” nel senso di “avvertito, che ben conosce la poesia contemporanea oltre a quella letteraria, critico ed edotto di
come funzioni la macchina del successo letterario”, si presenta con un libro dal titolo ambiguo: i tempi possono essere vicini perché prossimi a venire e
perché appena scorsi, tanto che ancora ne recuperiamo oggetti, memorie, scaglie usurate d’eventi, frammenti d’identità, pulsioni , evocazioni,
consapevolezze dure come piccole pietre.
Le liriche del libro, suddivise in quattro sezioni dai titoli suggestivi, danno ragione dello sguardo strabico del poeta che coglie frammenti di un passato
prossimo per rivisitare il presente e compiere anche l’azione contraria, dal presente al passato. In questa continua operazione transitoria l’io lirico è
pressoché assente: spia dietro le scelte dello sguardo e si ritaglia il compito del lessico e del metro.
C’è un’ironia amara che pervade l’intero libro, anche le frasi fatte, il raccogliticcio verbale, sono uno strumento affilato di penetrazione dentro una
realtà attuale che non si ama, così come non si è saputa amare con dura consistenza quella della gioventù che travestiva i giorni con un eskimo di sogni.
Nessun rimpianto, però, macchia questi rimasugli, né essi sono utilizzati a pretesto per rimpianti o per acrimonie; anche se non è ben chiaro perché il
tempo abbia spinto in una direzione variata e contraria, la nuova realtà ci colpisce su cicatrici ormai chiuse e il dolore è ottuso dagli antidolorifici.
Ciò che si è perduto non può tornare, può essere rimpiazzato ma l’intervento mostra ancora più chiaramente la il logos e il topos del dolore: “
(…..) Rifatto fino al nome assolvi la vita che hai perduto/ un po’ da militante e un po’ da dissociato/ prima sedicente poi compagno che ha
sbagliato.”.
Questa ironia, riscontrabile un po’ in tutte le poesie, ora leggera ora pungente, riverbera sull’autore stesso al quale resta come un’arma un po’ spuntata
per dire di sé nei tempi , e il suo sé corrisponde a quello di tanti suoi coetanei.
Assiri poeta non ama stupire né recriminare: appartiene alla quota scarsa delle persone che non si chiamano fuori dal gioco o che colpevolizzano sempre gli
altri, il caso,ecc.., per i fallimenti personali e collettivi; la sua denuncia è una autodenuncia e, soprattutto, non ha carte a discolpa né le chiede.
La sua poesia è dimessa. colloquiale, a volte brevissima riuscendo però a sfuggire all’aforisma e alla sapienzialità: “ Sul muretto coi brufoli a parlare fino a tardi/ dell’omino coi baffi con sto nome da birra e sta faccia da schiaffi.”
Chi ha gli anta alle spalle ha vissuto una scena come questa e non saprebbe descriverla meglio: poche parole essenziali, precise, scavate nei meandri della
memoria.
Qualcuno potrebbe obiettare che così operando la poesia non ci porta a nessun passo in avanti. Ma quando mai è successo?
La poesia- azione appartiene alle sue origini, alla sua pratica impellente, da gulag o da frontiera; ci resta una poesia che contiene, quando ci riesce,
l’esubero del sentimentalismo , e i materiali di costruzione dell’identità.
Può dirci dei mali e dei tempi a suo rischio e pericolo: a rischio dell’invettiva o di procreare un ibrido fra un io travolto dal presente e smarrito fra
sirene e miraggi contemporanei.
La lucidità di Assiri è preziosa perché non ambisce stupire, né commuovere, neppure farci troppo riflettere: i suoi versi ci fanno ritrovare un amico con
il quale conversare sorridendo con un po’ di amarezza per i nostri fallimenti. E questi anni duemila ci hanno spogliato di ogni ideale e , se la colla è
rimasta, come afferma Alessandro, non c’è più nulla da appendere. (Narda Fattori)
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Lunedì, 15 ottobre 2012
Ricevo e pubblico volentieri questa nota di Narda Fattori, che ringrazio, sull'ultimo libro di Lucetta Frisa. Il testo è già apparso su La poesia e lo spirito lo scorso 1 Ottobre.
Lucetta Frisa, L’emozione dell’aria, CFR
La musica è vibrazione d’aria, aria che si piega, corre su precipizi, sprofonda, risale, volteggia lieve come una farfalla, sfugge alla presa, capitombola,
si muove elegantemente come i cavalli al dressage,…, molto concisamente, forse superficialmente, la musica è aria che emoziona e ci trasporta
dentro, fuori, adagio, solenne, allegra, andante…
Lucetta Frisa si fa penetrare da questa emozione e, mutando il ritmo, il timbro e la melodia, varia il suo dettato, il contenuto dello stesso che può
elevarsi, ma mica poi tanto, perché la musica, arte sottile e matematica, trascende la quotidianità ma mai l’individuo perché di esso è prodotto, arte e
non merce, e quindi è una grazia e una bellezza o un dramma e un abisso che gli restituisce la possibilità creativa, quel prezzo terribile che paga da
quando volle mangiare all’albero della conoscenza. Il titolo stesso è una azzeccata sineddoche: è la persona che si emoziona alla vibrazione dell’aria
nella musica.
