Venerdì, 3 giugno 2016
Lorenzo Mari - Ornitorinco in cinque passi - Prufrock spa, 2016
Ci sono animali e animali. C'era una volta un airone, per esempio. Uno strano animale che passava il tempo rovistando la melma del fondo di risaie lombarde
o frugando il ventre di poeti in cerca di "umida sabbia e piccole uova di rettile". A lui competeva, stando alle parole di chi lo aveva osservato da
vicino, "l'allegoria della perdita, della cecità, l'introspezione del negativo e dell'immobile"1. Questo accadeva anni fa. E c'è un ornitorinco,
mezzo papera mezzo coniglio, un animale non meno strano, di difficile interpretazione, tanto che - leggo da qualche parte - la filosofia lo ha eletto ad
emblema di soggetto che complica le classificazioni. E che in cinque passi segue un tragitto poetico un po' ellittico che lo porta ad essere
emblema di altro, credo almeno come alter ego dell'autore, o meglio come deuteragonista silenzioso, che parla per apparizioni, presenze spesso ammonitrici.
Insomma un animale reale e mitico insieme, con una certa tendenza a farsi simbolo di chi lo osserva o parla di lui, come specchio, espropriandolo,
antagonista - anche politico - della storia, portatore di una contraddizione feconda perché - tanto per dire - "l’habitat dell’ornitorinco / si costituisce
come spazio inventato", quindi forse pertinente alla speculazione delle idee o al sogno, o viceversa "l’habitat dell’ornitorinco / è più reale del reale //
ma è stato costruito per un animale / che non parla, non è mai presente", o forse per qualche ragione è invisibile, deprivato, come può esserlo
l'uomo nella società attuale. C'è infatti in tutto il testo la trasmissione di un senso di una critica incertezza, di critica filtrata dalla metafora, uno
sguardo su un ambiente circostante che non è fatto di oggetti o cose, anzi è piuttosto deserto, ma di inquietudini, di segnacoli. Ad esempio cos'è davvero quella neve "imperterrita e nera", la "nevicata del secolo" in cui la nostra impronta (nostra, quindi collettiva) "viene da un altro
viaggio", e dalle nostre impronte si può capire "se si fa l'invasione o si fa la resa", se cioè si va avanti o si arretra, nei molti significati che questo
può comportare? Cosa sono quelle grate, attraverso le quali "passano carta e penna [...] ad ogni ora", contro le quali - ancora - la neve si ammassa, che
significato concentrazionario o di chiuso rigore suggeriscono? Ed ancora, in sinergia, chi sono quei "loro" che passano carta e penna ma solo "per
qualcuno: / una dose, come credono; poi portano altro / o se ne vanno"? Sappiamo che "loro non sono, in quanto loro / però chiedono con forza / che anche
questo sia scritto: / un luogo – supplicano – / una forma di tempo.", sappiamo che "parla, parla, parla – finché si perde / (poiché loro, in quanto loro,
non hanno lasciato che questo)". Un lascito quindi, una grama eredità. Che siano forse, questi "loro", coloro che ci hanno preceduto? ("Passate in rassegna
le schiere dei morti, parlate con loro ancora una volta, imparate dai tassidermisti, ricomponete tutti i disastri, parlate dicendo: eccetera eccetera
eccetera. Provate, in un solo corpo, a sanare tutti i debiti"). Già, provate, ma non è detto, come abbiamo visto poco più sopra, che il tentativo sortisca
qualche effetto. C'è ancora, in questo libro, qualcosa di quel "debito", di quel senso di responsabilità che si trovava in Nel debito di affiliazione, presenze che sembrano suggerire qualcosa, imporre una scrittura, forse qualcosa di dovuto o ispirato, "una forma di
tempo", cioè una qualche garanzia di non oblio. E che cos'è quell'altrove, quel "qualche luogo" che si percepisce con una certa inquietudine in tutto il
testo, quel "fuori" che sento così legato a quel "loro" ("Adesso nevica, o almeno questo è quel che dicono, questo si va dicendo: nella ressa si prepara il
compenso, mentre forse, in qualche luogo, risuona l’allarme giusto") e al quale corrisponde un "qui dentro", quelle "quattro mura" - anch'esse naturalmente
metaforiche - entro le quali tuttavia alla fine riusciremo a capire "la lotta delle classi che non sono dette" (come forse quell'animale "che non parla non
è mai presente"). Molte domande, lo so, ma come si conviene a un buon libro di poesia. Insomma, c'è in questa raccolta qualcosa di irrequieto, di dubbioso,
di fortemente critico (sono costretto a usare ancora questo aggettivo) e anche di rabbiosamente reattivo che ti picchia sulla spalla, ti avverte che là
fuori, nel mondo/mondezza, c'è qualcosa di pericoloso a cui è necessario prestare attenzione, una sotterranea violenza contro cui lottare ("Scegliere una
lente d’ingrandimento: per l’insetto, per il ratto, per lo stomaco del ratto, capire infine tutto il mondo, nonché la mondezza – chi può esser stato, chi
ti ha staccato, nottetempo, la punta dell’orecchio").
