Giovedì, 12 gennaio 2017Henry Ariemma - Aruspice nelle viscereHenry Ariemma - Aruspice nelle viscere - Ladolfi Editore 2016
Pubblico qui alcuni (pochi) testi tratti dal libro di Henry Ariemma. Non ho molto da dire su questa raccolta, e quindi per una volta sarò breve. Un libro oscuro, di ardua e forse inutile penetrazione, nel quale sembra accentrarsi un paradosso, e cioè che l'arte di interpretare i segni criptici della realtà, la difficoltà di trarne qualche senso, si risolve nella creazione di ulteriori intrichi, nebulose. ammassi, ulteriori arcani. Non parlo di labirinti, perché i labirinti hanno una loro logica, una storia simbolica leggendaria e una forza evocativa che qui non trovo (oltre a una loro estetica). Leggo questi testi e ho come l'impressione che le parole abbiano perso la loro funzione eidetica o iconica, proprio quando il tentativo di porre quesiti esistenziali, trovare risposte o spiragli di senso (come dice il prefatore) avrebbe richiesto altrimenti. Ho l'impressione insomma che l'aruspice invece di infrangere il mistero ne sia stato inghiottito, cercando di trovarne il fondo. In altre parole che in questi testi egli annodi invece di sciogliere, compatti invece di sublimare, complichi invece di semplificare, nasconda invece di trovare un responso, per quanto poeticamente mimetizzato. La "difficoltà" in poesia non è un difetto di per sé, non lo è ad esempio quando lancia una sfida, quando innesca nel lettore la volontà di ricostruire nessi partendo da indizi interpretativi, da allusioni, da frammenti, come di uno specchio che specchio non è o non è più nella sua integrità, ma di specchio mantiene la natura e la ragione, restituendo lampi illuminanti. E' certo che il responso dell'aruspice è per sua natura sibillino, anfibolico, ma è anche vero che si presta (deve prestarsi) ad una qualche interpretazione (ibis redibis non morieris in bello, ricordate?), altrimenti, semplicemente, non è. Ma non è facile, perché come dice il prefatore (Giulio Greco) "i “segni” non sono sempre chiari e allora ci si rifugia nell’’«involucro di arachide», in un’esistenza appartata, nel sogno". O forse ci si rifugia nell'involucro del linguaggio, ma un linguaggio nel quale (rovesciando il senso con cui lo scrive Greco) davvero è veramente arduo separare la metafora dalla descrizione della realtà, e dove anzi l'effluvio di parole che ci colpisce in certi testi (v. qui sotto "Quattro immagini") appare esso stesso, nella sua (spesso) totale mancanza di sospensioni, nella sua ostinata ipotassi, un tutto d'un fiato, l'apnea di quell'inghiottimento di cui parlavo prima. (g.c.) Continua a leggere "Henry Ariemma - Aruspice nelle viscere" Lunedì, 9 novembre 2015Enrico Barbieri - ProvinciaEnrico Barbieri - Provincia - Giuliano Ladolfi Editore, 2015
Di Enrico Barbieri ho già scritto qualcosa (v. QUI),
in occasione del suo libro "Il tremore della terra", edito da CFR nel
2014. In quella circostanza avevo espresso delle perplessità, che
riguardavano soprattutto una certa discontinuità, e forse timidezza o
ritrosia nel dire, che dava un andamento rapsodico al libro.
Torno sulla scena del "delitto" con questo secondo o forse terzo libro
soprattutto perchè sono convinto che, a differenza di molti, Barbieri
nella poesia ci creda, non sia un atteggiamento e nemmeno una mera necessità (concetto
quanto mai ambiguo). Dalla prima impressione mi pare che alcuni "vuoti"
siano stati riempiti, segno che Enrico qualche riflessione l'ha fatta, e
un minimo si è messo in discussione. Vuoti che non erano tanto
"orizzontali", cioè determinati da una ispirazione vagante tra le
occasioni, quanto piuttosto "verticali", ovvero dovuti ad uno scavo
(come si diceva una volta) ancora molto da fare su quella stessa
ispirazione. C'era insomma, secondo me, la necessità di andare più a
fondo, non solo nel materiale da trattare, ma anche nella stessa
scrittura.
Credo che Enrico l'abbia fatto, magari prendendo un po' di petto quella
materia. Ricordo che tra i commenti al post del febbraio scorso, Davide
Castiglione aveva accennato, tra le altre cose, a un certo
"maledettismo un po' autoriferito", cioè, se avevo ben capito, qualcosa
di "posato", una rabbia un po' torva ma "da poeta" nei confronti di un
dolore ingiustificato, immeritato e dalla responsabilità generica e
sfumata. Per la verità non ne avevo visto molto, in quel libro, forse
perché Barbieri non ce l'aveva messa quella rabbia (ma una "rabbia di
razza", come dice adesso), o non ne aveva messa abbastanza. Ma credo che
anche in quel caso si trattasse semplicemente di una ritrosia non
ancora passata all'esame di un più consapevole lavoro poetico.
La verità è che nessuno, davvero, ha un'idea chiara del reale vissuto
di un autore, a meno che non ci si metta a fare un lavoro d'indagine che
nessuno oggi fa più. Difficile dire, alla fine, se quello che ci
colpisce è la "verità" o solo qualcosa di ben recitato (non
dimentichiamo che Barbieri ha anche esperienza teatrale). Resta il
testo, e la lingua con cui è scritto. Che
poi tutto si riporta alla lingua, che deve essere personale (e quella
poetica più che mai), e a ciò che da essa traspare. Dico questo perché, a
differenza del precedente, in questo libro mi pare di vedere una
diversa cognizione, una messa a fuoco del cosa e del come, in altre
parole una misura. Che non smorza però la vis, la nota
dolorosa ma non dolente, il sentimento della mancanza di senso in molti
accidenti della vita, l'incapacità di salvezza per sé e per chi si ama e
anche l'incazzatura, questa sì, per una realtà sociale sempre più
disfatta, una provincia pavese che non è solo geografica ma anche specchio di
una marginalità dell'individuo, di una provincia dell'anima. In effetti
non c'è distanza, a ben vedere, tra le tematiche che impregnano questo
libro, che brevemente individua Giulio Greco nella prefazione, tra la
dolorosa ma quasi rassegnata osservazione della moglie malata (certo i
testi più "forti" e commoventi) e quella niente affatto rassegnata dei mali,
descritti anche con sarcasmo,
della società locale, tra il tratto lirico di certi richiami
naturalistici e la descrizione icastica, in funzione di simboli, di
personaggi incontrati tutti i giorni. Tutto rimanda alla fondamentale
solitudine del singolo, certo esistenziale, ma anche direi come unità
politica disorganizzata, o forse consapevolmente anarchica, o di dropout per
scelta, a cui la figura dell'autore - "in parte un pazzo in parte
normotipo" - tende a sovrapporsi (ma non voglio certo dire che in lui
la poesia sia vita e viceversa). E' in questo senso dilatato che
interpreto la "provincia" di Barbieri.
Quel che è interessante è che tutto
ciò non ha bisogno di circonvoluzioni sintattiche, di torsioni, di
ricorsi all'indefinito, di lessico ricercato, né di metri o forme
particolari. Il discorso è diretto, anche apodittico, e perciò, per
dirla in soldoni, tutt'altro che crepuscolare, il verso è libero, e la
vena mi pare aperta. Se il livello emotivo continua ad essere
controllato, come se Barbieri volesse stabilire una superiorità e una
distanza "autoriale", mi pare invece che sia stata abbandonata una certa
"oralità" di cui avevo parlato la volta scorsa, che questa cioè sia una
poesia che non cerca tanto la scena (in senso metaforico) quanto la
comunicazione as is, così com'è, senza tante storie, senza
stare a cercare tra le tante parole, come gli avevo scritto in privato,
quella "giusta", ma senza tuttavia tralasciare di dare un corpo, un
nome, alle "cose". Certo, niente di innovativo in una poesia di
questo tipo, semplicemente perché non ce n'è bisogno. Ma secondo me ha,
più di tanta poesia "civile", una concretezza che un po' oggi si è persa
e che è bene ritrovare ogni tanto. E che cerca, come avevo suggerito ad
Enrico, di rispondere alle domande: che cosa voglio dire? e come? Che
non è mica poco. (g.c.)
