Mercoledì, 3 agosto 2016
Loredana Semantica - L'informe amniotico - Limina Mentis, 2015
L'informe amniotico [appunti numerati e qualche poesia] è
un'opera prima, già finalista sia a Opera Prima 2012 (di Poesia 2.0, e
già in quell'occasione lo avevo letto, facendo parte del gruppo
selezionatore), sia al Lorenzo Montano dello stesso anno. E sinceramente
mi fa sorridere il fatto che lo sia, che sia un'opera prima, qualcosa
che si accosta mentalmente all'acerbo, al primaticcio, al sorgivo e
comunque a qualcosa intrisa di "divenire". Sorrido sapendo bene che in
Loredana c'è invece una collaudata coscienza poetica, una esperienza sul
campo di anni, una presenza competente molto defilata, per molto tempo
celata dietro pseudonimi (e chissà che anche Semantica non lo sia), come quella Alivento con cui aveva animato
blog letterari come "Via Delle Belle Donne" o "Tellusfolio", per lo più
però con rubriche e note piuttosto che con testi poetici suoi, di cui in
fondo è abbastanza parca (diverse tracce e notizie si trovano ancora QUI e QUI), preferendo comunque una pubblicazione "virtuale", che è possibile reperire su ISSUU.
Dimostrazione è qundi forse proprio questa sua "opera prima",
dimostrazione cioè anche di una riservatezza che non diminuisce la
poesia rinchiudendola ma semmai la incastona in una visione personale,
intima e raffinata, dove è necessario andarla a cercare, attraversando
l'etere.
Di questo libriccino parlo con ritardo e anche buon ultimo, dato che se ne sono già occupati a suo tempo Stefano Guglielmin (QUI) e Deborah Mega (QUI),
ma tant'è. Potrebbe essere quindi una buona scusa per parlare d'altro,
per così dire, in maniera ellittica (qua stiamo, infatti). Loredana è
già stata in questo luogo, circa dieci anni fa (v. QUI),
con qualche poesia su cui scrissi una nota, seguita - cosa poi divenuta
rara in un blog - da un piccolo dibattito ancora utile da leggere. In
quella occasione avevo posto l'accento su alcune caratteristiche della
sua poesia, di una poesia esistenziale dispiegata su uno scenario
"freddo", arricchita da una scrittura "significante", densa di elementi
pittorici, fonici, timbrici, ritmici, entro i quali la parola a volte si
dissolveva o si guardava allo specchio, con qualche innamoramento. Una
scrittura interessante e personale, appunto, in cui l'elemento
drammatico, una inquieta e disillusa visione del mondo e della vita,
fluttuava in maniera aerea, trovava per così dire un suo ambiente
naturale, diveniva permeabile al lettore.
In questo libro l'approccio a tematiche che sostanzialmente non sono
cambiate è più strutturato. Se l'idea di fondo è ancora quella di un
magma di difficile solidificazione, di un caos a cui è quasi impossibile
e insieme imperativo tentare di dare una forma e un senso, tuttavia ora
c'è il tentativo di includerlo in qualcosa di organico, che ci circonda
e in qualche modo ci nutre. Se l'indeterminato, il caso, l'accidente,
l'incontrollabile fanno parte della nostra vita, possiamo dire allora
che sono la nostra vita, o almeno sono il contenitore che ci
genera, in cui la vita nasce e si svolge. La ricerca di senso, come una
ricerca che si rispetti, avviene à rebours, partendo dalla decostruzione
del risultato finale, come una operazione di reverse engineering, fino
ad una "foce", quando "si ritorna all'uno, al grembo della madre".
