Giovedì, 11 ottobre 2018 a cura di SONIA CAPOROSSI - Marco Saya ed., 2018 Ricordo che diversi anni fa si parlava di mappature della poesia. Ah, quanto se ne parlava! La linea lombarda, la linea marchigiana, la generazione entrante, quella uscente, i territori paralleli...Sebbene già allora le mappe non portassero in alcun luogo - con una certa soddisfazione dei più borgesiani - oggi più che mai mi pare che l'orientamento sia un'arte difficile, se non appoggiandosi, ancora, a categorie o denominatori. (e poi, orientarsi in cosa? nella poesia in sé? nel reale ivi (se) riconoscibile? nel fenomeno osservato? nell'osservatore?) etc. Se l'orientamento è difficile non lo è tanto perché la poesia sia una giungla, quanto perché la si vuole spesso e quasi di necessità collocare e ri-collocare - spesso arbitrariamente - in ambiti e/o codici, meglio se impermeabili tra loro, e questo crea problemi, se non proprio di dissidio e opposizione, almeno di prospettiva e focalizzazione. Una opacità a cui si potrebbe porre qualche rimedio se intanto si considerasse la produzione poetica come una serie di oggetti (insiemi) intersecabili, un'ottica che almeno (forse) consentirebbe di capire non tanto la realtà di uno (o nessuno), quanto il punto di vista sul mondo di alcuni (o molti) anche diversi, e quindi analizzarne in maniera feconda le intersezioni e le osmosi, i problemi e le soluzioni adottabili e/o sviluppabili. Non sto parlando di ecumenismo, e nemmeno di una diversa antologia ([1]). Sto parlando della necessità di ricostituire il peso della poesia (il peso anche sociale e politico se volete) come strumento/funzione di indagine e comprensione del presente. Perché nel frattempo, come in ogni "litigio" o dissidio che si rispetti, il terzo gode. Ecco, questo sì che è un problema interessante. Cioè chi/cosa possa essere, nell'articolazione del presente (o dell'ultracontemporaneo, per dirla con Sonia) questo tertium. Sarei orientato a pensare che esso sia lo sfuggente convitato di pietra, quel camaleonte che perònon si mimetizza ma viene mimetizzato proprio da chi lo osserva, con uno strano fenomeno ottico. Sto parlando del reale complesso, di quella complessità che è un problema seriamente percepito da qualcuno (ad esempio da uno almeno degli autori qui presenti) ma che è ben lungi dal trovare una soluzione "artistica". E che allo stato attuale produce - spesso - un intenso lavorio sul "come", soprattutto sul linguaggio come copia e manifestazione iconica dell'indicibile, una neolingua come pallida rappresentazione di un mondo/potere di comunicazioni verticali. Il rapporto, per fare un esempio brutale, mi pare - qualche volta - quello tra un bambino con le sue lallazioni e un mondo di adulti che impartiscono ordini. C'è insomma un po' (molto) meno attività sul "cosa" si aggira (al di là del groan individuale, anche se spacciato per lamento collettivo/generazionale) all'interno dell'odierno reale complesso, che è davvero, esso sì, ultracontemporaneo, perché in ultra-divenire( [2]). Il linguaggio, oggi, mi pare abbia (ed è qualcosa che riguarda anche la polis) due direzioni principali, una di informazione, l'altra di deformazione. Una dicotomia che va spiegata, a cominciare dal primo braccio, la cui aria "positiva" non deve trarci in inganno. La prima direzione, infatti, è quella della semplificazione, della reductio ad unum, dello slogan, ed è soprattutto politica, ed ha la caratteristica di essere in-formante, non necessariamente in aderenza alla realtà, anzi come riscrittura funzionale della medesima, e con funzione estetica nulla. Paradossalmente è ciò che più si avvicina al grado zero di Barthes, alla scrittura bianca, non ovviamente quella di Camus a cui il filosofo francese faceva riferimento, ma una scrittura in cui la riduzione della forma si combina, ancora una volta paradossalmente, con l'instaurazione di un mito. Una scrittura insomma non tanto astorica quanto alogica. L'altra direzione, restando nel campo di questo libro, è quella della complessità, nel senso a cui accennavo prima. Ma qui, nel momento in cui, di fronte al complesso, l'esperienza individuale si restringe e arretra (cioè quando e perché non riesce a diventare esemplare e - quindi - letteraria), emerge una "inclinazione alla deformazione poietica del dicibile... un concetto comune di parola informe" (Caporossi, corsivi dell'autrice). Già, il dicibile. Io prima ho parlato di "indicibile", e mi viene il dubbio che siano sinonimi, in questo contesto. E che siano entrambi sinonimi di "infinito", ovvero un ammasso stellare di materia che può o non può essere detta in poesia (se restiamo in questo campo), in entrambi i casi fino alla noia. Un materiale poetico atomizzato, in cui ogni frammento percepibile può essere potenzialmente una scintilla testuale, un mini-bang espansivo, basta che l'artista trovi, magari una volta per tutte, il suo modus, o la sua "forma informe", o come si diceva una volta il suo stile. Ora, la buona notizia è quando - nella migliore congiuntura - riesce a verificarsi quella "intuizione aurorale" a cui si riferisce Caporossi nella sua prefazione, ovvero "la presa di coscienza del paradosso sorgente dalle multiformi modificazioni del nesso tra segno e significato, propria dell’esperienza poetica per eccellenza" (appunto quella aurorale). Tralasciamo il carattere "raro" e empirico che promana da questa definizione che richiama alla mente Benjamin (e Baudelaire ancor prima), ma capisco bene e apprezzo l'intento critico (e la proposta) di Sonia di ricondurre, ove si verifichi, il carattere (l'alloro) di unicità (l'aura di Benjamin, quindi) dal capo dell'opera all'intuizione del poeta (è l'idea, il concetto, del poeta che viene ad assumere la sua unicità prima dell'opera). La cosa importante, sotto questa prospettiva, è che, forse proprio per il suo empirismo, il risultato può essere - davvero - "sperimentale". Il che, in parole poverissime, significa davvero spostare in avanti certi limiti (espressivi, comunicativi, interpretativi) che sono gli stessi, fondamentali, della poesia e dell'agire artistico in genere. La notizia meno buona è quando (in alcuni casi) ci coglie la sensazione che la parola informe da una parte sia - per usare un paradosso - una "facile via difficile". Ne ho già parlato brevemente, ma voglio essere più preciso. Parlo di metodo, di modalità e/o maniera, anche autoalimentata; di estetica del multiplo, di cliché come arte ecc. (a margine: il cliché come arte è (sarebbe) già un buon approccio al complesso, se non si limita ad essere un atto artigianale (o puramente concettualizzato) con cui si prende un qualsiasi frammento del reale - soggetto quindi di/a casualità - e lo si pone in un frame [stampo, forma, cast] pre-parato). Parlo di una postura, o del rischio di essa. Una cosa che nessun poeta ammetterà mai, ma è la riproducibilità (sempre per restare a Benjamin) della forma (per quanto informe), la collocazione in un confortevole punto di quiete, una cosa che Sonia può comprendere perché non dissimile da una malattia che lei chiama "esordismo", c'est à dire la riproduzione dei temi e moduli uguali a sé stessi, per una sorta di confortante conformità a qualcosa di primevo che - aggiungo - sembri aver raggiunto una propria "economia" funzionale. Oppure, dall'altra parte, come dicevo all'inizio, che l'informale mimetizzi l'indicibile (o quel che si può dire di esso) confondendolo con il suo essere "naturalmente" oscuro (che è in sé una categoria nobile - e indagabile), (ri)calcandone il gradiente di impenetrabilità ecc., che sia quindi una parola - certo involontariamente - "organica", come si diceva una volta, a un contemporaneo (ultra o meno) la cui complessità non è certo governata dal poeta ma che il poeta, a mio avviso, deve tentare di penetrare, senza rimbalzarci sopra come un sasso su uno stagno. Cosa, lo ammetto, non facile, ma che rappresenta una sfida per il futuro. Inutile dire a questo punto che questo libro antologia prende le mosse da un assunto implicito, che cioè il punto di partenza (di questa mappa o di altri itinerari) sia la poesia di ricerca o sperimentale - per quanto qui solo nella sua veste semica e lineare - in ragione del suo accreditamento di stato dell'arte avanzato della poesia (un accreditamento, per inciso, a volte un po' "auto-") e per conseguenza più aderente al contemporaneo "ultimissimo" o "iperattuale" (Caporossi) di riferimento. E forse questo libro può apparire come un repertoire linguistico e di competenze, di fatto centrato su uno specifico. Ma l'assunto della curatrice deve essere accettato, pur con i suoi rischi e i suo punti critici. Non solo perché della poesia di ricerca non c'è, come invece sostiene qualcuno, una egemonia perfino ridicola da supporre e pertanto essa non può che essere considerata un territorio "coltivabile" al pari di altri, soprattutto se si cominciano a respingere rigidità di canoni, codici, paradigmi; ma anche per il fatto che, al di là di tutte le considerazioni fin qui fatte, questo libro è prezioso e meritorio, perché offre non pochi spunti di dibattito (ce n'è un gran bisogno) e perché mi pare non voglia affatto essere un punto di arrivo. Ma soprattutto perché ci leggo una ambizione di fondo, che è quella che dovrebbe avere una critica seria. Ovvero ciò che credo la critica oggi, se ancora ha una funzione, debba fare: concorrere ad identificare non linee ma percorsi conoscitivi od estetici (che in arte è lo stesso), arrogarsi il diritto di "inventare" o imporre scoperte, argomentandole e difendendole, ma soprattutto di rinvenire snodi, punti di frizione, articolazioni, percorsi non battuti, indicando sentieri apparentemente invisibili. In questo sì "impura", o al contrario totalmente pura perché il suo lavoro non è più trovare il "buono", o giustificazioni plausibili al lavoro di questo o quello scrittore specie se "difficile", o "nuove ontologie", che è una cosa che fa ridere i polli. E' semmai quello di trovare idee, o "concetti", (e quindi fare un "atto di creazione" per dirla con Deleuze). Mi pare che Caporossi sia decisamente orientata in questo senso. E tuttavia, se il legante è quello che individua Sonia, ovvero di un "potere autonomo e autotelico della parola" che può svolgersi fino al "raggiungimento del livello informe della parola (stessa), condizione fluttuante in cui il senso si concede alla comprensione, di volta in volta, nell’atto del suo stesso farsi", non so se questo può bastare. E' in primis quella "condizione fluttuante" che mi fa pensare che racchiuda in sé un'alea e che mi fa temere una scrittura/guscio di noce alle mercé di una brutale corrente, per dirla con Shakespeare. E poi forse si tratta - forse - di un problema categoriale, un ambito in cui si possono far confluire anche troppe esperienze, anche decisamente contraddittorie, come è successo nelle