Continua a leggere "Enrico Barbieri - Provincia" Giovedì, 30 luglio 2015Poesie d'estate - Otto poeti letti da Rita Pacilio Il tocco abarico del dubbio – Angela Caccia – Fara Editore, 2015
Molta poesia ha interesse a trasformarsi in un dialogo vivo e profondo tra le persone e le cose attingendo alla natura e ai valori esistenziali. I
contenuti, quindi, diventano fatti tangibili che rievocano la memoria cogliendo sentimenti e necessità. Alcuni testi poetici passano dalla riflessione alla
narrazione in modo ininterrotto così come accade per Il tocco abarico di Angela Caccia. Il contributo ideologico della silloge, divisa nelle
cinque sezioni, approda in un universo poetico che sfida le tendenze creative, ma mira a evidenziare la propria fedele visione del mondo/poesia con
l’utilizzo armonioso e intimista della voce ritmata/musicale. La scelta del racconto, in quanto movimento, consente a chi versifica di avere una locazione
di privilegio rispetto a chi legge: infatti l’autrice cristallizza ciò che è mutevole nel nostro tempo, affinché tutto possa essere accessibile all’essere
umano moderno. Tutto è incarnabile: le forme comunicative del dubbio corteggiano il grave peso del silenzio e della solitudine esistenziale e molto spesso
ciò accade perché l’essere umano vive l’orfanità o l’abbandono del Mistero.
Fantasie Lo stesso copione: piove. È un tempo che strina a puntino le piume e poi le tarpa serrate le porte che il dolore non vada oltre. Su di lui come sciacalli un girotondo di mosche. Lo sguardo su una cartolina profana il reticolo di falso mi perdo nel notturno di un paesaggio una carezza la colatura della sera – quant’è quieta la luce di una finestra accesa! – sono io quell’orma nel vicolo cieco? io l’ammasso di venti senza scampo? Anche qui ulula un randagio prega la sua luna resta la notte. * E non è la mia pena a mia madre C’è un paese in me che non conosci periferia fessure di cielo si dimena un vento di conchiglia che maledice le sbarre. Dove cadi nelle tue secche, cosa popola la mente limosa, difficile raggiungerti esserti mano voce sguardo si scioglie il grumo – l’ultimo che ti tempesta – e non è questa la mia pena. Sei il verso già scritto che ritorna, un’ossessione la mia compagna di viaggio ma non è la mia pena. Nell’ultima stesura del racconto la tua penna scrive a tratti, nel solco bianco le piume di un’aquila che muore e non è la mia pena chi reggerà fino a lì il tuo passo? * Scemerà il vento non riempirai più la finestra cadranno le mie sbarre sarai altro altrove nell’incavo di mani più grandi (Angela Caccia è nata e vice a Cutro (KR). Tra i concorsi vinti: Piazzetta (Salerno), Siracusa, Feile Filiochta Internationale Poetry Competition 2003 (Dublino), Fiurlini (Olanda), Colapesce 2012 (Messina), medaglia Presidente Repubblica al premio Insanamente 2012 (Rimini), Convivio 2012 (Giardini Naxos). Nel Fruscio Feroce degli ulivi (Fra 2013, prefato da Davide Rondoni, ha vinto il Premio Massa Città fiabesca e il Concorso Città di parole Firenze; II class. al Premio Pascoli Barga; III class. ai Premi Di Liegro 2013 e Camposampiero 2014). Poesie della fame e della sete – Francesco Iannone – Ladolfi Editore 2014
Un buon libro di poesia non ha età perché dialoga continuamente con il passato e con il presente e sicuramente anche con il futuro. Un buon libro di poesia
ha diverse esistenze perché riesce a delineare differenti tratti di generazioni e sopravvive alle idee, alle immagini. Ecco cosa accade quando la poesia è
viva, sorprende, è forza espressiva della parola, è ‘un’operazione interiore’ (C. Mitosz). Francesco Iannone nel suo libro dal titolo Poesie della fame e della sete – Landolfi Editore 2014, impiega robusta immaginazione per narrare il mondo. L’autore tratta la quotidianità
domestica e gli accadimenti familiari con meditazione e vitalità stilistica ora surreale, ora sacrale, quasi in modo fanciullesco, ma non puerile, come a
voler entrare in contatto intimo con lo stupore, con la polpa più pura delle cose, così come solo la nervatura dell’animo del poeta può fare. Le intuizioni
estetiche, i guizzi poetici, il verso essenziale hanno il potere di far trasformare gli oggetti e le persone: noi stessi diventiamo materia primaria del segreto, della visione che lavora nella mente del poeta. In quest’opera prima, l’arte realizza le proprie premesse e le svolge nella maniera più
vera, piena.
Perché solo non morire conta in quest’aria provvisoria d’autunno che accarezza gli alberi e poi li spoglia come fossero una donna bella.
La resistenza al nulla è una lotta che lascia ferite e tagli è un labbro squarciato da un pugno è un figlio espulso da un utero contuso.
Ci sono case che accolgono chiunque e finestre che restano chiuse per sempre. Imito il crollo di un tetto sconfitto dal peso il laccio del vento stretto intorno al collo delle foglie imito il sole disceso a far meno freddo l’inverno a vegliarlo in silenzio nel sonno.
Tremare è utile, dici, conviene, lo documentano le cose tutte contratte in attesa dell’estate.
*
Ma qui, in questa vita, dimmi se il colpire del vento significa qualcosa se il volteggiare di un uccello nell’aria indica una via e il sanguinare di quell’albero ferito da un auto all’improvviso perché non lo sana questo primo sole estivo?
Dimmi, ti prego, se infine tutti insieme partiremo e nei sedili stretti ci terremo le mani come a stringere un patto un fiore morto che riprende a respirare da solo.
* Chissà se per sempre avremo la disponibilità dell’erba a accettare un peso la gioia dell’uccello sceso a baciare la terra mentre piroetta in cerca di cibo.
E poi chissà se un giorno guariremo da questo male che non placa, non perdona, se ancora con le unghie gratteremo le ferite vecchie fino a farle sanguinare di nuovo se pure ascolteremo gli alberi cantare e i gerani dai colori vari sorridere a primavera.
Chissà cosa genera un seme e poi perché quel fiore muore, così, senza un motivo, senza una ragione?