Il libro è costituito da una struttura che ricorda un prosimetro, essendo intervallato da blocchi di testo che però non sono prosa in senso stretto, ma
sono indiscutibilmente l'adozione di una forma di poesia in prosa, o meglio di prosa in prosa, che vuole proporsi attualmente come la più nuova, e forse la
più promettente di sviluppi. E' una soluzione interessante, perché, oltre a creare una dinamica intratestuale con le parti in versi, mi pare che le parti
in prosa, in cui è presente anche una notevole terminologia scientifica o parascientifica, siano il terreno designato della logica, dell'analisi politica,
della critica, della denuncia ironica, del richiamo alla Storia ("Conto a mente delle guerre perse, mai combattute, mai organizzate, e a scanso di ogni
possibile dichiarazione. Non compare nessuna Caporetto, nessuna pasciuta linea gotica, nessuna foiba fonetica con fobia, nessuna Marna [...]").
Mari, che conosco abbastanza bene (v. QUI, oltre alla
prefazione a Nel debito di affiliazione, L'Arcolaio, 2013), mi pare che tenti con questo libro un triplo salto mortale, cadendo quasi in piedi.
Perchè sembra piuttosto distante dai libri precedenti, tanto che di primo acchito viene da chiedersi se si tratta dello stesso Lorenzo. E tuttavia, specie
in testi come Una cosa del tipo, Per il freddo, Forme di salvezza, ed altri non tanto dissimili da quelli che puoi leggere in Minuta di silenzio o nel Debito, il vecchio Lorenzo rispunta, recupera un po' del suo stile che avevo definito un po' scazonte come la
realtà che vuole descrivere, di inquieta diffidenza in una parola "definitiva". E' proprio lui, soltanto - mi pare - con un altro respiro, con le idee più
chiare, e un progetto che però, credo, sta ancora lievitando nella sua testa. Mi pare che Mari si avvicini ad un'area che forse gli è congeniale, quella di
un lavoro sul linguaggio (le sue fratture e ricomposizioni, i suoi vuoti, le sospensioni che dilatano il senso) che non si discosti dalle cose da dire. Una
bella ricerca, senza rinunciare di una virgola al significato. E' la poesia che preferisco, quella che non cessa di innalzare l'asticella ma senza gettarsi
nel baratro a capofitto, cercando altresì un equilibrio, certamente non facile, tra il come e il cosa dire. (g. cerrai)
1 Niva Lorenzini, a proposito dell' Airone di Antonio Porta.
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Giovedì, 8 agosto 2013
Canto e demolizione, otto poeti spagnoli contemporanei, a cura di Alessandro Drenaggi, Lorenzo Mari e Luca Salvi - Thauma Edizioni, 2013.
Otto poeti spagnoli (José Maria Gomez Valero, Juan Antonio Bermudez, Laura Casielles, Miguel Angel Garcia Argüez, Carmen Camacho, Pedro del Pozo, Manuel Fernando Macìas, David Eloy Rodriguez), per lo più della generazione nata intorno agli anni Settanta, con stili e poetiche (e anche riuscite) molto differenziati che sembrano confermare, in Spagna come in Italia, l'inesistenza di scuole o movimenti o perfino di linee di tendenza capaci di fare massa critica, di dare una visione coerente e critica del tempo che stiamo attraversando. Ma, ovviamente, certo il panorama poetico iberico non si limita a questi nomi ed è certamente più vasto di quanto non appaia qui. Va detto, in ogni caso, che iniziative come questa di Lorenzo Mari e dei suoi compagni sono sempre benemerite per l'apporto che danno alla conoscenza di quel che succede al di fuori dei nostri confini.
Pubblico di seguito i testi che personalmente ritengo i più significativi. Non vi è attribuzione del traduttore in quanto, mi è parso di capire, il lavoro è stato affrontato collettivamente. Le versioni originali sono in calce.
Juan Antonio Bermudez
Equivoci, vocazioni
Quasi tutti i documenti in cui vengo nominato mentono. Mi sono visto in fotografie che nessuno mi ha mai fatto. Chi mi elogia o mi insulta non hai mai mangiato alla mia stessa tavola; emanano il loro verdetto senza guardarmi negli occhi come chi firma un contratto senza averlo letto.
Io stesso scrivo in una lingua che ancora non ho imparato; ricordo città che non ho visitato; ho ancora sulle labbra il sapore di una donna che forse non mi ha baciato.
Le mie dita stringono l'aria calda lasciata dalla sua pelle come chi abbraccia il cadavere di uno sconosciuto.
Canzone sensata per una ragazza seria
È strana la vita ed è strana la vita irripetibile di ognuno, questo ronzio cosmico e la breve carezza di una pelle sulle proprie ossa, sulla spugna, sul fango, sulle arance.
È strana la vita, i suoi percorsi. Il ritmo di milioni di molecole (ciò che furono o sono, ciò che saranno) sfocia in noi ed eccoci qui, all'improvviso e nudi. Tutto quadra: le fughe trovano un senso, le tue cicatrici accusano i miei fallimenti e con paura e con ansia e con pigrizia una volta di più inventiamo il mondo.