Questo "uno" non è solo (o forse non è) un unum trascendentale
a cui tutto si riduce, ma è anche il punto terminale di un conto alla
rovescia, di una danza delle ore che parte da una sessantanovesima
("alla sessantanovesima ora deglutì il passato") e va all'indietro (o
forse in avanti, chi può dirlo?). Per la verità c'è anche uno "zero",
che sembra segnare un "oltre", una rottura dell'amnio verso una realtà
destinale, un annullamento in seno alla natura - una maiuscola "Madre
nostra" - al pari di tutti gli esseri viventi. Deglutire il passato è
azione primaria di questa ricerca, riportarlo ai suoi "nutrienti"
essenziali, che sono non necessariamente momenti memorabili, forse più
insospettabili, anche minimali, punti su cui si incentra una diversa
prospettiva della stessa realtà già vissuta, dispersa in momenti che
tuttavia hanno avuto il loro significato, in un "futuro già accaduto",
con una "preveggenza esperita a posteriori", come scrive Rosa Pierno in
una delle note introduttive. Forse il percorso a ritroso non è un
procedimento nuovissimo (penso a illustri poeti francesi come Jacques
Dupin, penso dalle nostre parti al "Diario inverso" di Lucianna
Argentino - v. QUI),
ma qui è sostenuto dal fatto di non essere esaustivo, di non essere
"narrante", di lasciare dei cavedi nei quali il senso (del lettore)
rimbalza o rimane sospeso, grazie anche ad un sentimento di
indeterminazione corroborato dal ricorso ad un vocabolario
essenzialmente astratto, che aumenta quella permeabilità di cui parlavo
prima, o riferito a una concretezza di oggetti che però sono segnacoli
di un quotidiano ripetibile, di una non eccezionalità. Sembra che
Loredana registri la sua verità "come se stesse prendendo appunti"
(Guglielmin), ed in effetti è così, per ammissione stessa del titolo. Ma
a me pare però che la inchiodi sulla pagina (anche con quei punti ricorrenti nel
testo, come chiodi cristici, nota Guglielmin, e infatti la croce è spesso nominata), come
nell'urgenza di salvare ogni frazione salvabile, con la coscienza - come
scrive - che ".non è facile ancorare lo spirito alla terra. la carta al
suo pensiero". La tollerabilità del vivere la si misura in questo
ancoraggio delle cose (usiamo questo termine generico) alla parola
poetica, e viceversa. Inevitabilmente, anche in questo libro
dall'andamento prosimetrico, il frammento si ripropone come un canone
accreditato, ormai presenza costante della poesia attuale, come simbolo
di una realtà ontologicamente inafferrabile se non per schegge di uno
specchio infranto, e c'è certo una differenza rispetto alle poesie di
dieci anni fa. Se un problema c'è è forse, parlando in generale, quello
di un certo "horror pleni", il timore di farlo crescere, quel frammento,
fino a farlo diventare (banalmente) magari un testo poetico per così
dire "insostenibile" di fronte alla stessa complessa realtà che dovrebbe
descrivere. Viceversa, gli inediti qui presenti sembrano indicare,
anche nelle parti in prosa, una specie di recupero di un discorso più
esposto, meno franto, di modalità più distese, più liriche anche, pur nella
persistenza dei temi esistenziali, che nemmeno il ricorso al punto
fermo, quando c'è, riesce a ridurre a frammento, a scheggia inquieta e
baluginante. Non saprei dire se questo sarà il nuovo corso della poesia
di Loredana, se il suo conflitto con il tempo navighi verso acque meno
agitate. Mi piacerebbe trovare le risposte in qualcosa di più organico,
forse la sua vera opera prima - tutti quei testi dispersi nella rete,
alcuni dei quali eccellenti, i vecchi, i nuovi - che è ancora lì da
qualche parte, dietro i velabri della sua proverbiale riservatezza. (g. cerrai)
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Giovedì, 10 luglio 2014
Stefano Guglielmin - Le volpi gridano in giardino - CFR 2013
Spesso leggere o scrivere poesia significa compiere percorsi non lineari, significa entrare in un labirinto di opposizioni/relazioni, di
concetti/spazio-temporali con numerosi nessi che si vengono a stabilire tra le parole e i significati a esse correlati. Evidentemente non bastano, però, i
significati o i sintagmi nominali! Il poeta ricerca, con urgenza e improvvisi cambi di prospettive - con tecniche di replica storica e molteplicità
interpretativa, con virtuosismi stilistici - i modelli della realtà e le multiformi labirintiche sfumature delle condizioni socio-umane remote, le forme
intime e segnate dal passaggio dell’identità dell’essere umano. Cerca e ricerca, con prepotente immagine simbolica, la sua memoria, comunque sopravvissuta