(Francesco Iannone è nato a Salerno nel 1985. Suoi testi sono apparsi su numerose riviste, fra cuiClanDestino, La Clessidra, Italian Poetry Review e Gradiva. È incluso nell’antologia La generazione entrante. Poeti nati negli anni ottanta (Ladolfi, 2011, a cura di Matteo Fantuzzi, nota critica di Massimo Morasso). Ha pubblicato
la silloge Pietra Lavica sulla rivista Poesia, introduzione di Maria Grazia Calandrone. Poesie della fame e della sete (Ladolfi,
2011, 2012, 2014, premio L’Aquila opera prima, finalista premi Beppe Manfredi e Penne) è il suo primo libro. Collabora con la rivista Atelier). Continua a leggere "Poesie d'estate - Otto poeti letti da Rita Pacilio"
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Venerdì, 10 aprile 2015Paolo Pistoletti - Legni, nota di Rita PacilioLegni, Giuliano Ladolfi Editore, 2014 è il titolo dell’opera prima di Paolo Pistoletti, silloge intensa e ricca di contenuti poetici i quali mantengono linearità sintattica e una forma logica interna. Pistoletti per mostrare al lettore la sua ‘visione’ del mondo arricchisce i versi di dettagli e di senso. L’esperienza personale si combina a quella filosofica richiamando l’attenzione sulla fugacità dell’esistenza. È per questo motivo che l’autore assottiglia il punto focale dedicandosi agli affetti (figlia, moglie, padre, amico) e ai luoghi che li proteggono, alle cose significative che li circondano, mai separate dalle persone amate. Limpide descrizioni degli oggetti che conservano tempo, origini, anime cristallizzate nei ritmi naturali di chi li ha vissuti, di chi li vive, rivive. Rievocare, quindi, le energie meditative in commoventi passaggi poetici per non far mancare alla poesia la componente riflessiva, di raccoglimento che è il tema più frequente in questo testo in cui la chiarezza emotiva aguzza l’occhio di chi legge lasciando alle cose la necessaria utilità e sopravvivenza. L’autore entra e rientra nella propria casa, nei propri ricordi, e nel rapporto con le persone care, con la stessa anima, con lo stesso sentimento per attribuire a ognuno un’identità materico/esistenziale/lirica. Ogni elemento circostante è essenziale e prezioso per poter affondare le mani nel pudore della poesia, nella proprietà vitale dell’oggetto. In questo modo è possibile ascoltare, percepire le parole invisibili, i dialoghi del mondo inanimato riferendo a noi tutti ciò che si può trovare oltre lo strato superficiale dell’apparenza. L’anima e il senso si fondono: la continua ricerca del ‘possibile’ dà la spiegazione agli interrogativi legati al processo creativo, quesiti che a volte cadono nel vuoto, nella solitudine intellettuale, nell’inaspettata sofferenza fisica. Pistoletti non traduce le pose o la magia dell’immaginario collettivo; nella sua poesia appare e permane, invece, la forza del bisogno di verità del quotidiano in cui le immagini si susseguono con armonia e naturalmente, mentre le parole si aprono e si riaprono generosamente, in modo miracoloso per valicare idee nuove e per risuonare i misteri del reale. (rita pacilio) Continua a leggere "Paolo Pistoletti - Legni, nota di Rita Pacilio" Giovedì, 26 febbraio 2015Alessandro Corso - Disinganni essenzialiAlessandro Corso - Disinganni essenziali - Ladolfi editore
C'è crisi, c'è grossa crisi!, ripeteva ossessivamente un personaggio di Corrado Guzzanti. In effetti non c'è molto altro di cui parlare, nella poesia
attuale, con molta voglia però che qualcuno mi smentisca al più presto. Alessandro Corso, in questa sua opera prima, ha almeno il pregio di affrontare
questo precipitare, questo annegamento dell'uomo nel suo proprio vomito da un punto di vista un po' meno astratto, simbolista, e selfie (nonché selfish)
del solito. Anche se lo fa usando strumenti culturalmente già vecchi, da un certo punto di vista, come vedremo, almeno il piglio è, per sua stessa
ammissione, narrativo, cioè meno ombelicale del solito. Questo significa, quanto meno, che il linguaggio, obbligato ad una funzione operante di
comunicazione, è meno autocompiaciuto di quanto lo sia in altri autori di questi tempi, nei quali la lingua con le sue contorsioni è la prima
rappresentazione di quella stessa crisi: il mondo è illeggibile, ergo il mondo è indicibile (o in-scrivibile) con insufficiente chiarezza.
Dice Corso in una nota: "La problematica affrontata nella raccolta si fonda su un continuo rimando al binomio uomo-macchina, attraverso l’uso di vocaboli e
modelli del linguaggio tecnico-informatico contemporaneo, basata per lo più sul verso libero e sull’uso dell’endecasillabo. In un era dove valori e
mestieri si vanno perdendo uno dietro l’altro, dove tutto sembra avere il suo “corrispettivo” tecnologico, il suo clone insomma, ecco giungere la poesia a
porre e porsi degli interrogativi pressanti e fermi. Uno fra tutti, se in tale contesto abbia ancora un senso scrivere, “vivere d’arte” ". L'idea è
ambiziosa e la domanda retorica, nel momento stesso in cui Alessandro, e gli altri, si mettono alla tastiera. Se la bellezza non è più in grado di salvare
il mondo, forse è in grado di conservare istintivamente sé stessa. Soprattutto attraverso , direi, una estensione del poetico, ovvero di ciò che
poeticamente può essere detto, un allargamento cioè del numero delle cose che possono essere trattate in poesia. E' in altre parole una ri-colonizzazione
di un territorio disumanizzato, ovvero popolato di uomini a loro volta colonizzati. La risposta allora è: scrivere ha il senso della resilienza, come
quella di Winston in 1984, fin dove è possibile. E' ad esempio rovesciare a proprio vantaggio l'impoverimento stesso di una lingua pervasiva, la
sua techné riduzionista, facendone uno speech colto. E' cogliere in certe dinamiche una ironia amara, è acquisire una coscienza dei rapporti che è
tutta politica, e non può essere altrimenti. Una presa di coscienza in gran parte solitaria, ovviamente, stante che il poeta, in certe circostanze, tende
ad assumere il piglio dell'iniziato, di quello che, per quanto dolorosamente, ha capito.
Certo, con questi presupposti, il repertorio può essere vario e vasto, e magari composto da alcuni topoi, cioè da oggetti, cose, circostanze che col tempo
sono diventati tali, perdendo quindi un po' della loro carica di novità, o di skàndalon perturbante. Giuliano Ladolfi, nella prefazione, accenna ad alcuni
di essi: la società liquida (poteva essere altrimenti?), il consumismo, l'incomunicabilità, la perdita di identità, i mass media, l'anaffettività, il
format televisivo e così via. E' il repertorio insomma di ciò che una volta (diversi anni fa) si chiamava l'uomo alienato, a dimostrazione che nihil sub sole novum. Abbastanza nuovo è semmai il prendere questi temi di petto cercando di darne una valenza simbolica, utilizzando in maniera
postmoderna i brandelli di realtà (e di neolingua) che sono acquisibili nel quotidiano, nostro o altrui. E del resto il postmoderno ha ancora una sua
collocazione, qui, se non ironica? Il quadro conoscibile è quello dell'uomo spiazzato, uno di noi, lontano però anni luce anche dalla sola idea di essere révolté, l'uomo camusiano capace di una rivolta creativa (e qui si torna alla domanda di Corso, al senso ultimo della scrittura, il suo carattere
generante). Siamo ancora nei paraggi dell'uomo monodimensionale marcusiano, per intenderci. E il panorama, il canovaccio narrativo, è quello urbano,
grigio, che richiama alla lontana, come accenna Ladolfi, Philip K. Dick, o forse direi Gibson, e in cui la natura, seppure agognata nella sua potestà
naturante, è residuale e asfittica. Tutto sembra un po' postapocalittico, un ambiente simbolico in cui le cose, gli oggetti hanno perso il loro valore,
magari per assumerne un altro d'uso, come in un film di fantascienza dove un frigo diventa un semplice scaffale con un lumino acceso dentro. Il disinganno
è "essenziale" perchè capillare, anche il linguaggio mutuato dalla techné alla lunga si mostra inservibile, l'armamentario tecnologico come nominalismo,
non basta nominare le cose per possederle, è finita anche questa illusione antropocentrica, c'è un depotenziamento degli oggetti e cioè della loro carica
sciamanica, i nomina non sono neanche più consequentia rerum, ormai da un bel pezzo. Una poesia civile che non denuncia però un
sistema di potere ma un sistema di impotenza, più o meno consapevolmente. Il modello, contrariamente a quello che dice Ladolfi, non è neanche più
il Grande Fratello, non è il Panopticon di Bentham che Michel Foucault riprenderà in Sorvegliare e punire. Non c'è forse più necessità di generare
uno sguardo omnicomprensivo, di gettare una luce centrifuga (da un centro verso...) sulle cose. Oltre il pensiero unico si sta andando molto velocemente
verso uno sguardo unico, guardiamo tutti dalla stessa parte, fissiamo tutti gli stessi touchscreen, abbiamo tutti gli stessi desideri. Non è più
necessario tenerci d'occhio, orientarci. Stiamo andando tutti nella stessa direzione. E la prospettiva, per quanta resistenza si possa mettere in atto, non
è tanto quella accennata da Ladolfi del cyber-uomo o, per altri versi dell' Ubermensch di Nietzsche, ma forse quella di un relativismo
(relatività) di ciò che è o che non è importante, anche come bersaglio di denuncia. La prospettiva, semmai, è quella di un uberlumpenproletariat
tanto incattivito quanto disincantato. (g.c.)