arti plastiche e figurative con l'informale, che comunque possiamo considerare morto già alla fine degli anni Novanta. E tuttavia, ancora, questo lavoro ha in sé un elemento fecondo ulteriore (ma non involontario, ultroneo). In realtà, cioè, questa antologia, i cui autori - come annota Caporossi - sono "ondeggianti sul filo pericoloso che separa la natura crassamente lirica della poesia dal filone sperimentale o di ricerca", potrebbe con qualche giovamento essere osservata da una prospettiva verticale [longitudinale] che però non costituisce necessariamente un confine, secondo il concetto che dicevo all'inizio, tra aree in cui la parola informe è sì - per una parte rilevante - forma e medium, ma che poi veicola, a me pare, cose diverse, che mi sembra evidenzino, almeno qui, almeno due direzioni, ed è questo che mi interessa. Perché a un certo punto bisogna pur chiedersi, criticamente, in relazione al loro rapporto con la realtà, a cosa pensano davvero i poeti, qual è la loro spinta iconica/eidetica ad esempio, cosa immaginano davvero che io (anche come lettore-critico o anche empirico) legga o creda di leggere. Insomma che cosa vogliono dire. Giacché si tende, succede anche a me, ad accettare l'offerta linguistica dell'autore, specie se sub specie 'oscura/difficile', come l'oggetto [prodotto] "finito" del suo lavoro. Ma se si va ad analizzare davvero il precipitato, se si comincia a vedere cosa c'è dentro, le cose che ci sono dentro, allora appare evidente che in quella "oscillazione" citata (e che forse Sonia non ha voluto approfondire) c'è un punto nodale. Da una parte, in questo libro, c'è l'informe in cui davvero abita e agisce il "potere autonomo e autotelico della parola", ma nel senso che tende ad arrogarsi non tanto un potere di interpretazione (o forse di invenzione) del reale costituendolo con il verbo, quanto il diritto di contemplazione di sé, nel proprio farsi. Il quale farsi non è detto che sia regolato, come dice Sonia, dall'analogia intesa come "capacità logica (e ancor prima, prelogica) di porre nessi metaforici tra l’immagine poetica e la semiosfera esperienziale di riferimento". Rimane infatti il problema, tanto per capirci, di chi debba avere questa capacità logica, se l'autore, il lettore o entrambi. Come precondizione, immagino. Dall'altra parte di questo libro la parola informe (il cui grado di "informità" andrebbe comunque stimato, perché variante) mi pare che sia materiale plastico di rappresentazione, cioè ambisca quanto meno a rappresentare "ad arte" qualcosa che non sia solo la propria deformazione (seppure come imago di un reale difficile da penetrare). Cioè ambisca ad usare il linguaggio non solo in senso "strumentale" (come uno strumento risonante [autopoietico]) ma anche (o soprattutto) come mezzo conoscitivo o cognitivo, pur nel suo "farsi" dinamico (che vuol dire tendere a una innovazione della capacità espressiva della lingua). Su questo versante, a grattare un po' l'informe, poi il lettore trova la sua "soddisfazione", ammesso che in questo sistema il lettore sia contemplato (sia detto senza ironia: ad es. in molta arte contemporanea il fruitore, specie se passivo, non è affatto considerato come "variabile" componente del processo). Il qualcosa che sembra emergere a questa "longitudine" è un frammento di quella realtà (tralasciamo per il momento se complessa o meno), una parcella che possiamo meglio ascrivere ad una "semiosfera esperienziale", che però includa, perché no?, chi legge. Per capire meglio basta accostare i testi di autori - per fare qualche nome - come Bellomi e De Francesco, o Scarpa e Garrapa, o Porsia e Leonessa, o Tripodi e Riviello. Con le relative sfaccettature e con la cautela del caso, mi pare che lo sguardo, l'attenzione creativa siano orientati in due diverse direzioni, che all'inizio in sintesi avevo definito del "come" e del "cosa", ma che sono più propriamente prospettive, del linguaggio sul linguaggio e della lingua sulle cose. Che non sono necessariamente in contrasto, né, è ovvio, decisamente separabili (ammesso che debbano esserlo). Sono, nella migliore delle ipotesi, due campi di lavoro (ma non sempre entrambi di indagine). Il limite del linguaggio risiede in quello che dice: possiamo deformarlo alla ricerca di un senso aurale che confidiamo esista indipendentemente da noi e che sia di per sé in una qualche relazione con la realtà, ma credo che poi - senza farne una sovrastruttura - dobbiamo decidere in che direzione, verso quale indagine, su quali "oggetti" orientarlo, con tutta la "indisciplina" - per rovesciare un concetto foucaultiano - che compete all'arte. Poiché l'ultracontemporaneo, inteso come individuo oltre che come tangenza del presente, non può , al di là della sua definizione, che essere contenuto con quel reale complesso con cui anche come poeti dovremmo fare i conti. Come se fosse un enorme ipertesto. Io credo che la direzione sia quella. (g. cerrai) [1]
Parlerei - più che di mappe o se preferite di antologie - di
campionamento, anzi proprio lo suggerisco ai prossimi curatori di
raccolte. Campionamento di molte cose, se volete
anche nel senso sonoro e/o musicale del termine, anche in ragione
di una sempre maggiore smarginalizzazione del fare poesia (ammesso
che un margine esista) in territori, come quello della poesia
orale, nei quali il testo si smaterializza e ri-materializza nella
voce e dove il sample, specie testuale, non è infrequente.
