Sabato, 2 luglio 2016
Antonio Pibiri - Chiaro di terra - L'Arcolaio, 2016
Nel precedente lavoro di Antonio Pibiri, Le matite di Henze (Lampi di stampa, 2015, v. QUI), avevo
brevemente accennato ad un suo utilizzo dell'indizio, di oggetti, luoghi e fatti da cui far derivare una soggettiva, uno sguardo ascendente o discendente
verso altri livelli, verso considerazioni, conclusioni, spesso non necessariamente correlati, come di un pensiero che vaga, che non procede tanto per
associazioni o metafore o idee che poi verbalizza, ma che talvolta lega l'espressione a un suggerimento che viene direttamente dal linguaggio e
dalla parola, da una intravista possibilità di percorrerli ad libitum, scegliendo di volta in volta ad ogni bivio. In questo Pibiri mostrava un
certo talento, nel riconoscere alla scrittura una capacità di "farsi", di trovare da sé strade inaspettate, e alla parola, a volte con qualche eccesso,
quella di svuotarsi di senso e riempirsi di suono o di un senso diverso e distante, se non di una particolare insensatezza.
In questo libro questo stile sembra riproporsi, tanto che Davide Zizza nella postfazione parla di kènosi, ovvero di "«svuotamento» della parola per
riproporla in un lucore slegato dalla pura referenzialità" ma con l'intenzione di superare le due categorie di sostanza e forma, a cui tradizionalmente un
poeta è legato, e di recuperare una "vibrazione sonora e tersa" dell'enunciato. In effetti al termine di una prima lettura di molti dei testi di Pibiri non
sempre si afferra immediatamente il senso o meglio la funzione per così dire narrativa (o fàtica) che essi hanno. Eppure, al di là di un certo innamoramento della parola che a volte emerge dai testi, bisogna poi almeno riconoscere una qualità impressionistica di questi testi, come se
l'utilizzo del linguaggio fosse più che altro rivolto a rendere le percezioni dello sguardo, le impressioni appunto, il valore iconico della realtà, non
tanto il suo senso, o il mero riflesso delle cose, ma una referenzialità altra e diversa. Non è certo un caso che nel libro si citino diversi
fotografi (Adams, Freed. Cornell Capa, Arbus) ma anche i pittori, il Doganiere o Henri Michaux ad es., ma anche la fotografia non è, non deve essere
necessariamente, immediatamente significativa o documentale, almeno da quando ha assunto valore di arte (lsi leggano Benjamin, Sontag, altri) uscendo dalla
registrazione sociologica. E non casuale il riferirsi alla luce, ai chiaroscuri, ai colori (anche rovesciandone l'apporto: "se nero su sangue è
coccinella"), alle penombre che avvolgono i corpi, alle linee che talvolta non solo danno una forma su cui sostare con lo sguardo ma anche diventano
direttrici dello sguardo stesso (v. come esempio Due studi sul corpo inclinato). In altre occasioni invece, dove necessaria, spunta una scrittura
orgogliosamente assertiva, come in Fragmentation, interessante assemblaggio di versi fatti quasi tutti di frasi compiute, una specie di décollage
alla Mimmo Rotella.
Al di là di queste brevi considerazioni, tuttavia poi a un'idea del mondo la poesia deve corrispondere, anche nel più ostico dei testi,
generalmente parlando. Una strada è seguire i riferimenti culturali (quelli fotografici e pittorici lo sono in relazione all'approccio descrittivo alla
realtà di Antonio), come ad esempio in Cos’è Antigone, cosa non lo è in cui la evocazione del personaggio sofocleo restituisce il senso a un
testo apparentemente inopinato fin nel finale ma carico di senso etico. L'idea del mondo (usiamo questo termine) di Pibiri è per certi versi sur-reale,
anche se in definitiva la sua è una poesia che viaggia quanto meno su due piani, uno che potremmo chiamare sensibile, in cui la realtà oggettuale è
centrale, in cui si afferma una vena lirico-elegiaca (v. ad es. Talismani, tonalismi - e l'accenno ad una tecnica pittorico/musicale ha anche
qui il suo senso) che parla delle ripercussioni dei fenomeni della realtà sulla esperienza del poeta; l'altro che potrebbe essere definito come ricerca
di una metafisica della parola, di una sua fluidità semantica, di quella "vibrazione" di cui parla Zizza, un suono, non necessariamente subito
assimilabile, che proviene dalle cose e dai fatti, ma che comunque punta a quella "altra faccia" che il titolo suggerisce. Una ricerca c'è ed è evidente, in questo libro senz'altro più unitario e maturo, ma è di quelle che
comportano una certa difficoltà e un notevole senso di responsabilità affinchè la parola non si svuoti troppo, precipitando in una kènosi acuta.
