Mercoledì, 29 novembre 2017
Writing-Surrealism (suggerito dalla mostra "I Rivoluzionari del 900",
Palazzo Albergati, Bologna)
Uno degli aspetti più interessanti della sperimentazione surrealista_ tale
che essa appare rivisitata nella mostra bolognese, "I Rivoluzionari del
'900" attualmente a Palazzo Albergati_ è la ricerca di un automatismo nella
creazione, nella “scrittura automatica” per esempio, modalità che libera
l’artista o il poeta dal controllo della ragione intesa come quella gabbia
di pensiero positivista borghese o del retaggio asfittico di una certa
tradizione estetica in inizio ventesimo secolo. L’automatismo, permettendo
di eludere il controllo della coscienza, costituiva una via privilegiata
per attingere a una sorgente più antica, perlopiù inconscia e liberare in
questo modo radicalmente l'arte dai vincoli della realtà quotidiana.
L’artista doveva semplicemente limitarsi a lasciar affiorare le linee e le
forme quasi casualmente nei disegni automatici di Arp e Masson,
nell’universo di segni primitivi di Joan Mirò o diversamente nelle
solarizzazioni e sovrapposizioni fotografiche di Man Ray. Il surrealismo,
liberando in tal modo il potere dell’immaginazione, intendeva riallacciarsi
direttamente alla sfera del sogno, dell’inconscio, in qualche caso
all’allucinazione prodotta dalla follia o al tutto possibile del gioco
d’infanzia.
Nella scrittura automatica, secondo Breton, l’intento surrealista del poeta
è quello di ottenere “ la rivelazione istantanea di tracce verbali la cui
carica psichica si comunica direttamente al sistema percettivo-cosciente”.
Gli accostamenti sorprendenti di soggetti su una tela, la scrittura
prodotta da sensazioni, memorie o idee in libera associazione o gli
incontri fortuiti con gli “oggetti trovati” sono alcune delle vie percorse
dal surrealismo per infondere nuova linfa vitale alla creazione artistica
di inizio novecento. Vorremo leggere qui di seguito alcune delle opere
viste a Palazzo in senso surrealista giustapponendo immagini e parole con
una simile libertà espressiva scaturita dall' incontro fortuito tra la
scrittura le linee, le forme i e colori.
Joan Mirò, “Women and birds”
“Comincio a dipingere e la forma diventa indice di qualcosa”

“E’ la traccia grossolana lasciata da un colpo di spatola nero, una
pennellata spessa e corposa su una tela bianca. La neve si riempie di forme
guizzanti, colorate e libere in un mare cromatico e gioioso, fluttuante
sullo sfondo. Chiazze di colore primario entrano in lotta tra loro come
degli opposti attraendosi e respingendosi senza sosta: rosso ardente e
infuocato, verde genuino, giovane e rigenerante, giallo vivido e
splendente, blu intenso e oltremarino. Al di sopra, una nera impronta si
avvolge a spirale, la trama di un gioco avverso del destino; una nuvola
oscura si propaga attraverso la tela, sopra il taglio netto di una corda
avvinghiante che si annoda su sé stessa fino a soffocarla. Si viaggia
attraverso i sensi nel campo magnetico creato sullo sfondo dai colori
primari: giallo, sensuale forza di vita, rosso essenza-radice, blu
oltremare, azzurro etereo, celestiale come il vagare di una mente nel
sogno, poi la traccia nera a raso, esposta e barrata in esterno sul bianco
candore. Esplosione violenta di un tratto che marca irreversibile e
essenziale.
Continua a leggere "Writing surrealism, nota di Elisa Castagnoli su "I rivoluzionari del 900", in mostra a Bologna"
Giovedì, 6 luglio 2017
Immagini e parole da Joan Miró (partendo da "Sogno e colore" a Bologna
P. Albergati)
“Sogno e colore” a Bologna espone le opere degli ultimi trent’anni
dell’artista catalano Joan Miró, protagonista incondizionato del
surrealismo e del rinnovamento pittorico nel ventesimo secolo con grandi
tele della maturità intimamente legate all’isola di Maiorca dove decide di
stabilire il suo atelier permanente a partire dal 1956. Centrale resta qui
l’ispirazione desunta dalle forme organiche e dal mondo della natura
attraverso gli splendidi paesaggi di Maiorca in una luminosità vivida,
sublimata e riflessa tuttavia, filtrata unicamente in pure intensità di
luce e colore. A partire dagli anni ’60 si assiste infatti a una svolta
pittorica e, insieme, a una metamorfosi plastica della sua opera: Miró
intensifica sempre più il grado di espressività sulle grandi tele e
semplifica progressivamente le linee e i tratti riducendo i motivi
iconografici mentre attinge sempre più a una multipla ricchezza di
linguaggi e tecniche pittoriche tra disegno, collage, scultura ceramica e
l’aggiunta di ogni tipo di materiale: gli “objects-trouvés” più diversi che
riconnettono la pittura alla "non-arte" del quotidiano. All’ insegna della
più totale libertà espressiva, e nella piena autonomia plastica dei segni
un immenso universo poetico si rivela tela dopo tela, fondato su un
linguaggio materico e insieme su un alfabeto di linee essenziali, dai
tratti semplificati e i temi ispirati alla natura. Le immagini oltre
all’apparenza astratta rinviano , tuttavia, sempre più a un sostrato
materico originario, come bagnassero in una sorta di ordito visivo e
magnetico le cui radici affondano nell’ inconscio, nel sogno o nella
visione intuitiva della natura. Tale, la trasmutazione lirica della realtà
per i paesaggi di Maiorca. Le tele di Miró parlano ai sensi e all’
immaginazione evocando libere associazioni di pensiero ma, anche per chi
guarda, la tessitura di un vero e proprio campo visivo; la pittura diviene
soprattutto negli ultimi decenni una forma di scrittura universale,
onnipresente che riassorbe tutto e ogni cosa e la trasforma, la metaforizza
in un alfabeto di segni ora lievi, delicati o minutamente tracciati come
fossero linee di china, ora densi, corposi e materici dati per getti o
pennellate di colore. Le forme naturali appaiono sempre più immerse in un
movimento intrinseco come in una danza di corpi che si muovono in un campo
ritmico e sonoro propri.