Continua a leggere "Alessandro Corso - Disinganni essenziali" Lunedì, 9 febbraio 2015Alessandra Palombo - MestieriAlessandra Palombo - Mestieri - Ladolfi Editore 2014
Ogni volta che leggo qualcosa di Alessandra (Sandra) Palombo mi torna
alla mente uno dei fringuelli di Darwin, quegli uccelli sulle cui
differenze morfologiche si dice che lo studioso abbia fondato le sue teorie
evolutive. In effetti la poesia di Sandra è una forma di speciazione,
fondata in parte su quella che io ho sempre definito la sua insularità
(esattamente come i fringuelli darwiniani), ovvero su una forma di
isolamento che in questi tempi moderni, così ricchi di mezzi di
comunicazione, non può che essere psicologico o esistenziale; e in parte
fondata su un particolare attaccamento ad una tradizione che non è solo
poetica, ma anche antropologica, includendo in questo aggettivo anche
l'uso della lingua (in effetti le sue escursioni o allontanamenti
maggiori dalle forme per così dire correnti sono avvenuti con haiku o Tautogrammi d'amore e d'amarore,
uno dei suoi libri, del 2005). E in questo senso di insularità, che è
appartenenza a un luogo, senso dei confini e bisogno di starsene
appartati, c'entra certamente l'attaccamento alla sua meravigliosa Elba.
Chi ha frequentato l'isola d'Elba, magari in tempi non recentissimi
(poiché todo cambia, canta Mercedes Sosa) e possibilmente non
nel caotico agosto ma nel pungente inverno isolano, capisce di cosa
stiamo parlando. E si ritrova di certo nei brevi testi, sintetici e
icastici, di Sandra, nelle figure caratteristiche che era possibile
trovare nei mercati o nei vicoli di Portoferraio o Rio Marina, nei
mestieri cancellati da una mutazione antropologica a cui l'isolamento
non poteva più fare da barriera. Naturalmente questo non è in libro di
bozzetti coloristici, o di curiosità sociologiche. E', prima di tutto,
un libro di ricordi di prima mano, vissuti direttamente, e se il ricordo
è un'ancora di salvezza, lo è a maggior ragione per Sandra che, va
detto, ha anche una vocazione di storica, soprattutto intorno alla
figura del Napoleone elbano. Ma ricordi dinamici, legati a un tempo che è
scorso e continua a scorrere nei versi, per mezzo dell'onnipresente
imperfetto, che è il tempo verbale della narrazione, del prolungamento
nel tempo della vita raccontata. E poiché il tempo non lascia
superstiti, siano essi individui o simboli di una stagione civile, mi
piace pensare a questo libro come ad una piccola Spoon River nostrana,
in cui gli scomparsi, qui muti e accompagnati ciascuno dagli oggetti
simbolo del mestiere, trovano la voce di chi ha accolto l'incarico di
raccontarli. Parrebbe ovvio allora definire questa poesia come "conservativa" (che, attenzione, è diversa da "conservatrice"), non solo per gli argomenti che tratta, ma anche per l'andamento che la contraddistingue, pacato e quasi incurante di trovare effetti o rime, semplice ma non dimesso, tanto da non ricercare nemmeno una chiusa ad effetto, epigrammatica, come se i testi provenissero direttamente da un bloc notes, senza eccessive mediazioni o patemi d'animo. In effetti è una poesia che trova il suo essere non nella forma ma nella sostanza delle parole concrete che usa, nella loro lineare consequenzialità, forse in quella che potrebbe sembrare ingenuità (ma qui "ingenuo" va inteso nel suo etimo di ingenito, connaturato), e che certo corrisponde a un genius loci (e magari può sembrare strapaesana) a cui Sandra vuole rimanere fedele. E allora ti rendi conto che l'insularità non è solo isolamento ma anche protezione, localizzazione, ancoraggio in qualche insenatura sicura. (g.c.) Continua a leggere "Alessandra Palombo - Mestieri" Giovedì, 13 febbraio 2014Roberto Cescon - La direzione delle coseRoberto Cescon - La direzione delle cose - Ladolfi editore 2014
A volte non è cosa buona e giusta appendere il proprio ragionamento al
titolo di un libro, usarlo come gruccia. Ma proviamo a vedere. La
direzione delle cose, in questo libro di Cescon, sembra intanto
suggerire una rappresentazione vettoriale della vita e del tempo,
attraverso le cose che li popolano. Niente di più occidentale di questo,
un autentico canone determinista e positivista - finché è durata.
Niente di più esposto alla crisi. Ma la direzione delle cose può anche
semplicemente essere, come dice l'autore nel secondo testo della
raccolta, quella della loro disposizione nello spazio, quella che ti
indica "come arrivare alla porta". Cose-pollicino, quelle che danno una
precaria e illusoria sensazione di stabilità, di aggancio alla realtà.
Di trovare la strada.
Ma le cose, si sa, non vanno da nessuna parte. Le cose, in questo libro
di Cescon. stanno fermissime, hanno una inquietante immobilità. Questo,
secondo me, ci porta subito ad una prima considerazione, alla scoperta
immediata dell'arcano: se le cose stanno ferme sono perfettamente in
sintonia con l'hic et nunc, con il presente congelato nel
rispecchiamento uomo/cose che è uno dei tratti ricorrenti di una buona
fetta della poesia odierna. L'apparente contraddizione tra questa
"direzione" e la bidimensionale stesura morandiana degli oggetti (come
in Morandi qui le cose fanno poca "ombra") va accantonata.
Ma, però, quali cose? In un suo recente saggio (v. QUI)
Davide Castiglione cerca ambiziosamente di affrontare le "cose" (come
voce lessicale) in qualità di topos ricorrente nella recente poesia
italiana, utilizzandolo quale indizio di una certa estenuazione della
scrittura. Vocabolo che passa nel tempo da una funzionalità nel testo,
come referente di realtà, come rimando a una concretezza che esso
sintetizza e insieme connota, ad una funzione epifanica o filosofica in
cui "cose" è riflesso speculativo, fino a un generico, "facile" e
generalizzante utilizzo del termine "cose", una scorciatoia per il vuoto
(tipo, cita Castiglione, il "faccio cose vedo gente" di Moretti). Una
questione non peregrina, se la si vuole assumere come sintomo di
impoverimento delle idee.
