Lunedì, 31 marzo 2008
Inizia oggi, con l'articolo dedicato a Scipione (Gino Bonichi 1904-1933) il percorso di Francesco De Girolamo attraverso la cosiddetta "scuola poetica romana", un progetto che mi sembrava interessante intraprendere e che Francesco ha accolto con entusiasmo, assumendosene l'onere non indifferente. Il percorso, che parte appunto da Scipione e arriverà, salvo intoppi, ai giorni nostri, avrà una cadenza irregolare, per ragioni legate ovviamente alla disponibilità di tempo di chi ci si impegna in prima persona per pura passione. Di questo ringrazio fin da adesso De Girolamo. Vorrei solo aggiungere che la scuola romana è stata anche una straordinaria esperienza nel campo delle arti figurative, spesso strettamente intrecciata con quella letteraria, sia per le frequentazioni (Ungaretti, Bontempelli, Cardarelli e altri), sia per i protagonisti, che a volte spaziavano in diversi ambiti artistici. L'illustrazione qui accanto, appunto l'autoritratto di Scipione (1928), ne è un esempio.
Percorsi nella Poesia Romana: Gino Bonichi, detto Scipione
Non era neanche veramente romano, Gino Bonichi, figura tanto “sommessamente” fondamentale nella linea poetica capitolina, che prendeva le mosse proprio negli anni della sua brevissima (e tanto avversata dalla malattia) giovinezza, gli anni trenta, quando Aldo Palazzeschi (alias Aldo Giurlani), ormai uomo di mezza età, aveva già attraversato ed abbandonato le esperienze letterarie cruciali della sua formazione di inizio secolo, il crepuscolarismo ed il futurismo. Ma Scipione era troppo giovane per quei due appuntamenti tanto emblematicamente contrastanti e complementari della poesia italiana di quella irripetibile fase storica. Era nato a Macerata nel 1904; ed aveva cominciato, giovanissimo, a dipingere, rivelando la sua vicinanza, marcata, ma rivissuta con personalissimo tocco, con gli espressionisti tedeschi. Trasferitosi a Roma nel 1929, frequentò gli artisti e i letterati romani, con alcuni dei quali strinse fraterna amicizia, prima di finire in Sanatorio, nel 1931, ad Arco, in Trentino, dove morì nel 1933. Ebbe il tempo di lasciare un’embrionale raccolta poetica, in parte pubblicata in vita da Angioletti sulla “Fiera letteraria”; poi raccolta in un’antologia organica da Enrico Falqui, che la fece pubblicare, parzialmente, nel 1938 con il titolo “Le civette gridano”, e nella sua interezza nel 1942, nel volume “Carte segrete”, con una sua prefazione, in cui di lui diceva: “Una vita a capofitto. Un’arte che fece presto a serrarsi nella sua pungente perfezione.”
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Lunedì, 31 dicembre 2007
Pubblico, a sigillo del 2007, una poesia che l'amico Francesco De Girolamo, poeta già apparso altre volte su questo blog, mi ha inviato qualche tempo fa, accompagnata da una mail in cui, coerentemente, riafferma la sua convinzione sulla necessità di combattere (cito) la "rimozione", così equivoca e sommaria, del lirismo, il vero lirismo, non lo stereotipato "poetichese", spesso calco inerte d'ascendenza stancamente tardo romantica, o di un "ectoplasmatico", piuttosto diffuso, neo-decadentismo di maniera, o addirittura espressione di un' enfatica sontuosità mito-poietica, ibrido frutto di estrema "improntitudine" scolastica, così anacronisticamente "rimasticato" e fieramente riproposto in versi goffamente "cassicheggianti". Questo testo, articolato e musicale, che non ha imbarazzi nell'uso attualizzato del verso libero e nel recupero di stile e sintagmi che possono apparire ormai desueti e su cui si può criticamente dibattere, ma della cui ricerca di un sentire onesto niente affatto antimoderno non è lecito dubitare, esprime degnamente la posizione di Francesco. Spero che ne scaturisca una discussione di cui sarei felice, anche in vista di un prossimo post in cui cercherò di chiarire il mio personale punto di vista sull'argomento. Un augurio a tutti di un proficuo 2008.
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Martedì, 10 luglio 2007
Francesco De Girolamo mi manda un'altra poesia, che pubblico volentieri. Non è, francamente, una delle sue migliori, ma questa è una opinione del tutto personale. E' però interessante per almeno due ragioni: la prima è che la normalità rimanda alla norma. E se è vero che la norma è la media di quanto accettato in una data comunità (nell'ambito ad esempio delle scienze linguistiche) allora è vero che la norma è diventata quella insensibilità dell'uomo moderno nei confronti del tragico di cui parla il testo, e quindi Francesco fa bene a denunciarla poeticamente (ma per fortuna la norma nasconde sempre un'opzione per altre possibilità). L'altra cosa è che questo testo può essere letto in chiave metapoetica, l'arso pianto che non scorga è forse l'ipirazione che brucia sè stessa, di fronte all'indicibile (che diventa impercettibile) del tragico, e anche la lingua depone le armi. E' un problema che certo non riguarda solo Francesco, ma qui allora la normalità assume l'accezione anche politica di "normalizzazione", in questo caso della poesia. Sarebbe un suicidio.