(diciamo anche che il testo perde un po' il suo statuto, non solo a
favore della voce ma anche del gesto - e non sempre la poesia ci
guadagna). In margine: fluidità della poesia, digeribilità della
poesia (ammesso che sia un passo avanti), contro rigidità del mezzo
testuale, per sua natura poco spettacolare. Ma l'esempio
che ho fatto non deve essere limitante, anzi è solo un aspetto, uno
tra molti, della questione.
[2] Definire l’ultracontemporaneo acquisterebbe maggior significato se indicasse anche una svolta, oltre che una semplice fotografia del (ultra)presente. E poi, ultrac. in relazione a cosa? Che poi un point de repère, un rapporto col tempo, se vogliamo uscire dalla riserva della (in)comprensione del reale, dovremmo pure avercelo. L’ultracontemporaneo è destinato ad essere passabilmente [il] presente, per poi diventare semplicemente moderno, nella migliore delle ipotesi (e mi pare di essere d’accordo con I. Testa, citato in prefazione). E tuttavia è molto utile, se aiuta almeno a comprendere il presente [l'attuale], l'aria che tira. E se l'analisi dell'ultrac. evita la secca di somigliare troppo a quei prodotti open source che vengono forniti "as-is", cioè come sono, senza alcuna garanzia o ipotesi di sviluppo (to-be). Ma è evidente che bisognerà ancorare l'analisi a qualcosa d'altro, che non sia legato al transeunte. Per esempio ai fenomeni che scuotono l'oggi, che come sappiamo in Italia non riescono a trovare gran spazio (preciso: non sto parlando della cosiddetta poesia civile). Continua a leggere "" Martedì, 7 marzo 2017Enzo Campi - ex tra sistoleEnzo Campi - ex tra sistole (dieci sequenze per un poema irrisolvibile) - Marco Saya Editore 2017
Dieci sequenze per un poema irrisolvibile, dice il sottotitolo di
questo libro. E', fin da qui, la denuncia di un'aspirazione (e di una
ispirazione) tesa alla realizzazione di una completezza organica, di una
struttura (che la forma poema esemplifica); e la consapevolezza della
difficoltà di attingere a qualcosa di concluso, sia in termini formali
sia nel senso dell'esplorazione della materia poetata. Non è un limite,
è - direi - una coscienza. In effetti niente impedisce a questo libro di superare sé stesso, la propria carta, il limes convenzionale
di una pagina finale. Perfino chi legge lo sa, giungendo alla pagina
sessantanove, che tra l'altro termina con un unico punto interrogativo,
acuminato e ultimativo. E ora?, si domanda il lettore. E tuttavia il
viaggio è stato agevole più di quanto avvenga in quasi tutte le opere in
cui si pratica una scrittura genericamente definita di ricerca. Voglio
dire, non si attraversa, almeno non più di tanto, una selva oscura,
aggrottata, superciliosa. C'è anzi in questo libro dell'ironia, a volte
del sarcasmo, e un' infinità di incastri sinaptici, di agganci
mnemonici, di sottili riferimenti culturali, di trasferimenti verbali
per assonanza e consonanza, di metafore cognitive stimolanti e così via.
Ed una accennata architettura teatrale (prologo, parodo, stasimo, coro,
ecc.) che sembra preludere, o meglio suggerire, invitare, a una
fonazione, interiore o palese, a una messa in scena di tutto questo
materiale verbale, nella quale il lettore si potrebbe con qualche
soddisfazione cimentare (e in effetti il suono in questo libro ha una
rilevanza notevole). Certo ha ragione Giorgio Bonacini (nella
postfazione) ad avvertire il lettore che quella di questo libro non è
una lettura comunemente intesa (che cioè, dico io, si può permettere
qualche rilassatezza o disattenzione, tanto poi...), perché necessita di
"pratiche interpretative significanti", anzi "occorre leggere come se
fossimo noi a scrivere". Insomma, dice Bonacini, "se (...) non si fa
questo sforzo benefico di aderire a ogni articolazione, scrutando e
auscultando anche i minimi tratti del testo, l’opera di Enzo Campi la si
può certamente leggere, ma al minimo delle sue potenzialità
semantiche". Mi rendo conto che c'è un'apparente contraddizione con
quanto ho scritto prima, dando forse l'impressione di una facilità di
lettura. Be', questa non c'è, perché bisogna, secondo me, non tanto
mettersi nella testa di Campi ("leggere come se ecc."), quanto cercare
di capire il più possibile il suo sistema metaforico e di pensiero
(compresa la loro reinvenzione), là dove "rimanda perpetuamente ad
altro, ovvero a qualcosa che non appartiene al sistema di riferimento e
di significanza preso di volta in volta in considerazione" (Sonia
Caporossi, nella prefazione).
L'obbiettivo di Campi, proprio nel senso di un centro da attingere
anche con qualcosa di perforante, è certamente il linguaggio. Ma non il
linguaggio come territorio di scorribande, come materiale torcibile a
piacere (per quanto Campi al bisogno non si tiri indietro in questa
pratica), quanto il linguaggio o la lingua come arnese usurato,
centripeto, ricorsivo, discutibile, egolalico, che si autorigenera in
luogo comune, che si autocertifica come dominante e come langue omologa.