al chiassoso realistico mondo in cui continuamente pur si ricrea, si rinnova. Ne Le volpi gridano in giardino, opera poetica di Stefano Guglielmin
(CFR, 2013), accade questa resistenza; avviene, infatti, il rapporto comunicativo e continuo con il mondo e le cose che non è allusivo o allucinato: si
avverte l’influenza estetica baudelairiana, il suo elegante simbolismo, mai paralisi dolorosa dell’impersonale, ma continua composizione e deframmentazione
del reale e della storicità. Guglielmin condivide e coglie i percorsi della storia da un punto di vista oggettivo e allargato, cioè da spettatore, da
osservatore/ascoltatore dell’essenziale: ogni tradizione classica educa alla precisione e alla trasparenza dell’esperienza capillare lasciando al lettore
la capacità interpretativa delle pluralità dei sensi metaforici. Stefano Guglielmin è un poeta, scrittore, ma è anche un ‘critico’ e, quindi, un
conoscitore della ‘verità (per critica letteraria si intende un genere letterario! Berardinelli). Sono veramente pochi i critici/poeti/scrittori capaci di
trovare e inventare il confronto ‘drammatico’ tra l’opera e ciò che c’è (in senso allargato) nella cronaca del mondo; e Guglielmin sa mostrare la sua dote
preziosissima di appropriarsi di un sentire autentico riconoscendosi nell’uomo/volpe che si espone e descrive con la potenza specialistica del cantore. Il volume racchiude tematiche che occupano sfere personali, aree sociali e storico/culturali che offrono un originale e sorprendente
confine/accostamento tra il dissolversi di elementi che si combinano e ricombinano in presenze/paesaggi antitetici, ma allo stesso tempo, in presenze dalle
tonalità che hanno connessioni che svelano interpretazioni filosofiche (futuristiche aperture). L’opera, emblematicamente sezionata, così come la parola
poetica, incarna la sacralità della Natura e della Vita, nel dettaglio, la coscienza razionale del pareggiamento di ciò che è norma o devianza, di ciò che
rispecchia la scia rivelatrice della nostra origine simbiotica e dell’incompatibile fiducia/sordità madre/figlio (C’è bufera dentro la madre).
L’autore entra in dialogo con le contraddizioni del suo tempo storico in una condizione privilegiata, da conoscitore esperto di terminologie e di immagini
antitetiche che spesso negano oggettivamente e che affermano interagendo linguisticamente, con elegante tono lirico, con le voci del passato ( Canti partigiani): la sua poesia diventa pane, madre, moglie, voce, bocca, (Canti dell’Amore Coniugale) cioè un complesso visionario che
ha un ritmo biologico e psicofisico attraverso cui fluisce e defluisce il corso del mistero remoto dell’acqua/cosmo/esistenza. L’acqua, qui, è
assolutamente/profondamente vissuta come una divinità terrena in cui si afferma la complessa legge della libertà. (rita pacilio)
Continua a leggere "Stefano Guglielmin - Le volpi gridano in giardino, nota di Rita Pacilio"
Giovedì, 11 febbraio 2010
Dalle
mie parti (Toscana, Valle dell'Arno, piana di Pisa) si chiamava
"posato" il pane di un giorno o due prima, quando stando lì nella
credenza (la madia) perdeva un pò dell'umidità eccessiva di cui lo caricano i
fornai per fare peso. A me piace il pane posato, i lieviti e le farine con cui
è impastato acquistano aromi più maturi, e anche il pane industriale - quando è
posato - assomiglia un pò a quello dei contadini che durava quindici giorni.
A
volte mi succede anche con i libri che mi mandano gli amici, che il tempo o le
faccende quotidiane mi hanno costretto a mettere momentaneamente da parte. nel
mucchio delle cose da fare. Come questo di Tonino Vaan (Antonio Vasselli),
"Cosmesi", uscito oltre un anno fa per i tipi de L'Arcolaio, con
prefazione di Stefano Guglielmin.
Riprendere un libro in mano è un pò un'avventura. Si comincia dal titolo,
dall'intendere che cosa significhi il titolo che l'autore ha scelto. Cosmesi in
questo libro, si può supporre, ha una valenza tristemente ironica e in qualche
modo rassegnata. Abbellire il mondo, o semplicemente la realtà circostante,
l'esperienza quotidiana delle relazioni e degli eventi, non è facile, non è
risolutivo, è un tentativo destinato ad abortire. Anzi là dove si presenta, o
dove la realtà si maschera, la bellezza è vanitas, travisamento, illusione.
Inoltre, abbellire una realtà non soddisfacente non può essere la missione
della poesia, come Tonino sa bene. Semmai quello del poeta è un lavoro di disvelamento,
per quanto bello e artistico. Tuttavia, il poeta non rinuncia al tentativo di
dare un ordine al suo vissuto, proprio quell'ordine (cosmos) di cui cosmesi è
parente stretta, sapendo che "un trucco leggero proietta avanti / certi
nostri piccoli dettagli".