Ma qui, in questo libro, le "cose" hanno un nome, sono concrete, si
ipostatizzano in un limone, una damigiana, una pila di piatti, un
cappotto, un paio di scarpe, un passeggino, un bicchiere di amaro. E se
non sono oggetti sono fatti semplici, altrettanto concreti, come "la
mano di Anna la sera sul divano" o una riunione di condominio. Direi che
Cescon non fa poetica dell'oggetto. Pur con molti slanci lirici, siamo
lontani da Montale, direi per fortuna. Gli oggetti (intesi anche in
senso generale di obiectum) non sono rivelazioni di "altro",
rivelano semmai sé stessi o chi li osserva ("E' nelle cose la poesia /
quando si spaccano / o si fanno vedere"). Rivelano che qualcosa "esiste
prima" (v. sotto). Non c'è correlativo oggettivo, secondo la definione
che ne dette Eliot, cioè la catena che conduce all'emozione. Meglio, non c'è bisogno che ci sia. Giacchè,
io credo, Cescon ha una necessità - ed è il suo dato più interessante
-: respingere l'anonimato delle cose è un tentativo di limitarne
l'anomia, il disordine. Limitarne, in altre parole, l'entropia, le
variabili aleatorie, e con esse l'entropia della vita. Infatti quale
correlazione oggettiva c'è ad esempio in questo testo, a suo modo
esemplare?:
La direzione delle cose
La mano sulla sveglia ferma la notte nel tempo che ancora ci prendiamo. La tapparella taglia i contorni. L'acqua nel termosifone è l’inizio del giorno, le cose da fare. Se dico ciabatte, arrnadio, servomuto, so come arrivare alla porta. La dlrezione delle cose é nelle parole che dico, ma esiste prima. Quando mi colpisce, cerco parole per dirla, ma spesso non bastano. Forse nel buio le cose hanno una loro intelligenza perché sono più di quello che siamo.
Direi nessuna, l'enumerazione delle cose concrete è come una maniglia a
cui il poeta si afferra per guardare fuori dal finestrino. La presenza
delle cose è costitutiva della vita, la marca distintamente, anche come
misurazione del tempo. La vita sfreccia fuori da questo finestrino,
senza epifanie. Essere e cose, direbbe Heidegger. Va da sè,
come nota Gian Mario Villalta, che in queste condizioni si sia
"esposti", deprivati di quella "opacità del sé", da quel "segreto" che
gli oggetti non hanno. Diventiamo trasparenti, cose tra cose, anzi le
cose "sono più di quello che siamo" E forse - ma Cescon non lo dice - ci
posseggono. E va da sé, come ancora annota Villalta, che "la stessa
lingua diventa ferocemente chiara, ridotta alla forma più denotativa".
Tutto torna, in un certo senso. Ma dissento dal prefatore quando afferma
che "si tratta di una rinuncia/impossibilità di inscenare la lingua
come luogo privilegiato dell'atto poetico". Direi che non ci fosse altra
scelta, in termini di forma, di selezione di un registro "basso",
colloquiale, dicibile, che certo avrà illustri fratelli maggiori ma è
quello giusto. La lingua è quella, l'atto poetico si instaura anche malgrado essa, se necessario. L'effetto è chiaroscurato, contrastato come una foto di cronaca, e con una interessante piattezza che
rende bene disillusione, fatalità del quotidiano, sdipanarsi dei
giorni. Rimane inespressa nel libro, ma sempre presente al lettore, la
domanda di dove (ci) porti davvero la direzione delle cose. Non
infinita, poichè - ci avvisa Cescon - "vivere era una retta, ora un
segmento". (g.c.) Continua a leggere "Roberto Cescon - La direzione delle cose" Lunedì, 16 dicembre 2013Vincenzo Galvagno - Ablativi assolutiVincenzo Galvagno - Ablativi assoluti - Giuliano Ladolfi Editore 2013 Gli ablativi assoluti scontano una loro particolare solitudine. Sono "sciolti", fanno costrutto a sé, nemmeno sono imparentati con il flusso principale del discorso, qualsiasi esso sia. Esprimono spesso un "a priori", qualcosa che è fondante e di cui insieme si può fare a meno, ma che necessita poi di una propria "destinazione", o destino. Se Maria Attanasio ha ragione quando nella prefazione parla di "un disagio giovanile senza frontiere né passaporti", di "profondo disagio esistenziale: ablativo assoluto tra irrelati ablativi assoluti", direi che ormai il disagio non è più nemmeno un fatto generazionale, dato che lo hanno in comune, oggi, sia i padri (poetici) che i figli. Ed esattamente come avviene nel sociale e nel politico, i padri non hanno lasciato gran che ai figli, i quali semmai dovranno trovare da soli altre strade. Magari navigando tra epigonismo e debiti culturali da una parte (come fanno alcuni) e il coraggio dall'altra di tentare linguaggi o modalità espressive nuovi, con cui affrontare un tema ormai connaturato, appunto esistenziale. E' quest'ultimo il caso, direi, di questo libro, un libro interessante sotto diversi aspetti, questo qui di Vincenzo Galvagno. Che è prima di tutto il libro di un giovane, mi par di capire la sua opera prima, un giovane arrivato alla poesia forse quando il secolo breve era già finito, pace all'anima sua. E che, in modo molto maturo, manipola accuratamente la propria materia poetica. La cosa più interessante forse è la messa in scena di questo materiale poetico, la sua "sceneggiatura" per così dire, come è evidente soprattutto nelle prime due sezioni. Quello che importa a Galvagno è innanzitutto stabilire una assolutezza del valore poetico del vivere, assolutezza anzi universalità del dibattersi dell'individuo in mezzo ai desideri, alle limitazioni sociali, ai drammi indotti da queste limitazioni o semplicemente dalla insoddisfacibilità del desiderio, della volontà del singolo. La messa in scena è l'utilizzo di un doppio artificio, forse postmoderno ma meglio ancora (se si pensa a Eliot o a Pound, più che a Frost o Larkin citati dalla Attanasio) modernista, l'appoggiare la costruzione dell'oggetto poetico, dandone ulteriore sostanza e giustificazione, alla citazione antica, biblica o classica, biblica negli exerga, omerica nei personaggi che talvolta popolano i testi. Gli exerga, utilizzati poi in sostanza come dei titoli estesi, sono anche un cospicuo sistema metaforico, imperioso come un comandamento e oscuro come un oracolo pitico, a volte ribaltante il significato ultimo (un esempio, il brano "Quanto l'immondo avrà toccato..."). A questo si aggiunge ("interferisce", dice Attanasio giustamente), o contrasta abilmente, la struttura linguistica, sintattica, prosodica del corpo testuale. Che è moderna (il che sarebbe quasi ovvio), ma soprattutto intrecciata, colloquiale, singhiozzante, disarticolata quanto la messa a verbale di un pensiero che attraversa la mente. Il tentativo, del tutto programmatico, è di ignorare la forma "significante", dando per certo (con molta sicurezza) che è quel che si dice (e non come) che sostanzia l'atto poetico, che còla la scrittura nel suo stampo. Direi quindi che, oltre a una "interferenza", si tratta qui di una "inferenza", di inferire con il linguaggio una verità nel testo, di inverarlo (e non è un caso che la prima sezione abbia il titolo "assoluto" di "Poesia e verità"). Ne esce nel complesso un attuale poema per stanze, ma con molti spazi interstiziali che il lettore può riempire con le sensazioni che ne riceve e con la "sua" porzione di realtà. Questo è particolarmente accentuato nelle prime due sezioni, come dicevo. Nella seconda poi (qui omessa perchè estrapolarne un testo sarebbe insensato) l'effetto di inferenza è ancora più forte, quando Galvagno, prendendo spunto da un tragico fatto di cronaca (il suicidio di due giovani amanti omosessuali nella Sicilia inizio anni '80) costruisce un breve "dramma in cinque atti", lirico ed elegiaco, teatrale e commovente, dal bel titolo "Turbata quiete di pubblico incanto" che stravolgendo un termine giuridico, con qualche amara ironia mette subito in chiaro quale incantamento, quale "sensibilità" quel fatto è venuto a spezzare. Qui si può dire che Galvagno, proprio lavorando su un sottotesto, anzi un sottocronaca, per quanto certo poeticamente immaginato, stabilisca la "verità", tanto personale quanto indiscutibile, come se asserisse "vedete? la verità è nella poesia di cui la tragedia è intrisa", ed è la poesia che la rende vera, che rende alla meccanica del fatto la sua realtà quasi assoluta. Il mito, il biblico, la cronaca, sono appoggi, strumenti, artifici (nel senso etimologico del termine) per così dire esterni, casse di risonanza o rispecchiamenti sempre della presenza soggettiva ma non invadente dell'autore, che diventa più intima nella terza sezione, "Ablativo assoluto", ma anch'essa orchestrata con un suggestivo linguaggio fauve, espressionista. Se il disagio, come ho avuto modo di dire fin troppe volte, è certo il topos un po' annoiante della poesia giovanile attuale, è il modus, cioè il trattamento artistico, che fa poi la differenza. Come dico in un mio scritto apparso su Poesia 2.0 (v. QUI) molto dipende da quanto riesca l'autore a mettere da parte il suo "centrismo", da quanto riesca a distanziare la sua materia, a discendere in essa, ad interrogarsi sulle reali motivazioni del suo scrivere. Come in gran parte avviene in questo libro. (g.c.) Continua a leggere "Vincenzo Galvagno - Ablativi assoluti" Venerdì, 23 agosto 2013Prisca Agustoni - Poesie scelte Prisca Agustoni - Poesie scelte (2000-2012) - Ladolfi Editore