Che tende ad un uso "economico", non dispendioso, produttivo e (quindi)
politicamente conservatore. Che perciò, secondo Campi, è intimamente
antipoetico e antiartistico, ontologicamente manierista, incapace di
articolare cioè una definizione del reale che abbia a che fare con la
bellezza. L'obbiettivo è anche il materiale con cui si cerca di
raggiungerlo, unitariamente, la freccia è insieme il bersaglio e chi
scocca (inevitabilmente Campi mette in discussione anche la sua "resistenza" alla lingua, i suoi propri
punti di rottura, soprattutto nella perlustrazione dei limiti, che mai
vuole saggiamente superare, tra dicibile e indicibile, comunicabile e
incomunicabile). E' un abile gioco di equilibrio, un procedere su una
corda tesa di parole, molte delle quali deviate e metamorfizzate in
altre per contiguità, per assonanza, per una eterodossa parentela di
sensi e suoni, per spoliazione di significati, per de-nominazione,
ovvero per rottura dei legami tra parola e oggetto ecc.; e questo
avviene non solo sul singolo vocabolo ma anche, spesso, sulla catena
sintattica, sulla spezzatura (per la verità a volte un po' capziosa)
della frase. C'è poco di "comodo" e di confortevole in questa modalità
espressiva. Il sistema metaforico di Campi a cui alludevo è in realtà
una supermetafora del linguaggio, da una parte come corpaccio che deve
essere purgato con la necessaria "crudeltà" (e qui si rimanda a uno dei
dedicatari del libro, Antonin Artaud. L'altro è, ça va sans dire, Emilio Villa), dall'altra come ouroboros, elemento
primigenio che si consuma ma per la cui rigenerazione è lecito sperare e
lottare. In questo senso il lavoro di Campi sul linguaggio (qui
verbale, ma va da sé applicabile - e in effetti applicato - a qualsiasi
altro linguaggio artistico) non è meramente clastico, frammentante, ma è
plastico, riformante, dato che qui "da ogni disgregazione si forma uno
scarto di senso" (Bonacini, rilevando in realtà uno dei caratteri
"forti" della poesia in genere). Un processo di cui Campi dimostra di
avere una piena coscienza, anche quando sembra svelare (come ricorda
Caporossi) delle meccaniche, "una dichiarazione di poetica e di
metodologia compositiva" come in questo passo "dato un incipit
ricordarne l’ / essenza e usarlo come / collante come / legante ogni
volta che la / scorta di senso diviene / scarto a delinquere”,
domandandosi subito dopo, ironicamente “ah! / è questa la / regola / ?”.
Certo che no, almeno per quanto lo riguarda (mentre per altri forse sì,
e andrebbero verificati i risultati, alla fine). Molto più
probabilmente Campi crede in altro: "la / regola parla chiaro / bisogna /
copulare avec la / barbaque / raspando con / ruvide lime i /
residui di / senso di / messe mai / celebrate e / pure sublimate in /
pomposi baccanali". In altre parole bisogna affondare le mani e il corpo
intero nella carne viva, nella materia bruta, raschiandola all'osso,
rinnovando una non superficiale comunione poetica con essa. E' evidente
la distanza tra la prima e la seconda "dichiarazione": lì il linguaggio
genera le cose e sé stesso (non necessariamente rigenerandosi), qui la
materia genera il linguaggio (quel linguaggio) con cui è
possibile descriverla. Una delle più impegnative dichiarazioni di
intenti che abbia avuto occasione di leggere da un po' di tempo a questa
parte. (g. cerrai) Continua a leggere "Enzo Campi - ex tra sistole" Giovedì, 12 maggio 2016Sonia Lambertini - Danzeranno gli insettiSonia Lambertini - Danzeranno gli insetti - Marco Saya Edizioni, 2016
Gli insetti danzano (anzi danzeranno) una giga sul cumulo di terra che
ci seppellisce, alla fine di "una maledetta partita". E' questo il tema
di fondo nel libro di Sonia Lambertini, in cui la morte è presenza
costante, in diversi aspetti che cercheremo di vedere. Se nella
prefazione Mario Fresa ci dice che qui abbiamo a che fare con "l’angoscia irreversibile di uno scivolamento continuo nelle tenebre della nullificazione", in cui il poeta è "martire-testimone
del proprio auto-annullamento", ci dice altresì che questa dolente
visione "non giunge ad una sintesi finale". Potrebbe essere altrimenti?
L' indagine sulla morte è, soprattutto letterariamente, destinata da
sempre al fallimento, poiché si scontra con l'inconoscibile, se la si
guarda filosoficamente, o con il limite dell'immaginazione. Oppure -
d'altra parte - si frange contro lo scoglio della paura di andare
"oltre" (oltre ad esempio un corpo "in scadenza"), che impedisce
all'artista una vera catàbasi, una "discesa", a mio avviso fattore
essenziale per una buona poesia (v. QUI).