Da questo dissidio di fondo Vasselli non si lascia distrarre. Deve percorrere
quel labirinto esperienziale a cui accenna Guglielmin in prefazione, e lo fa al
meglio, pur nella consapevolezza che anche il labirinto è ordinato, ma non se
ne esce. La scrittura di questo percorso è interessante. Spesso preceduta o
seguita da exerga eterogenei, (anche autoprodotti, anche di estrazione
giornalistica, anche affastellati) come trampolini di lancio, non solo viatici
o conferme di un'idea, ma anche idee fertilizzabili e/o sviluppabili, essa si
svolge per ritmi e metri non condizionati se non dalla necessità di dire, e
quindi liberi, con rari enjambements e con catene sintattiche che occupano
l'intero verso, riempiendo i vuoti (o il vuoto, microscopico o siderale
che sia). La poesia di oggi, quella di Tonino compresa, è infatti poesia degli
interstizi o di posizionamento tra essi, non affronta i grandi temi se non
fluendo liquidamente tra essi come acqua, occupando gli spazi lasciati
disponibili da una cultura postmoderna in crisi. Questa scrittura è di per sé
asciutta, antilirica, perchè modernamente consapevole della necessaria economia
del discorso, di una sorta di dimagrimento della parola, o forse perchè non
sarebbe possibile altrimenti. Perciò anche il livello retorico è essenziale,
scarso l'appoggiarsi a metafore o simboli, o altri particolari aggeggi,
ricorrente l'uso di un dire quotidiano e popolare, che peraltro ha non pochi
precedenti nella poesia del Novecento, ma qui con molta meno ironia rispetto
ai nomi che ci potrebbero venire in mente. Niente voli pindarici o sbalzi di
tensione, insomma, in questa scrittura che tuttavia è di trama
fitta e intreccia una interessante conversazione con il lettore, che si svolge
per incontri, in testi che salvo qualche eccezione si aprono e si chiudono, ma
con una specie di appuntamento all'incontro successivo, a un prosieguo di un
discorso condivisibile. Da qui quel fiilo di Arianna, quel che di rizomatoso a
cui accenna sempre Guglielmin, sostenuto anche da una titolazione di brano in
brano che assomiglia ai sassolini di Pollicino (es.: "...i nostri
pomeriggi lunghi un crepuscolo...";"...quando giunge da una lettura
una memoria...";"...un senso di asfissia e
resistere...";"...resistere...";"...esistere.") e che
può anche essere letta orizzontalmente come degli ulteriori testi. Le
eccezioni a cui alludevo riguardano tre serie (vasche semiolimpiche, terra dei
segni e torre maremma) che oltre ad essere tre corpi organicamente costruiti
segnano a mio avviso anche una variazione rispetto allo stile consueto di Vaan,
qui ancora più asciutto, smagrito di molti connettivi, più "cercato"
o se volete compatto, e sotto vari aspetti più interessante in prospettiva. E'
forse per questa ragione, o magari anche per la mia passione per i poemetti
(cosa a cui in effetti assomigliano) che sono i testi che pubblico in questa
occasione.
Sul piano della narrazione, che somiglia in qualche modalità espressiva
al conterraneo Ceccarini (vedi), il libro procede per agnizioni o epifanie laiche,
piccole meditazioni, anche pop, e rinvenimenti di fatti e dolori
generalizzabili, in un procedere in cui c'è poco posto per l'io, molto
per un noi però personale di chi si sente parte di un genere umano acciaccato
con cui ci tocca essere solidali, perchè da soli non ce la facciamo a
sopportare questo disagio di vivere, un noi anche quando Tonino parla, in una
bella poesia senza fronzoli, della sorella morta. E allora ecco che appaiono
luoghi, paesaggi, incontri, frammenti, percorsi, bicchieri di vino o di
campari, stanze, donne, tagli di luce, visioni, chilometri di strade, facce del
sistema. Ma tutto è osservato come lateralmente, come quando si guarda una cosa
ed essa ci suggerisce qualcosa di collaterale e inquietante, che trascende la
cosa stessa, diventa "l'ossigeno di una visione", "ci
riappropria ad un senso l'osservare / che prevale e resiste / come una storia
d'amore", consapevoli però che "da una vista come scavo / il primo
degli allargamenti è un varco di solitudine". Fortunatamente in questa
visione e solitudine (del labirinto, del tentativo reiterato di trovare
l'uscita) il poeta non indulge a minimalismi né ad aforismi apodittici, non si
ammanta, dice solo la sua, con molta franchezza, e con quella onestà
intellettuale che qualcuno ha rilevato e che oggi è un vero valore aggiunto.
Continua a leggere "Il pane posato 1 - Tonino Vaan"
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