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Martedì, 17 gennaio 2017
Frida Kahlo: un universo poetico attraverso l’auto-ritratto ( a Palazzo
Albergati, a Bologna
)
“
Il mio lavoro nel corso di dieci anni è consistito nell’eliminare tutto
quanto non provenisse dalle pulsioni liriche interne che mi spingevano
a dipingere. I miei temi sono stati sempre le mie sensazioni, i miei
stati d’animo e le profonde dinamiche che la vita andava producendo in
me.. rappresentazioni di me stessa che erano quanto di più sincero e
vero potessi fare per esprimere quel che sentivo di me e d’avanti a me
.” (F.Kahlo, lettera a Chavez. 1939)
Basta guardare i ritratti dipinti a partire da un medesimo modello, quello
di Natascha Gelman, collezionista privata della pittura muralista messicana
e prima acquirente insieme al marito delle opere di Frida Kahlo e Diego
Rivera - la collezione privata attualmente esposta a Palazzo Albergati di
Bologna - per rendersi conto dell’abisso stilistico che separa e tiene
insieme i due artisti, allo stesso modo del legame esistenziale e creativo,
spezzato e mai interrotto, al centro della mostra bolognese nella presente
scelta curatoriale . Il ritratto dipinto da Khalo molto più ridotto nelle
dimensioni si vuole intimista e attento al dettaglio, focalizzato in primo
piano sul viso della donna per escludere tutto il resto della figura:
analitico, introspettivo tanto da rappresentare quasi un alter ego della
pittrice assumendone l’intensità e la pregnanza del volto, i tratti
marcati, la medesima fierezza e dignità dello sguardo. La versione dipinta
da Rivera, al contrario, nelle dimensioni molto più imponenti tanto da
occupare un’intera parete, magnifica il modello, la seduzione e la bellezza
del corpo femminile attraverso uno sguardo esterno che rende omaggio alla
donna oggetto di seduzione come presenza iconica, glamour, amplificata
quasi sulla parete in estensione anziché in profondità. Tale la distanza
stilistica che separa la pittura dei due artisti.
Come appare dalla mostra, la pittura della Kahlo è un ritorno ossessivo e
seriale sull’autoritratto nel corso di una vita, ora esorcizzando nella
figurazione di sé momenti o eventi dolorosi, tragici o patologici
dell’esistenza ora, per sublimare una bellezza, un’espressività e uno stile
fuori dall'ordinario. La sua arte si presenta, in ogni caso, come una
pittura dell’interiorità contrassegnata, tuttavia, da una profonda
“americanidad”, quell’appartenenza e impronta all’anima e alla cultura
messicana nelle sue molteplici commistioni indigene, ispaniche e coloniali.
Il lavoro di Frida in stretta sintonia con quello di Rivera si situa
all’interno del movimento di “Rinascita Messicana” tra il 1920 e il 1960,
parte di quel gruppo d’ avanguardisti post-rivoluzionari tra i quali
Rivera, Siqueiros, Orozco ecc.. denominati appunto pittori “muralisti”. Pur
nella sua aperta rivendicazione di un attivismo politico a favore del
rinnovamento del paese e, successivamente di un’ideologia comunista in
Messico, la Kahlo si allontana inesorabilmente dalla concezione di un’arte
pubblica, collettiva e popolare al servizio della rivoluzione che, come
voleva Rivera, svolgesse una funzione politica e sociale di consapevolezza
per tutto il popolo. Perché, la dimensione intorno alla quale si dispiega
tutta l’opera di Frida nel corso di una vita è quella dell’esistenza
stessa, nel suo attaccamento viscerale alla medesima sotto il segno della
sofferenza, dall’infermità fisica e dei ripetuti drammi personali con gli
esiti dolorosi o patologici che ne conseguono. Di qui la pittura è per
Frida dagli esordi carta traslucida e riflettente di adesione e messa a
distanza del sofferente vissuto , mappa figurativa del proprio corpo,
strumento e via privilegiata di “trasmutazione del dolore in bellezza”,
infine un modo per esprimere, dare continuità, o meglio riversare la
densità amorosa e conflittuale della relazione a Rivera in molteplici
figurazione di sé dentro la forma dell’auto-ritratto.
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