Mi pare che Sonia Lambertini prenda
atto di un sentimento attuale (diverso cioè da quello che si poteva
verificare in passato), ovvero quello di una decadenza del corpo che è
specchio di una decadenza più generale, che è costante e nello stesso
tempo "istantanea" (tanto che "misurare l’attimo / è il senso del mondo, / un’azione libera e indipendente"), così come l'esistenza stessa, dispersa in un presente dilazionato. La
morte oggi è meno caricata di spiritualità, in una società forse
intimamente individualista e agnostica, diventa evento "finale", un nec plus ultra, delle
colonne d'Ercole oltre le quali, in un tempo così senza speranza come
il nostro, è impossibile riporre aspettative di redenzione. Difficile
guardare "avanti", per così dire, senza guardare contemporaneamente
indietro ("Due passi in avanti / conto fino a tre / mi guardo alle spalle / e vedo che non sono / mai
arrivata più in là del sei"), rischiando, come la moglie di Lot,
l'impietramento di fronte alla constatazione del nulla. La morte è
un'esperienza ineludibile e insieme un'aporia, è qualcosa -
paradossalmente - che conosci in un certo qual modo per sentito dire,
poiché "hai visto la tua fine / proiettata decine di volte / sul
telo bianco degli altri". Sì, è un gioco d'ombre (anche come fantasmi),
di proiezioni (anche in senso cinematografico, quel "telo bianco"), di
destini incontrollabili affidati a gesti apotropaici, scaramanzie ("sono nelle mani / del piede destro / quando tocca terra"), è un terrore che ci tiene in vita ("senza la paura non so chi sono", ripete Lambertini, e del resto, dice Mario Fresa "le parole [di un poeta] giocano, in fondo, sempre e soltanto con
la morte"). Sonia, come artista, non rimanda il pensiero, in un certo
senso se ne assume la responsabilità, anzi può permettersi di ammonire
("Vorrei dire / a tutti gli umani / con l’aria importante [...] che / l’aria sotto terra non c’è / tantomeno gli aggettivi..."), il tempo non aiuta ("Chi ha detto che c’è tempo / è uno sporco bugiardo, una spia"), è effimero e fugace come un fiore di ciliegio, simbolo principe di caducità ("Sul ramo di ciliegio / i fiori hanno il capo bianco / in aprile, ho il veleno in bocca"). L'abitante tipo di questo terrain vague,
di questa pre-morte fredda, avrebbe potuto essere (o almeno Lambertini
avrebbe voluto che fosse, ci aveva pensato) lo Strauch di Gelo di Thomas Bernhard, citato in una purtroppo troppo breve sezione del libro (Frammenti per Strauch),
composta da un "prologo" e sette testi di pochi versi, sintetici e
tuttavia molto interessanti. Morte o assenza, dunque, cioè un'altra
condizione nella quale la comunicazione è o con un'ombra o senza senso
(proprio inteso come direzione verso cui orientarsi). Le ombre possono
essere "vecchi figuranti" le cui ossa però molto materialmente
scrocchiano, come in una Totentanz barocchetta, una danza macabra che si
reitera ogni volta in cui il mondo materiale si specchia con il nulla a
venire, perdendo miseramente il confronto; o quelle in cui comunque,
come dice Fresa, "si inciampa" ogni giorno, i dubbi, le inquietudini, il
"gioco delle parti".
Eppure in tutto questo c'è poco dell'angoscia
così topica in tanta poesia attuale ma certo anche poco della
meditazione foscoliana - i tempi cambiano, non ci sono più urne dei
forti che accendano l'animo a egregie cose, non ci sono più nemmeno le
egregie cose - direi piuttosto una maniera di affrontare la questione
come a testa alta, con l'individualismo esistenziale quello sì così
diffuso oggi, e un certo piglio che si riflette anche nella scrittura,
asciutta, precisa, corrente, immediatamente decifrabile e tuttavia
capace di molte belle sfumature, specie nella sesta sezione, quella che
decisamente preferisco e da cui ho tratto alcuni dei testi qui
riportati, in cui il tema, pur forte e universale, non perde la sua
minacciosa presenza ma decanta in accenti a tratti lirici, più
profondamente personali, intimi, "veri". (g. cerrai)
Continua a leggere "Sonia Lambertini - Danzeranno gli insetti" Giovedì, 30 luglio 2015Poesie d'estate - Otto poeti letti da Rita Pacilio Il tocco abarico del dubbio – Angela Caccia – Fara Editore, 2015
Molta poesia ha interesse a trasformarsi in un dialogo vivo e profondo tra le persone e le cose attingendo alla natura e ai valori esistenziali. I
contenuti, quindi, diventano fatti tangibili che rievocano la memoria cogliendo sentimenti e necessità. Alcuni testi poetici passano dalla riflessione alla
narrazione in modo ininterrotto così come accade per Il tocco abarico di Angela Caccia. Il contributo ideologico della silloge, divisa nelle
cinque sezioni, approda in un universo poetico che sfida le tendenze creative, ma mira a evidenziare la propria fedele visione del mondo/poesia con
l’utilizzo armonioso e intimista della voce ritmata/musicale. La scelta del racconto, in quanto movimento, consente a chi versifica di avere una locazione
di privilegio rispetto a chi legge: infatti l’autrice cristallizza ciò che è mutevole nel nostro tempo, affinché tutto possa essere accessibile all’essere
umano moderno. Tutto è incarnabile: le forme comunicative del dubbio corteggiano il grave peso del silenzio e della solitudine esistenziale e molto spesso
ciò accade perché l’essere umano vive l’orfanità o l’abbandono del Mistero.