Un'antologia della produzione in lingua italiana di Prisca Agustoni, poetessa svizzera del Canton Ticino (ma dalle molte altre competenze linguistiche, come si vede dalle note biografiche). Una produzione di cui è difficile dare un'idea compiuta con i pochi testi qui estratti ma essenzialmente centrata da una parte sulla condizione femminile, quella personale ma anche quella storica (come nella raccolta Sorelle di fieno del 2002 in cui la Agustoni narra vita e silenzi delle ragazze italiane che all'inizio dello scorso secolo partivano dal Ticino per andare a fare le tessitrici nei conventi di suore tedesche oltre il san Gottardo, dove vigeva un sostanziale divieto di parlare la lingua madre). Dall'altra l'elemento fondante, il leitmotiv, è la dimensione plurima del confine, del limite o dell'orizzonte: come frontiera, confinamento, barriera linguistica, sociale, morale, come porta, anche intima, interna, psichica, da attraversare, territorio di incontro e di reciprocità, come consegna all'Altro e spazio nel quale può avvenire una trasformazione, un'influenza, come - aggiungo - avviene tra osservato e osservatore nel principio di indeterminazione di Heisenberg. Una dimensione plurima ben presente in questa poesia, che Fabiano Alborghetti, nel suo bel saggetto finale, Il chiaro enigma, da cui sono tratte anche le notizie biografiche dell'autrice, non manca di indagare accuratamente, non dimenticando che il confine è da sempre un irrinunciabile topos della letteratura. Poesia lineare, asciutta, a tratti minimale, tutto sommato poco "lirica"e sentimentale, testi per lo più brevi di una leggerezza in cui le diradature, gli spazi vuoti (o anche qui - se preferite - i confini) sono anch'essi significanti, insieme inviti di riflessione per chi legge e indizi di "uno stato d'allerta nel quale sia la sensibilità che la riflessione partecipano per catturare i minimi particolari che poi saranno trasfigurati in immagini, silenzi, suoni" (Alborghetti).
Continua a leggere "Prisca Agustoni - Poesie scelte" Venerdì, 8 febbraio 2013Maddalena Bertolini- UNAMaddalena Bertolini - Una - Giuliano Ladolfi Editore, 2012 - ISBN 9788866440833 Questo libro della Bertolini sembra situato alla confluenza di due fiumi principali, quello privato delle relazioni domestiche e familiari, e quindi della connotazione affettiva (intesa come vox media, nel bene e nel male), e quello del personale confronto con la natura, posta come metro di misura del sé e forse monito di una limitatezza di cui conviene tener conto. Nel primo flusso si depositano non solo le dinamiche familiari e gli appunti di una vita condivisa e di un ruolo (luogo) femminile, ma anche una consapevolezza particolare, che quel ruolo abbia un fondamento antico, centrale, e sia fondante della sua stessa poesia. Questa consapevolezza (coesistenza) è moderna, ma anche - per così dire - apolitica, indizio ne sia la quasi totale assenza del corpo e dei suoi brani, luogo deputato e anzi - come dicevo altrove - topos di molta della poesia femminile, in cui si incrociano ancora problematiche irrisolte e dissidi, magari a discapito dell'animo. Qui no, direi che qui semmai c'è una sublimazione "materna" delle cose (anche quando si contempla un lago), senza che ci sia in questo aggettivo nulla di consolatorio o di alibi per noi uomini. Il senso è quello di una "comprensione", di un approccio che abbraccia il momento propulsivo della poesia (o ispirativo, se volete) ma senza infingimenti, anzi, quando serve, con qualche scatto d'orgoglio che certe scelte stilistiche, certi enjambement repentini, sottolineano bene. Certamente, in questa consapevolezza antica e moderna avrà anche un ruolo essenziale il fatto che, come nota in prefazione Sarah Tardino, "di secondo mestiere è levatrice la poetessa come la madre di Seneca sa l'arte di portare alla luce...". C'è in questo anche, naturalmente, l'assieparsi di una storia personale, il coincidere di una maternità propria con quella di altre ("ho messo nella vita tanti figli / tanti urti quelle notti sbattute / le porte premute sulle assenze", ed è superfluo sottolineare cosa implichi questo ultimo termine). Il "portare alla luce" poetico, va da sé, implica anche la necessità di controllare artisticamente l'ispirazione, di mettere a confronto "la mia / faccia e quella brutale della poesia", di addomesticarla evitando di farne un semplice e disordinato stream di coscienza. Non c'è dubbio perciò che i testi più intensi siano quelli in cui viene rivoltata e messa in scena la quotidianità. Più intensi per alcune ragioni, tutte interessanti: la non-eccezionalità delle situazioni (ovvero la loro "normalità"), che permette al poeta di coglierne sfumature, intime essenze e forza metaforica, dichiarandone un'adesione implicita e forte; la pulsione profonda, amorosa direi, appunto materna, quasi ontologica e primaria che mette in moto e giustifica la scrittura; l'io "sociale" che vi si esplica - a differenza di altri testi in cui la relazione del poeta è con l'esterno - ovvero un io che pur essendo centrale non è onnivoro, ma consapevole interprete e narratore delle poetiche che in quella normalità abitano, basti leggere a titolo di esempio alcuni dei brani qui sotto. Ma anche negli altri testi, quelli sovrastati dal paesaggio, dalle montagne anch'esse familiari e onnipresenti, che sono "bianche come bestie / ruminano neve hanno la fame", "sono piene di costole / hanno schiene glabre e vertebre, "mi si ammassano nel sangue", anche in queste poesie il tessuto principale è affettivo, sentimentale nel senso buono del termine, però di un sentimento rovesciato, di una minorità, di una infanzia implicita nel confronto con esse, di un pericolo sempre presente e sempre sfidato come farebbe un ragazzo. Per quanto ci sia il rischio di cadere, anche metaforicamente, quello che attrae Bertolini in fondo è che "la prospettiva non è tirare / avanti ma soltanto in alto", esattamente all'opposto di quanto forse accada nel quotidiano di cui si diceva. Oppure, "per quanto mi riguarda - scrive - / cammino sulle punte / di tutte le montagne". Il che è probabilmente la stessa cosa. In entrambi i "fiumi" la poesia si "concretizza", come è giusto che sia in relazione ai temi, anche quando svicola in voli pindarici o invenzioni metaforiche o simboliche che possono apparire a qualche occhio arcigno azzardate o ingenue ("le lenzuola della neve", "la neve fa le fusa", "le sillabe dei larici", "la giumenta lenta della lavatrice rumina mutande") ma che finiscono per sorprenderti, per rivelarsi icastiche e funzionali al racconto. Quasi senza segni di interpunzione, apparentemente stesa di getto, ma in realtà con "la scrittura intellettuale dell'istinto" (Tardino), , la parola è spesso limpidissima e "onesta", la poesia arriva immediata al lettore, e la sua migliore qualità è essere di "una" e di molte. (g.c.) Continua a leggere "Maddalena Bertolini- UNA" Giovedì, 20 dicembre 2012Domenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acque Domenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acque - Ladolfi Editore, 2012
Un'opera prima che non è un assoluto libro d'esordio, grazie a Dio. In
primo luogo perchè l'autore non è per me un nome nuovo, essendo già
passato su questo blog (v. QUI),
e poi perchè Ingenito ha la sua particolare costellazione, e pochi
alibi in odor d'inesperienza o giovinezza, al contrario una cultura che
lo sostiene e nutre. In altre parole, una certa consapevolezza dei mezzi
e poca necessità di dimostrare alcunché.