L'imperativo è, come scrive lo stesso Antonio, fare in modo "che la parola non sia foglia / a coprire il tuo sesso", non sia una foglia di fico, un
mascheramento, un'omissione, una reticenza del dire. (g. cerrai)
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Giovedì, 7 gennaio 2016
Il 30 dicembre scorso è uscito presso l'editrice L'Arcolaio di Gianfranco Fabbri la silloge di poesie "Il tempo che si forma", prima opera a stampa di Luca Lanfredi, di cui ho scritto la nota introduttiva, che anticipo qui insieme ad alcuni testi di "assaggio".
Come dissi a Lanfredi la prima volta che entrammo in contatto, io ignoro se il tempo si formi (ci sono svariate e opposte opinioni al riguardo), se sia
ciclico o lineare, non so nemmeno, con Agostino di Ippona, che cosa sia davvero, sebbene poi il santo qualche convinzione in proposito l'avesse. Quel che
sappiamo è che in poesia il tempo è uno dei tòpoi più ineludibili, e che soprattutto c'è, sta lì da qualche parte anche se non lo nomini,
lasciandosi dietro un po' di scorie, di accidenti e di casualità, e non si lascia misurare se non in termini di istanti.
Mi pare di poter affermare che quella di Lanfredi sia, in effetti, una poesia dell'istante. Non solo per la concisione dei testi ma anche per l'estrema
sintesi dell'espressione, quasi una riservatezza del dire o, meglio ancora, un senso di inadeguatezza del linguaggio nei confronti di questo dire, come uno
iato tra il cuore e la favella che almeno una volta abbiamo provato tutti, o una supposta mancanza di definizione, per dirla in termini
fotografici, a cui la poesia cerca di sopperire o si arrende.
Il testo tipico di Lanfredi è un istante prolungato, un momento in cui qualcosa si realizza in una sua fugace compiutezza, un frame, come
guardare fuori attraverso una finestra in giornate uggiose, uno sguardo non tanto su oggetti, su una realtà non sempre materiale (sono rari o indefiniti i
luoghi fisici) o su un ambiente in cui la vita agisce le sue dinamiche, quanto su un pensiero, una luce, una improvvisa e temporanea lacerazione di un velo
di Maya. Nella loro brevità, che appare essere del tutto funzionale e organica al pensiero dell'autore, le poesie di Lanfredi suggeriscono da un lato la
parziale visione dell'esistenza che ci è dato di vivere, la nostra impossibilità di vederci nella nostra totalità, dall'altro la vaghezza
autotelica anche di quel poco che riusciamo a vedere. In altre parole una schermaglia dialettica elusione/elisione tra realtà sfuggente e scrittura.
