Giovedì, 3 gennaio 2013
Valeria Rossella - La città di Kitež - Nino Aragno Editore, 2012
Kitež è una città mito. Al centro di una leggenda russa ripresa anche
da Rimskij-Korsakov in una delle sue opere, la città, di fronte alla
minaccia dell'invasione dei Tartari nel 1200, si inabissa nelle acque
del lago Svetlojar per rendersi invisibile, apparendo soltanto come
immagine speculare, raggiungibile solo forse con la fantasia, simbolo,
in questo libro di Valeria Rossella, anche di una
duplicità dell'esistenza, "luogo nascosto - come nota Giovanni Tesio
nella sua presentazione - del rovescio e del riflesso, luogo
inafferrabile e misterioso, che trasforma i morti in vivi,
nascondendoli nello specchio sfigurante del contrario".
Confine, quindi, osmosi di linguaggi, occasione per rimeditare la vita
da altre prospettive, come se si guardasse il cielo da sotto la
superficie dell'acqua.
Dei ricordi, dei rimpianti, del non detto, dei luoghi in cui avremmo
potuto essere, delle azioni non portate a termine, di questo è fatta
quasi sempre la poesia. Ciò che connota questo bel libro, il filo rosso
che lo attraversa in tutta la sua estensione, è il tentativo del poeta
di una continua ricostruzione del tempo lineare, un ritornare
sui propri passi che però non è comune seppur poetico recupero del
ricordo, bensì volontà di rinvenire in esso una svolta del pensiero, una
piega nascosta dei fatti, una curvatura dell'esperienza in cui anche la
cultura che sostiene Rossella ha una parte rilevante e feconda, essendo
insieme chiave di lettura del cammino inverso e innesco di epifanie
rivelatrici. L'altro filo rosso è l'amore, sia esso l'amore per l'arte e
la sua lingua sottile che troviamo nella sezione Ut pictura poesis
(ovvero, secondo Simonide, pittura come poesia che tace, poesia come
pittura che parla), o l'amore per il compianto marito, il poeta Fabio
Doplicher, nella commovente poesia estate, o triste. Inutile
negarsi che questo lavoro poetico di "afferramento", se vogliamo di
restauro del vissuto attraverso la scrittura (o la ri-scrittura), è per
sua natura (anzi per la nostra natura di esseri umani) carente,
parziale, latente direi come una lastra fotografica, e forse destinato
ad una onorevole sconfitta, come se ai nostri destini sovrintendessero
quelle "scimmie divine" che danno il titolo ad un'altra sezione del
libro, abitanti di un Olimpo ottuso e violento, forse un po' anarchico,
ancora più distante del Dio che crediamo di conoscere, qui quasi del
tutto assente come il proprietario di un triste albergo a cui tutti
siamo diretti. Il sentimento della morte ("la Camola del tempo") è
sempre in agguato in queste poesie, traspare da un quadro di Velasquez,
da "una ragazza [che] cuce / sotto la pergola tra foglie di vite", una
dissimulata Parca, da una delle "geografie" (è il titolo dell'ultima
sezione), luoghi fisici e dell'anima, spazi pieni di echi e di
inquietudini, posti in cui si è stati, si ritorna, si registra il
cambiamento.
Tuttavia su tutto spira quasi uno spirito stoico, controllato ma non
distaccato, temperato da un'ironia che a tratti emerge, che prende in
certi casi forme metriche ritmate e cantabili, per poi ritornare senza
timore verso toni elegiaci, soprattutto, ripeto ancora, quando il tema è
il ricordo del marito scomparso, come nella bella poesia Anzolo de sti loghi calmi, verdi, de aqua,
in cui il dialetto triestino (Rossella è torinese) è scelta di
adesione, è gesto poetico di estremo affetto. Ma quello che importa di
più in questo libro, a mio avviso, è la forte centralità del poeta
rispetto alla materia poetica che riesce a maneggiare senza che ne
debordi un io invasivo, rispetto ai confini tra passato e presente, a
questi bivi tra luce e ombra che si è messo a perlustrare concedendosi
pietà senza scivolare nel lamento né senza lasciarsi travolgere da
confessionalismi sentimentali.
Contribuisce a sostenere e condurre il libro anche una musica ariosa in
cui un ricco linguaggio si effonde in versi liberi, una musica che,
specie quando "suona" temi del tempo e del rimpianto, mi piace definire
leopardiana (con certi avvii talvolta, con certa scelta di termini che
mi fanno pensare ad altri poeti che amo molto, il Raboni de Le case della Vetra, il Giudici de La vita in versi,
Orelli, forse anche Fortini, Erba, e certo in questi versi si trova
molta della bella tradizione italiana e forse qualche traccia, in
ragione del lavoro di Rossella come traduttrice, della fede nella parola
della amata poesia polacca). (g.c.)
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Lunedì, 26 novembre 2012
A corollario della presentazione a Firenze il 16 ottobre scorso di "Trattato poetico" di Czesław Miłosz (Ed. Adelphi), di cui ho dato notizia QUI,
segnalo la pubblicazione su "L'ospite ingrato", rivista on line del
Centro Studi Franco Fortini, del resoconto, corredato da alcuni testi
del poeta, degli interessanti interventi dei relatori Alfonso
Berardinelli, Giovanna Tomassucci e Valeria Rossella, traduttrice
dell'opera. Ringrazio Giovanna Tomassucci della segnalazione.