Lucetta Frisa ha già trasposto elegantemente le emozioni suggerite da dipinti famosi e anche da essi, in una felice contaminazione artistica, si è fatta
penetrare, è entrata in dialogo.
Con la musica non si può dialogare, puoi solo assumere la disposizione più consona all’ascolto: tecnico se sei musicista, intimo, intrapsichico se sei
poeta.
Ecco come ce lo dice: “voci/ voli/ fiato/ di chi ama o muore/ l’emozione dell’aria trova il suo alfabeto.” È un alfabeto che si può ascoltare, con
il quale, però, non si può interloquire. L’eloquio è fra sé e sé, fra sé e gli altri. La Frisa può dirlo con questa intensità:
“Se i suoni sono specchi
di un detrito astrale
chi evocano
invocano
quale visione
o profezia?
E a noi tocca solo il dolore
o sordità?
se il canto di sirena incantò il tempo in pietra
le nostre voci
affondano
nei vuoti abbandonati
degli astri
……”
Porgiamo un attimo di attenzione alla spaziatura dei versi che, mi pare, cerchino di imitare la disposizione delle note sul pentagramma; la loro apparente
irregolarità è in realtà il loro pregio, la musica che suonano, il ritmo che vibra nella loro scrittura, il fiato , il respiro.
Ma torniamo ai versi: che sa l’uomo di questo suo miracolo, pur essendone l’artefice? Può essere che la profezia che vibra sia diventata incomprensibile e
qui si stia nel dolore e nella sordità?
Se il canto delle sirene trasformava gli uomini in pietre, ora sordi, si cattura il vuoto fra gli astri e, ben sappiamo che il vuoto è molto maggiore del
pieno.
Ecco che la musica apre le porte della riflessione intrapsichica, emozionale, anche filosofica.
“ la musica lascia una scia
d’aria
ed ombra
dov’è il centro?
è solare vento
che a caso muove il nulla
le sue figure?
nella polvere fu concepito il fremito tellurico
ma nell’atmosfera tutto sembra immobile e muto”
Lucetta procede nel suo ascolto che proietta fuori di sé scienza e coscienza, soprattutto molti interrogativi senza risposta, che non hanno risposta.
Tutta la prima sezione, intitolata Basso ostinato si fa carico delle domande “impossibili” e giunge, inevitabilmente, alla fine del
personale (umano) percorso dell’uomo che passerà oltre la Turbolenza e, contrariamente al razionale e percepito, il ponte è un taglio che ci unisce al buio e resteremo con una fame inesausta di musica che dovrebbe sprofondare con le sue partiture sotto la
nostra stessa crosta e ci porteremo via minutaglie, le cose di tutti i giorni, tutti i giochi, gli inganni.
La musica, così amata e cosi violentemente amante, ci abbandonerà alla sordità, la terra ne sarà abbandonata.
Questa prima sezione del libro, che ha la struttura di una fuga di Bach (però da inesperta, non vorrei azzardare nessuna analogia) è anche la più aspra e
solenne e il titolo è ben accordato: basso, come il ridere del grillo, forte come la lingua del tuono ( versi di Emily Dickinson), ostinato,
niente fughe ma scavi, ascolti, echi, rimandi, rifrazioni e qualche riflessione.
Poesia coltissima, attenta, controllata ma anche dolente, amara, senza alcuna forma di consolazione. La sezione che segue, Les amusements,
ci accompagna verso musica diversa, se non proprio divertente come promette, capace di penetrare e assolvere le minuzie, le sofferenze, gli antri oscuri
del transito umano. Ogni poesia porta il titolo del brano e il nome dell’autore (Schubert, Chopin, Ravel, Brahms, Rimsky-Korsakov, Bartòk, Astor
Piazzolla,…); musica diversa per tempi diversi ma la non contemporaneità dei musicisti offre la possibilità di raccontarsi, perché questo osa talvolta
Frisa, in modi e con timbri spurgati dall’emotività:
“[…] ora tu suoni
per me per noi
per questa casa saturnina che a ogni nota
si frantuma un po’ di più
[…]
impari e dimentichi
impari e dimentichi
e non smetti mai di suonare.
La terza parte, più breve, intitolata Peace Piece, si sposta con indifferenza fra la musica da camera a quella blues e jazz, ma non sono
indifferenti i temi: in queste poesie Lucetta Frisa esce da sé per guardare gli altri, gli altri come persone e non come mondo, cioè convitati ad una mensa
amara.
E per i bambini, per il loro rispetto, per il loro affetto, per evitare loro le escissioni dei sogni e i morsi della vita, dice” abracadabra/ se potessi”
Ma non c’è magia che tenga, se non questi bellissimi versi che possono solo restituirci un po’ d’umanità.
La dolenzia non è disamore , è troppo amore per la bellezza che si vorrebbe pura come nell’arte e diffusa invece le brutture scorazzano nelle contrade del
mondo e se ne sono impadronite.
Narda Fattori
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