Tuttavia la poesia di Lanfredi non è rapsodica poiché non svaria tra le occasioni, al contrario segue un suo filo di pensiero, una necessità di
speculazione del piccolo per individuare il significato di qualcosa di più grande. Soprattutto sul versante emotivo della vita, nel trascorrere di un tempo
che, essendo come abbiamo detto istantaneo, si realizza per lo più in un quotidiano che Lanfredi dipinge bene e con pochi tratti nel suo inflessibile
riproporsi, nel suo "defluire scostante e senza tempo". Quel che c'è di "occasionale" assomiglia appunto ad uno sguardo che sfiora le cose per poi sfocare
e perdersi verso un orizzonte interiore. Si passa ad esempio nel testo dall'osservazione della pioggia ad una sete dell'anima, all'assenza di qualcosa o
qualcuno; o addirittura assomiglia a ciò che potremmo chiamare un " pensiero di pensieri", cioè un'idea, un'intuizione che rimanda subito ad una piccola
realizzazione epifanica, una impressione (usando qui un altro termine fotografico, e del resto anche l'autore in un punto parla di "istantanee
rubate"). E quasi sempre si segna un passaggio (o una fuga, se preferite) tra una realtà fisica ed quella interiore, non necessariamente una migliore
dell'altra ma che, ammettiamolo, ci trova partecipi come lettori. Tutti, in altre parole, abbiamo sperimentato questo disperdersi, questa perdita di
contatto, al seguito di una mente che aspira a riscrivere una realtà corriva.
Tutti questi passaggi sono veloci poiché, come abbiamo detto, la brevità di 10-12 versi liberi e asciutti è la forma della poesia di Lanfredi, il suo farsi
e il suo perimetro, la sua prassi e il suo stile, entro i quali mette in scena un linguaggio "moderato", per molti versi comune, che da questo punto di
vista potremmo definire "sociale", perché economico, efficiente e non esclusivo nei confronti di chi legge. Giacché io credo che Lanfredi abbia una
convinzione riguardo alla lingua poetica, e cioè che sia strumento - di evocazione più che di sperimentazione - abbastanza potente anche per quel che di
vago, impercettibile e sfuggente c'è nella nostra vita.
L'indefinito, o magari l'indefinibile, è infatti l'altra cifra della poetica di questo libro e forse uno dei suoi temi di fondo. E' quello che mi pare di
percepire scorrendolo: leggendo ci si accorge che è una poesia, questa di Lanfredi, che lascia sospese molte domande (dove, chi, cosa, quale,...) come se
ci si trovasse nel mezzo di una azione scenica già iniziata o gettassimo lo sguardo in un appartamento da un treno in corsa. Siamo spettatori di una
apparizione, non meno di quanto lo sia il poeta, che è il primo a denunciare (in sarebbe come accontentarsi) che "questa vita, poi, [...] appare /
e disappare con uno svaporìo / di indizi", una vita a sua volta disciolta in un fluidissimo tempo/spazio "nel giorno che potrebbe essere dovunque" (in con un tratto di linea i punti). A volte si avvertono, come al di là di una porta, frammenti di conversazioni con qualcuno (dici, avevi
detto,...), spesso senza replica di chi (l'autore) ne registra gli effetti come cerchi concentrici alle sponde di uno stagno (in i vetri, nella
sezione La pronuncia del nome), brani che il lettore è chiamato a ricomporre idealmente; altre volte, come per proustiane intermittenze, cose
minute (uno "slabbrato sentimento dell'istante", un "afferrare le chiacchiere frantumate", un "segno chiuso") precipitano nel giro di pochi versi in una
domanda capitale: "Che cosa faremo, quando non saremo?" (in il narrare del nostro fluire), oppure verso una conclusione apodittica e sconfortata,
un ribadito "Tutto qua" (in ultime notizie; e un altro testo, qua e alle pagine seguenti, esordisce con un identico "Tutto qui").
E' questo palesarsi, in sostanza, che attesta una realtà vissuta in maniera inquieta, proprio perché può essere còlta (e questo è un tratto di molta poesia
attuale) solo per sintomi, più che per cause e radici. Anche la catastrofe, e quindi il dramma, in ragione di quel che c'è di "eventuale"
nell'orizzonte poetico di Lanfredi, può essere insieme istantanea e minuta: "quante volte, la morte è poco più / che un passo non guardato?" magari
nascosta dietro "solamente un gioco di parole", si domanda il poeta (in lettera aperta). La scena è quella di una topografia incerta, anzi
"insicura" dice l'autore, quasi metafisica e insieme ermetico/crepuscolare (ma è poco importante definirne gli ambiti letterari), nella quale, in una sua
"crespa", le parole (o la loro mancanza) sconfinano e precipitano, mentre l'agire si invischia ("piace l'eterna indecisione della azioni", in inventario di una fine estate); o quella di "una stanza vuota (che) non si può dire vuota ma piena di niente" (in qua e alle pagine seguenti), ma che tuttavia vuota non è, anzi, per le ragioni che la poesia deve darsi, vuota non può essere.