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Lunedì, 12 marzo 2007
Con Massimo Miccoli ci troviamo di fronte ad una poesia di testimonianza del quotidiano, concepita non per raccontare, pedissequamente, il proprio vissuto in versi, bensì per uscirne, per liberarsene, osservandolo con impietoso disincanto, come aspirando ad un salutare distacco antieroico ed antiretorico. La scelta stilistica di un’apparente assenza di stile, in una sua connotazione omogenea e palese, rimanda ad un’analoga esperienza, non letteraria, ma cinematografica, praticata soprattutto, ed in misura più estrema, nella “nouvelle vague” francese, che imponeva un uso della cinepresa abile proprio nel nascondersi; allo stesso modo, in queste poesie, la sintassi stilistica, i giochi lessicali, gli effetti di spiazzamento dell’andatura del verso, sono mimetizzati in un apparente tono colloquiale, in un sagace“understatement”, che li rende ancora più funzionali alla sua strategia poetica più intima ed insinuante. Una delle costanti tematiche dei testi di Miccoli è la visione del corpo come nemico ingannatore, da smascherare con l’ausilio della verità delle emozioni più elementari, quasi che il corpo stia qui a rappresentare la pseudo-scienza di un falso sé che tenda a contrastare la conquista di una consapevolezza del sé vero, dell’Io di un’anima diversa, contigua ad un Nulla luminoso, eletto a proprio viatico. Un liberatorio spossessamento dell’ingombro dell’Ego, in un percorso esistenziale e poetico di conquistata, “stoica” rinuncia alla lusinga di ogni illusione, scelta estrema che, lucida ed inesorabile, ci parla di anime esemplarmente diverse, cui si vorrebbe sempre più assomigliare. (Francesco De Girolamo)
I TESTI
Venerdì, 24 novembre 2006
Affronto la lettura dei testi che mi ha inviato Francesco con qualche patema d'animo. Perche' non e' semplice capire da poche poesie la personalita' di un autore e tuttavia viene il dubbio che gia' questa scelta voglia dire qualcosa, voglia da una parte essere emblematica di una produzione ben definita nel tempo, dall'altra voglia mantenere una riservatezza di fondo sul fare e sul pensare, come concedendosi poco per timidezza.
Ci si accosta a questi testi per un'apparente via facile, attraverso porte aperte che conducono a forme familiari e tranquillizzanti, a tutto un repertorio di figure e strumenti poetici che danno a queste poesie l'andatura regolare e ritmata di una partitura. Fitta la presenza di endecasillabi, con ricordi addirittura petrarcheschi o leopardiani ("io abito un abisso umido e vivo / e buio e caldo e alto e senza fine"); costante la percussione delle rime, vere (sento, vento; armate, disperate), false (mano, parlano), interne (inverso, universo) e delle assonanze, anche concatenate, e fitte (moto, vuoto, fuoco); evidente l'uso di forme retoriche collaudate come il polisindeto o la bella sinestesia di "Mentite spoglie" ("vedo i tuoi occhi chiusi che non parlano / e sento che le tue labbra non vedono"). Potremmo continuare, indicando ad esempio l'uso abile delle quartine o l'altrettanto abile spiazzante iperestensione del verso, ma il gioco tutto sommato e' facile e non faremmo altro che sottolineare la cultura poetica dell'autore. Il punto e' un altro, ed e' legato proprio a questa "familiarita'" in cui Francesco abilmente ci trascina. Si cede cosi' alla tentazione di leggere d'un fiato, di godere della musica e del ritmo, illudendoci, come accade spesso oggi in questa epoca incolta, che la musica ci sia dovuta. Ma questa porta aperta della forma nasconde una nassa, un'insidia: come pesci incauti arriviamo in fondo e ci rendiamo conto che questa poesia, come tutta la vera poesia, non ci chiede altro che di essere riletta con amore, compresa affettuosamente, ci chiede insomma quella empatia di cui solo il lettore di poesia e' capace, prima di poterci congedare. Poiche' oggi la forma chiusa o almeno codificata non e' piu' solamente una scelta stilistica, un canone o una prova di bravura. Ma e' anche una scelta ideologica, un richiamo alle radici, un utensile metapoetico, un significante (ma.naturalmente Francesco ha avuto la maestria, in testi qui non presenti, di esprimersi in altre forme, come il verso libero, pur con richiami sempre presenti alla tradizione). E' anche una metafora. Un hortus conclusus, un fuori/dentro che a volte impedisce di carpire il segreto dei frutti, a volte protegge chi coltiva. E protegge forse (anche con il ricorso a simboli) il nucleo di intimita' profonda che si scorge in queste poesie, che vuole dirsi ma non vuole darsi, cioe' svelarsi a pieno, sia esso (ipotizzo) nel rinvenirsi esposto, "doppio", umanamente contraddittorio e indifeso, posseduto di fronte al sentimento amoroso ("Mentite spoglie"); sia nel descriversi (tutto d'un fiato, in un unico periodo, si noti, che rende bene l'idea del gorgo) alla lacerante dolorosa ricerca di un nuovo senso che ponga fine al caos esistenziale ("Inverso"); oppure nel ripercorrere il mutare (forse) dei sentimenti e la disillusione dell'ideale (anche metaforicamente dura) attraverso il vocativo reiterato di "Sangue di pietra"; o infine (ma in maniera ancora piu' chiusa nella forma, connotata simbolicamente e con un dettato direi ermetico) nel dipingere il divenire (dei sensi, dell'amore, della vita?) in "Vaghi sorrisi", il testo direi di piu' ardua lettura. Poesia densa, quindi, riservata, esigente, raffinata e colta, sotto alcuni aspetti problematica da un punto di vista critico, ma capace di dare a un lettore non frettoloso, meditativo, simpatetico, una esperienza poetica di grande soddisfazione.
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