Fantasie Lo stesso copione: piove. È un tempo che strina a puntino le piume e poi le tarpa serrate le porte che il dolore non vada oltre. Su di lui come sciacalli un girotondo di mosche. Lo sguardo su una cartolina profana il reticolo di falso mi perdo nel notturno di un paesaggio una carezza la colatura della sera – quant’è quieta la luce di una finestra accesa! – sono io quell’orma nel vicolo cieco? io l’ammasso di venti senza scampo? Anche qui ulula un randagio prega la sua luna resta la notte. * E non è la mia pena a mia madre C’è un paese in me che non conosci periferia fessure di cielo si dimena un vento di conchiglia che maledice le sbarre. Dove cadi nelle tue secche, cosa popola la mente limosa, difficile raggiungerti esserti mano voce sguardo si scioglie il grumo – l’ultimo che ti tempesta – e non è questa la mia pena. Sei il verso già scritto che ritorna, un’ossessione la mia compagna di viaggio ma non è la mia pena. Nell’ultima stesura del racconto la tua penna scrive a tratti, nel solco bianco le piume di un’aquila che muore e non è la mia pena chi reggerà fino a lì il tuo passo? * Scemerà il vento non riempirai più la finestra cadranno le mie sbarre sarai altro altrove nell’incavo di mani più grandi (Angela Caccia è nata e vice a Cutro (KR). Tra i concorsi vinti: Piazzetta (Salerno), Siracusa, Feile Filiochta Internationale Poetry Competition 2003 (Dublino), Fiurlini (Olanda), Colapesce 2012 (Messina), medaglia Presidente Repubblica al premio Insanamente 2012 (Rimini), Convivio 2012 (Giardini Naxos). Nel Fruscio Feroce degli ulivi (Fra 2013, prefato da Davide Rondoni, ha vinto il Premio Massa Città fiabesca e il Concorso Città di parole Firenze; II class. al Premio Pascoli Barga; III class. ai Premi Di Liegro 2013 e Camposampiero 2014). Poesie della fame e della sete – Francesco Iannone – Ladolfi Editore 2014
Un buon libro di poesia non ha età perché dialoga continuamente con il passato e con il presente e sicuramente anche con il futuro. Un buon libro di poesia
ha diverse esistenze perché riesce a delineare differenti tratti di generazioni e sopravvive alle idee, alle immagini. Ecco cosa accade quando la poesia è
viva, sorprende, è forza espressiva della parola, è ‘un’operazione interiore’ (C. Mitosz). Francesco Iannone nel suo libro dal titolo Poesie della fame e della sete – Landolfi Editore 2014, impiega robusta immaginazione per narrare il mondo. L’autore tratta la quotidianità
domestica e gli accadimenti familiari con meditazione e vitalità stilistica ora surreale, ora sacrale, quasi in modo fanciullesco, ma non puerile, come a
voler entrare in contatto intimo con lo stupore, con la polpa più pura delle cose, così come solo la nervatura dell’animo del poeta può fare. Le intuizioni
estetiche, i guizzi poetici, il verso essenziale hanno il potere di far trasformare gli oggetti e le persone: noi stessi diventiamo materia primaria del segreto, della visione che lavora nella mente del poeta. In quest’opera prima, l’arte realizza le proprie premesse e le svolge nella maniera più
vera, piena.
Perché solo non morire conta in quest’aria provvisoria d’autunno che accarezza gli alberi e poi li spoglia come fossero una donna bella.
La resistenza al nulla è una lotta che lascia ferite e tagli è un labbro squarciato da un pugno è un figlio espulso da un utero contuso.
Ci sono case che accolgono chiunque e finestre che restano chiuse per sempre. Imito il crollo di un tetto sconfitto dal peso il laccio del vento stretto intorno al collo delle foglie imito il sole disceso a far meno freddo l’inverno a vegliarlo in silenzio nel sonno.
Tremare è utile, dici, conviene, lo documentano le cose tutte contratte in attesa dell’estate.
*
Ma qui, in questa vita, dimmi se il colpire del vento significa qualcosa se il volteggiare di un uccello nell’aria indica una via e il sanguinare di quell’albero ferito da un auto all’improvviso perché non lo sana questo primo sole estivo?
Dimmi, ti prego, se infine tutti insieme partiremo e nei sedili stretti ci terremo le mani come a stringere un patto un fiore morto che riprende a respirare da solo.
* Chissà se per sempre avremo la disponibilità dell’erba a accettare un peso la gioia dell’uccello sceso a baciare la terra mentre piroetta in cerca di cibo.
E poi chissà se un giorno guariremo da questo male che non placa, non perdona, se ancora con le unghie gratteremo le ferite vecchie fino a farle sanguinare di nuovo se pure ascolteremo gli alberi cantare e i gerani dai colori vari sorridere a primavera.
Chissà cosa genera un seme e poi perché quel fiore muore, così, senza un motivo, senza una ragione?