Un libro ponte, direi. O forse ecumenico, o sincretico. Ovvero
costruito sulla necessità primaria di porsi (come autore) in un centro
geografico, sentimentale, stilistico, culturale, e anche in qualche modo
nostalgico. Come tutti i ponti il suo consistere è fatto di tensioni ed
equilibrii, a volte difficili da mantenere. Del resto Giuliano Ladolfi,
nella nota di chiusura, parla di "provvisoria sospensione tra due
abissi". Ma chi non risica non rosica.
Parlando di tensioni, di centro, di equilibri, ripartirei da quanto
avevo lasciato in sospeso un paio di anni fa. Allora avevo fatto
riferimento, a proposito dei testi di Domenico che avevo pubblicato su
Imperfetta Ellisse, ad alcuni snodi importanti e potenzialmente in progress. Che qui rinveniamo soprattutto nella prima parte del libro, nella quale ritrovo (VEDI) l'emblematica poesia-luogo Lisbòna - Tehràn, doppi
fuochi di una traiettoria anche esistenziale, come anche (e vedremo le
ragioni) "affioramento linguistico di un oblio incantato, dove
l'italiano mi è materia vocalica estranea". Si trattava in breve, a mio
avviso, di un debito che Ingenito riconosceva a una cultura non sua come
quella persiana - o orientale in genere - a cui si era abbeverato, anzi
una qual certa supremazia poetica, icastica, eidetica, una ricchezza
lirica sorgiva che accomuna con affascinante crasi l'antico e il
moderno. Si trattava anche, quindi, di un rovesciamento di identità
culturale, un innamoramento se volete; si trattava di una sostituzione del canone
o della reinvenzione di una tradizione, di un traghettamento. Qualcosa
che a me piaceva definire, esagerando, una reincarnazione, o una
simulazione di metempsicosi. Qualcosa di più, se posso dire, rispetto al
"tentativo di riappropriarsi di una Retorica, quale essa sia; di un
sistema di espressione che ritorni valido e significante soltanto se
scontato dal sangue della propria esperienza" che rimarca Tommaso Di Dio
nella sua prefazione. Certamente sì, anche questo. Ma perchè? Io credo
che, da questo punto di vista, Ingenito faccia parte anch'egli della
"generazione entrante" in cui (cito Stefano Guglielmin) "il sentimento
dell'orfanità (...) attanaglia questi giovani, collocandoli in un limbo
dove il presente è tutto ciò che procura dolore e gioia gestibili, una
volta compreso che sul futuro non si può più scommettere e che il
passato è responsabile di tutto questo". Ma questo orphanage
Ingenito lo risolve a modo suo, spostando decisamente lo sguardo verso
un altro orizzonte che rende addirittura ridicolo il problema
dell'eterno presente, e forse il concetto stesso di modernità. Se il
"passato che è responsabile di tutto questo" fosse per caso il Novecento
italiano che tutti cerchiamo di scrollarci di dosso, Ingenito lo
ignorerebbe bellamente, ricostruendo un altro passato in cui possono
coesistere tranquillamente Gaspara Stampa e Petrarca, l'amatissimo Hafez
o una sconosciuta (per me) poetessa persiana trecentesca. Ingenito,
come ho avuto modo di dirgli in altra sede, è felicemente antimoderno (o
se volete discretamente inattuale, nel senso nicciano del
termine, cioè agendo "sul" tempo e contro il tempo), l'elemento in cui
si muove è principalmente lirico, direi per forza di cose; il linguaggio
è ampio, anche nei testi più sintetici, e comunicativo. Compagna del
lirismo, spesso orfico, è una certa aria di mito che si respira a
tratti, forse di idealizzazione anche della stessa poesia, che però è
idea forte, quasi (si potrebbe dire senza troppi timori) mistica. Lo
stesso presente, con questa lente, diventa diversamente interpretabile, e
forse sopportabile con meno dolore, come per chi affronta il deserto
con qualche libro nello zaino.
Poi Domenico naturalmente si (ci) ricorda di essere anche un poeta dell'oggi. Come per tutti i ponti la missione del libro è l'attraversamento di un vuoto,
sia che esso avvenga con passi pesanti oppure leggeri come il rapido
camminare sulle acque del titolo. Non so se Ingenito abbandoni con
qualche inquietudine la terra sicura della prima sezione del libro,
"L'angelo e il fuoco" in cui optime manebat, si trovava bene,
ma certo hanno ragione altri commentatori, a cominciare dal prefatore
Tommaso Di Dio, a sottolineare la centralità (il fulcro, direi) de "Il
basilisco", seconda sezione della raccolta, dove proprio la doppia
natura dell'animale, reale creatura capace di correre sulle acque da una
parte e figura mitologica dall'altra, diventa simbolo e veicolo di un
passaggio tra diversi mondi, sguardi, tempi. I passi corti e leggeri del
poeta/basilisco sulla tensione superficiale delle cose sono forma
riflessa in una concisione dei testi (e in alcuni versi folgoranti)
quasi aforistica che è tutta moderna (Di Dio acutamente richiama Porta e
io penso a un quasi altrettanto mitico "Airone"), con un interessante
prosciugamento del testo, come se il passare all'oggi fosse inscindibile
da una frammentata visione dell'evento in cui il linguaggio "deve"
rispecchiarsi (ma gli echi che dalla superficie si diffondono sono
profondi, e il vuoto, gli interstizi, anche per noi lettori vengono
alfine attraversati).
La terza sezione, "La mandragola", sembra riassumere una circolarità
dello sguardo, gettato da quel centro di cui si parlava all'inizio, uno
sguardo che ricomprende, nel parlare di amore forse terreno forse
trascendente o magico, da una parte voci e andamenti della terra da cui
Domenico aveva preso le mosse, dall'altra un linguaggio ancorato
saldamente e senza sbavature alla sua stessa ispirazione. Una parte in
cui la ri-creazione di una tradizione su misura consegue a mio avviso un
risultato di rilievo. Se nella mia precedente nota esprimevo in
chiusura il velato dubbio che la poesia di Ingenito, se "depurata" dalla
potenza di una fascinazione culturale (da cui comunque forse qualche
distanza in seguito si dovrà prendere), potesse residuare in un lirismo
non del tutto originale, credo ora di poter affermare come da certe
affinità elettive sia scaturito al contrario un libro personalissimo e
maturo. (g.c.)