Alfonso Berardinelli: "È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico
di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento,
un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca
della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e
due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue
pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha
spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere,
e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non
solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore
dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus
Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì
esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic,
entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della
composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e
interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che
non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i
confini tematici e linguistici della poesia; (...)"
Giovanna Tomassucci: "Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico
dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile
condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile,
negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il
saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa),
atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di
lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse
diverso?) a essere una ‘regione nebulosa’ su cui si ‘danno poche notizie
e se mai errate’.
Dopo la sua richiesta di asilo politico del 1951, molti compagni di un
tempo lo avevano duramente bollato di tradimento. In patria il suo nome
sarebbe rimasto all’indice quasi fino al conferimento del Nobel (1980).
Per raggiungere i propri connazionali, a parte certe equilibristiche
apparizioni (La valle dell’Issa verrà immediatamente confiscata
dalle autorità ancor prima di uscire in libreria), potrà solo contare
sulle edizioni dell’emigrazione di Parigi e Londra e più tardi sulle
quelle samizdat’. (...)"
Valeria Rossella: "Quando noi leggiamo, dico nella nostra stessa
lingua, compiamo sempre un’opera di traduzione, leggere non è mai un
atto puro. La traduzione da un’altra lingua non è che l’aspetto
macroscopico di questa contaminazione, pensiamo soltanto a come esista
un unico originale, e tante traduzioni, in tempi e in lingue diverse.
La traduzione, e soprattutto quella poetica, è dunque un sosia, ma non una copia: un gemello, che vive di vita propria.
Quando si affronta un testo scritto in una lingua molto lontana dalla
propria, aumenta esponenzialmente la responsabilità del traduttore che
diviene, per il lettore, l’unica voce del poeta.
In questo caso si tratta di affrontare con la splendida, ma anche
ingombrante armatura della sintassi italiana, la duttile e sgusciante
sinuosità di una lingua slava.
Miłosz qui usa l’endecasillabo, tranne che in alcuni frammenti, io ho
pensato di adottare una misura elastica, che si sviluppa modulandosi dal
doppio settenario all’endecasillabo. (...)"
(potete leggere il resto del dibattito su "L'ospite ingrato" - LINK)
Mercoledì, 10 ottobre 2012
Pubblico in calce un componimento scelto da Trattato poetico di Czesław Miłosz (Adelphi, 2012 - Traduzione di Valeria Rossella) in occasione della presentazione che avverrà a Firenze presso la Fondazione Il Fiore, Via di San Vito 7, Martedì 16 ottobre 2012 alle ore 17.00. Gli interventi saranno di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca all'Università di Pisa). La locandina dell'evento, completa anche di indicazioni stradali, è reperibile QUI)
Tra l'inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czesław Miłosz
dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e
propria sfida letteraria: un grande poema che, eludendo le cornici di
genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando
citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed
enunciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del
Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un
affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti
scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la
vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie
digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra
mondiale e gli orrori dell'occupazione nazista, con la rivendicazione
di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare
l'ambiente degli Stati Uniti, in cui Miłosz, dopo aver contemplato
l'abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la
dimensione ideale per trovare serenità ed equilibrio, senza peraltro
sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni
cruciali del XX secolo. Il Trattato poetico ha la forza
espressiva di un grande romanzo storico, l'intonazione nostalgica di
un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte
di un'epoca, l'accento pacato di una meditazione sulla storia,
sull'arte, sulla coscienza individuale. E anche le Note dell'Autore
che chiudono il volume si rivelano una splendida creazione
letteraria: un mosaico di schizzi e ritratti in miniatura che, come per
magia, ricreano il mondo di una ormai lontana Europa. (dal risvolto di copertina)
(...)Dalla ‘piccola Cracovia, come un uomo dipinto’ a Varsavia, ‘città estranea su una piana sabbiosa’, i toni della poesia cambiano. Si fanno più malinconici e raccolti, ricchi di un peso che si fa man mano più grave: “eh
no, lettore, non abiti una rosa / questo paese ha suoi pianeti e fiumi /
ma è fragile come il lembo del mattino. / Lo ricreiamo noi giorno per
giorno / stimando più ciò che è reale / di ciò che è irrigidito in nome e
suono. / Al mondo lo strappiamo con la forza, / troppa facilità non lo
fa esistere. / Di’ addio a ciò che è scomparso. Ne giunge ancora l’eco. /
A noi tocca parlare in modo rozzo e aspro”. Si percepisce nei
versi il rimpianto di non poter più parlare della natura, del semplice
succedersi delle stagioni, per non tradire l’impegno politico richiesto
dalla propria terra.
Finché Miłosz non risolve il conflitto con un ultimo, nostalgico gesto. Scriverà nell’ode conclusiva: “molto,
molto ci sarà rimproverato. / Perché, pur potendo, rifiutammo la pace
del silenzio / […] Invece volevamo smuovere ogni giorno / la polvere dei
nomi e degli eventi / con le parole, poco badando al loro / e nostro
svanire, scintillando”. Non può far riposare lo sguardo sul paesaggio americano che lo circonda, anche se la tentazione di “costruirsi per sempre una casa nella Natura”
è forte; c’è un luogo a cui tornare sempre, e nel momento in cui gli
uomini reinventano continuamente i confini geografici, è la mappatura
emotiva a ridefinire l’idea e l’anima stessa di una patria. (da una nota di Chiara Condò - Fonte: Cabaretbisanzio.com)
Altre cose di e su Milosz QUI
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