(Francesco Iannone è nato a Salerno nel 1985. Suoi testi sono apparsi su numerose riviste, fra cuiClanDestino, La Clessidra, Italian Poetry Review e Gradiva. È incluso nell’antologia La generazione entrante. Poeti nati negli anni ottanta (Ladolfi, 2011, a cura di Matteo Fantuzzi, nota critica di Massimo Morasso). Ha pubblicato
la silloge Pietra Lavica sulla rivista Poesia, introduzione di Maria Grazia Calandrone. Poesie della fame e della sete (Ladolfi,
2011, 2012, 2014, premio L’Aquila opera prima, finalista premi Beppe Manfredi e Penne) è il suo primo libro. Collabora con la rivista Atelier). Continua a leggere "Poesie d'estate - Otto poeti letti da Rita Pacilio"
Scritto da G.Cerrai
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10:54
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Lunedì, 10 novembre 2014Giulio Maffii - Misinabì - Marco Saya Editore 2014
Il mito è la distanza dai morti. Anche la cultura, a pensarci bene: noi
sappiamo cose che loro non hanno più bisogno di sapere, e inoltre
imparare è un modo di impossessarsi del tempo che scorre, una
pre-occupazione. Anche la poesia lo è, tutto sommato. Lo dico perchè mi
sembra che un po' di queste cose ci siano, sotto traccia, in questo
libretto di Giulio Maffii, venti poesie, uscito di fresco. In cui ritroviamo certo molto di quanto mi era parso di vedere nel suo L'odore amaro delle felci (v. QUI), tanto che anche per questo libro mi sentirei di ripetere quanto dissi allora: "Per
Maffii il discorso poetico è eloquio, nel senso più nobile del termine.
Esplicitazione cioè di un pensiero che, prendendo le mosse da quelle
(apparentemente) semplici constatazioni che solo il poeta sa
cogliere, egli sviluppa con una lingua articolata e ricca che indica al
lettore significati ineludibili e insieme ne suggerisce altri più
segreti". Tuttavia qui mi pare che ci siano meno constatazioni fattuali e
ci sia un di più di "esoterico", se così posso esprimermi, che
l'articolazione del pensiero, qui essenzialmente una particolarissima
meditazione sulla morte, sia orientata a un colloquio con
sé e con chi non appartiene più a questa realtà. E nello stesso tempo,
però, questo colloquio deve essere in qualche modo mediato, distanziato,
in altre parole "esorcizzato", per mezzo della potenza apotropaica
della poesia. Ecco quindi che il mito, come dicevo all'inizio, serve, il
mito citato e, meglio ancora, il mito creato poeticamente come
personale elaborazione e rielaborazione dell'autore (ma in questa
creazione, come ovvio, non si può prescindere da quello che si sa,
dalla nostra cultura, appunto). In fondo, quello che serve con i morti,
per confrontarsi con loro e con il mistero che rappresentano - ma
dalla giusta distanza -, è una speciale forma di galateo, magari quel
"telaio dei riti quotidiani" di cui scriveva Maffii ne L'odore amaro delle felci.
Devono per esempio essere nominati con cautela, devono essere
alloggiati, anche poeticamente, in un "sotto" ("I morti dico i morti
perché stanno chiusi"), un "sotto" parecchio laico, anzi classico (non
ci sono "cieli" da attingere in questa poesia), e quindi - classicamente
- c'è tutto un percorso di discesa da affrontare, ed infatti non sono
poche le ricorrenze in questi testi del verbo "scendere" e dei suoi
annessi semantici. Del resto "il livello dello scavo aumenta le consuetudini / come gesto di difesa / predispone la morte di chi scrive / e il coraggio di camminare", e lì si torna col ragionamento (corsivi miei). Insomma, un filo rosso continuo, fatto anche di
rimandi da un testo all'altro, per cui non sarebbe improprio considerare
questa plaquette come un poemetto. La poesia è un mezzo per andare e
tornare, come Orfeo, o almeno è un nobile tentativo di avvicinarsi al
limite, a quel limite da cui non c'è, come dice Maffii, "diritto di
recesso" (e in effetti nella sua radice indoeuropea [mr] morte è "il limite raggiungere", quel concreto terrapieno che nei villaggi separava i vivi dai defunti).
Non vorrei dilungarmi in queste elucubrazioni, ma mi accade con la
poesia che mi intriga, come questa, forse al punto di spingere fuori
tema. Aggiungerei però almeno una cosa, che i morti si temono e si
ricordano. Credo che appartengano quindi a qualcosa di "morto", da
ricordare, anche tutte quelle evenienze emozionali, sentimentali,
dolorose di cui parliamo al passato, che magari tentiamo di
giustificare, di ribaltarne la grammatica delle cause e degli effetti,
di scrutarne, con parole del poeta, la "tassonomia del caso". C'è credo
anche questo nelle tematiche di Maffii, insieme ad una orgogliosa e un
po' sciamanica volontà di interrogare il linguaggio, di lasciarlo ad
esempio sintatticamente aperto alle folate di senso, ad altre possibili
conclusioni, di manipolarlo magari con invenzioni lessicali ("vita
mentirosa", "ipocattocrisìa"), con inserzioni colte, con contaminazioni
da altre lingue o dal latino e così via. Checché ne dica Maffii
("l'unica identità della parola / è nella parabola dei ciechi / tutto
evapora / dal padre al sostantivo"), è fortunatamente una lingua poetica
che evapora poco. Semmai (sempre Maffii) "...il verbo non ha desinenze /
quando è fuori dalla grammatica vivente" (corsivo mio). Che insieme
vuol dire, io credo, che se i morti e le cose passate sono condannati a
una eterna invarianza o immodificabilità, tocca alla poesia, grammatica viva e dei vivi, includerli e declinarli al suo meglio. (g.c.)
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