Continua a leggere "Domenico Arturo Ingenito - Per camminare rapidi sulle acque" Lunedì, 5 dicembre 2011Francesco Iannone - Poesie della fame e della seteLibretto leggero, questo qui di Francesco Iannone (Poesie della fame e della sete,
Ladolfi Editore 2011), come sottolinea del resto nella sua breve
introduzione (che però sottotraccia dice più di quanto non appaia)
Gabriella Sica usando così tante volte la parola "lieto", e i suoi
sodali "lieve" e "leggero". Libro di una fame leggera, di una sete
leggera, intese entrambe come "fame e sete di verità" (sempre Sica), ma
che forse assomigliano di più a uno "stupore" molto giovane (Iannone è
del 1985) di fronte a un mondo che sembra appena creato, popolato
fittamente di uccelli e di altre scoperte ("Poco dopo un muretto di tufo
/ la sorpresa di arance grosse e tonde") che lasciano l'autore
altrettanto spesso "lieto e contento" delle sue notazioni, o meglio
denotazioni. A volte ci si imbatte in versi così disarmanti che devono
essere accreditati per forza di un notevole coraggio (" Gesù mio, fa in
modo / che dalla pioggia si salvino gli ulivi / che il vento si plachi e
più non faccia / male agli aranci e agli abeti / e non spezzi la
schiena ai ciliegi / a primavera tanto generosi di fiori"), mentre nel
contempo generano il dubbio che l'autore non abbia ancora davvero
realizzato come vanno le cose in questo piccolo mondo moderno, certo al
crepuscolo ma tutt'altro che crepuscolare. Forse è proprio questa
"ingenuità" (sia detto in senso buono, fresco), questo trovare ovunque
contentezza e gioia e speranza che genera una sua attrattiva e una certa
piacevolezza di lettura (e non dubito che riscuota successi), ma dietro
l'osservazione della natura, dietro i cani, gli insetti, i vecchi
contenti non si intravede ancora il dubbio, la domanda, la rivelazione
epifanica che possono abitare oltre la facciata delle cose, oltre la
loro mera "estensione" nel tempo e nello spazio. In questo senso gli autori
citati negli exerga (Leopardi, Luzi, Gatto, De Angelis) possono dare
importantissime indicazioni, compreso Gozzano, che pur avendo i suoi "uccelletti" aveva anche ironia e azzardo nel trattare "le piccole cose" (e anche il suo - forse - alter ego Totò Merumeni). Quindi c'è lirismo in questi versi, c'è grazia
ma forse c'è ancora un po' di strada da fare affinchè essa diventi la
"violenta grazia" che Gabriella Sica augura a un giovane "contento di
aver trovato la poesia".
Continua a leggere "Francesco Iannone - Poesie della fame e della sete" Giovedì, 6 ottobre 2011Marco Bini - Conoscenza del ventoUn'altra opera prima di un giovane, Marco Bini (Conoscenza del vento, Giuliano Ladolfi Editore). Se c'è un interesse particolare nelle opere prime (specie se di un giovane) è vedere (e l'ho già detto altrove) se qualcosa si sta muovendo, e in che direzione. Se sono insomma speranzose e fertili. Precisando però che credo che la poesia "giovane" non sia una categoria critica né estetica, e che pertanto non goda di nessun diritto - per così dire - di prelazione. Bini, dice Emilio Rentocchini nella breve
prefazione - è un poeta "che non teme la forza della tradizione né il
suo respiro in apparenza desueto e ingiallente". Se la raccolta parte
dal sogno o dalla fantasia esercitata su di un atlante regalato dal
padre, dove è possibile "scoprire persino / una Germania in più del
necessario", poi il libro vira verso altre constatazioni del mondo, che
la conoscenza del vento non basta a navigare, che la lingua non basta a
descrivere, mondo in cui (ancora Rentocchini) "l'onere della vita
costringe al provvisorio, 'tra casa e calvario' , nella precarietà
del pendolarismo: immagine di una condizione esistenziale..." Ecco
quindi che "la raccolta, persa quasi subito l'atmosfera di sogno, si
inabissa nella fuga circolare di un orizzonte di provincia...La poesia
si presenta come epifania e unica scaturigine di senso, anche quando è
una foglia morta che cade o un'impronta sulla neve". Forse non è molto. Non ho da aggiungere o confutare niente rispetto a quanto dice Rentocchini, ci mancherebbe. Dico solo che se si accostano i due indizi, quello della "sicurezza" (anche se da prendere con cautela) della tradizione come un porto sicuro di cui smuovere un pò le acque, e l'altro della "insicurezza" del provvisorio (peraltro così drammaticamente giovanile, una precarietà che lo sappiamo è più sociale che poetica) si ottiene una poesia della rassegnazione. E' questo che dispiace di un giovane, non certo il fatto che, al di là di una sua abilità linguistica o stile, abbia da maturare o altro. Lasciatela - semmai - a noi anzianotti la poesia della rassegnazione. O comunque a chi crede, per filosofia o ideologia, che la disillusione condita con un pò di nichilismo sia una delle forme più alte di realismo, o di intelligenza. E ancora: che epifania può esserci nella osservazione di una
superficie del mondo che non sia - al contempo- più mondi, o di un
territorio che non sia anche, insieme, diversi e più variegati
territori? Ci sono altri paesaggi che - anche metaforicamente - non
siano urbani, nella poesia giovane? Ci sono, per usare una parola di
Rentocchini, altri orizzonti? Continua a leggere "Marco Bini - Conoscenza del vento" Mercoledì, 22 giugno 2011Giuliano Ladolfi - Tradire Verlaine Questo libretto di Giuliano Ladolfi (edito dal medesimo) capita proprio nel momento in cui insieme ad un amico ci accingiamo a tradurre in maniera un po' più sistematica un autore francese non dei più facili. Vedremo quel che ne uscirà. Nel frattempo è interessante dare un'occhiata ai lavori degli altri, come in questa occasione. Tradurre è un'arte e insieme un'aporia, ovvero un problema insolubile. Si tratta forse di mettere in un rapporto di comunicazione il problema con la sua approssimativa (o mediata) soluzione, e l'autore con il lettore "altro", come suggerivano Steiner e altri, "consegnandogli" il significato. Si tratta di operare anche una scelta tra non poche soluzioni, partendo, nel caso della poesia, dal presupposto della peculiarità dell'oggetto artistico. Ladolfi, fin dal titolo e perciò in maniera programmatica, delibera di "tradire" il suo autore, certo a fin di bene. Dice nella introduzione: "Tradurre la poesia è impossibile, perchè il verso contiene sempre un valore aggiunto rispetto al puro significato della prosa (...) la componente musicale delle parole". Nel caso di Paul Verlaine, come Ladolfi avverte più avanti, in questa stessa affermazione sta la ragione di una scelta traduttiva. In fondo imposta dalla stessa poetica di Verlaine, secondo l'affermazione dell'autore che Ladolfi cita: "Musica sempre; anzi è tuo dovere scegliere le parole non senza qualche svista". Quindi per Ladolfi non si tratta solo di "privilegiare l'aspetto che lo studioso considera fondamentale, prevalente sugli altri", ma, per la peculiarità di Verlaine, farne anche la disciplina a cui attenersi fermamente, mettendo in secondo piano la mera corrispondenza lessicale delle parole. Il tradimento di Ladolfi perciò è stato quello di "tradere", consegnare al lettore la musica di Verlaine, forse anche oltre Verlaine, per mezzo (cito) di "una riscrittura completa", che mi ricorda in qualche modo, nel recupero puntuale di ritmi e suoni, Renato Poggioli alle prese con certi testi di Stevens. Ne è uscito un risultato interessante, a tratti coraggioso, talvolta spiazzante, che immagino possa a volte suscitare qualche perplessità o disaccordi in chi ha un'idea diversa della traduzione poetica, o in chi come me pratica una lettura "strabica" e quasi parallela tra originale e traduzione. Ma in ogni caso traspare evidente il rispetto e l'empatia di Ladolfi nei confronti di un poeta che ama. Cosa che in fondo è il primo strumento di lavoro del traduttore.
Continua a leggere "Giuliano Ladolfi - Tradire Verlaine"
(Pagina 1 di 1, in totale 14 notizie)
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