Laura Casielles
Prima coniugazione
Trovare le parole fondamentali. Imparare come dire perdono nella lingua di chi irrompe, e buongiorno, e prendi e sono venuto a conoscerti, imparare come dire grazie nella lingua anche di quelli che distruggono e che anche si disfano, come dire caffè, amore, patria shalom, salam aalaikum, imparare come si dice vieni, entra, questa è casa mia in un Paese a sud del quale appena restano rovine, imparare obrigada, spasiba, imparare quali colori non esistono nelle lingue d'Africa. E come rispondere di sì a Pechino. Arrivare nelle città e scoprire i segreti del mercato, capire, imparare qual è in ogni terra l'etimologia di anima, e in che modo salutavano la paura i miei bisnonni.
Trovare le parole fondamentali. E poi parlare.
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Martedì, 30 novembre 2010
"Arte dello scarabocchio fatto con gomma e matita, la poesia che si
può fare e rifare (..,) mi ha sempre incuriosito", dice Lorenzo Mari.
Una curiosa dichiarazione di poetica, che presupporrebbe altre prese di
posizione, molto più radicali di quanto appaia dalla lettura di questo
libro, o altri mezzi di espressione. Ma se si sta alla scrittura poi
alla fine ci si rende conto, proprio come luì, che "per assumere
responsabilità e firmare con la x bisogna qui fermarsi un attimo,
prendere fiato e attraversare una minuta di silenzio". In altre
parole, una inquieta diffidenza nella parola (non in sè ma in quanto
immersa nella ormai canonica fluidità del mondo) deve prima o poi
fissarsi in una espressione, farsi magari carta. E diventare il quel
momento "definitiva". Si lascia al silenzio, alla riflessione interiore,
di fare la parte del foglio bianco mentale, della minuta su cui rimarranno, però ignote ai più, tutte le varianti immaginate.
Il
compromesso è (in Mari come in altri, ed è questo che mi interessa)
una poesia del provvisorio, del fenomenico, dell'incerto, evidenziata -
anche - da una scrittura che mima a volte il flusso attraverso le
associazioni o le isotopie (in un testo: scatto, erectus, sprazzi, ictus, ics, rictus) e che connota la difficoltà del vivere con un andamento scazonte, con concrezioni di senso in parole altrettanto "difficili" (trisma, glosse, prossemica, scialorrea, disforico, ecfrasi) e pertanto ugualmente (nell'immediato) indecifrabili. L'occasione non è quella montaliana, ma è in larga misura l'evenienza o
i suoi epifenomeni e la conseguente epifania (come, in certa misura ma
con differenza di stile, in Giovanni Catalano v. qui). L'osservazione
poi porta a riflessioni originali, come nel testo, qui presente, "L'uomo
che cade", in cui una storia dialogata (e, perchè no, recitabile) che
sta tra Newton e Magritte e che prende spunto, credo, da un evento ormai
infitto tragicamente nel nostro repertorio di immagini, si realizza in
una piccola operetta morale sul concetto di realtà e sur-realtà. In
altri casi è l'oggetto che assume una valenza simbolica, come in
"Passaggio" lo è il libro come testamento, l'opera come speranza di
passaggio, anzi meglio, di tragitto à rebours dell'autore in
marcia verso il "ponte maledetto" della morte. O le cose, gli oggetti
indifferenziati e innumerevoli che popolano la nostra vita, che in "A
fare maglia" costituiscono una specie di tela di Penelope senza
destinazione, ma anche ci circondano senza attenzione (e quindi senza
significazione, v. qui "Sermone di distrazione"). In altri casi ancora,
come in "Tell" in cui l'arciere tratteggia l'idea del
significato dell'atto, della sua coscienza, del suo controllo anche
amorevole che può essere senz'altro applicata allo stesso atto creativo e
artistico, la metafora si fa dichiarazione di poetica.
Tuttavia, di fronte a tutto questo, rimane l'inquietudine che si
diceva prima, riguardo a una scrittura "definitiva" che spesso l'artista
(in generale e anche Mari) percepisce come un limite e che a volte
lascia qualcosa di irresoluto o il dubbio che nelle catene delle parole,
delle associazioni, delle assonanze, dei significanti possibili sia
rimasto fuori qualcosa. Un'inquietudine, qui, a sua volta ragionata e
riflettuta. Così in "Necessità delle riconsiderazioni" Mari appronta un
testo che a me pare possa essere interpretato - anche - come
interessante metafora della scrittura come processo e giudizio che passa
definitivamente in giudicato e pertanto va attentamente considerato, e
tuttavia rimane aperto ("l'inganno del punto fermo") almeno per il
travaglio che è costato ("tutto il sudore addietro"). Aperto e fecondo,
perchè comunque bisogna (vedi "Nell'iperbato culla") "coltivare l'amore /
nella spezzatura, / nella riserva di voce", in altre parole dire "ciò
che non è stato / ancora detto".
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