Qui, insieme al poeta siamo anche noi, colpiti come mosche da questi segnali intermittenti e affascinanti, da questi istanti significativi; qui, in questa
stanza come mosche "trattenuti, come da un bicchiere capovolto". (g.c.)
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Lunedì, 27 ottobre 2014
Angelo Andreotti - Dell'ombra la luce - Ed. L'Arcolaio 2014
Dell'ombra la luce, e viceversa. Tutto il libro di Andreotti è
costruito su questo movimento altalenante e inevitabile, su questo
dualismo, questa opposizione, in ultima analisi su questa idea,
come un programma prestabilito. Non c'è praticamente testo in cui o
l'ombra o la luce o tutti e due (o le loro isotopie) non appaiano, in
quella che potrebbe sembrare come un'ossessione per l'autore, una
sostanziale reiterazione del tema per pressoché tutti i trentanove
componimenti della raccolta. E sembrano apparire di continuo come se
l'autore sentisse il bisogno di lasciare una imbastitura visibile, come
un filo di cucito che però il sarto si è scordato di tirar via.
L'opposizione luce/ ombra, con tutte le gradazioni intermedie, è
vecchia come il mondo e proprio per questo nel tempo ha acquisito in
tutte le culture una varietà non indifferente di significati simbolici e
metaforici. E' di fatto un archetipo di un sistema binario che va da
sole/luna a uomo/donna a yin/yang fino a eros/thanatos e al campo
psicologico come nel caso dell' "ombra personale" di cui parla Jung.
Non è chiaro quale senso o sfumatura assuma questo binomio nella poesia
di Andreotti, forse tutti forse nessuno. O forse non è nemmeno
importante stabilirlo con precisione. Ma io credo che alla fin fine
quello che inquieta veramente Andreotti - e anche noi - sia la
ciclicità in cui siamo prigionieri, in altre parole il tempo. Se questa
alternanza segna il tempo, come è fin da quando l'uomo ha cominciato ad
averne cognizione, allora la raccolta assomiglia molto ad un uomo
meditabondo seduto davanti ad una finestra. Il suo sguardo rivolto
all'esterno, attratto da una fenomenologia ricorsiva e ineluttabile su
cui facciamo però affidamento (il terrore dell'uomo primitivo che il
sole non ricompaia al mattino), è come se tuttavia rimbalzasse sui
vetri, ripercorresse l'occhio all'indietro e all'interno. Il tempo è in
fatto e sostanza una meditazione sulla morte, sulla finitezza
dell'essere o comunque sul passaggio irreversibile degli eventi.
L'avvicendarsi di luce e ombra è come un reagente, un attivatore del
"pensiero debole" poetico di Andreotti su fatti e cose, anche
oggettivamente minuti. L'uomo guarda fuori dalla finestra luce e ombra
che scorrono e pensa.
Io credo che questo ci sia nella poesia di Andreotti, ma di certo c'è
quanto meno anche un pensiero "altro" che riguarda per così dire la
potenzialità dell'ombra, della parte umbratile di noi, quello che
dobbiamo scoprire, appunto mettere in luce. Del resto il titolo sembra
suggerire un rovesciamento fenomenico e quindi metaforico, la luce
dell'ombra, proprio in questo senso. La luce di senso che l'ombra getta
sopra i nostri errori, la scelta della strada meno battuta come ebbe a
dire Marcel Proust, ma anche l'ombra dalla quale è possibile estrarre
per sottrazione la luce che irraggia le cose, come nella pittura
caravaggesca (e anche lì, a ben pensarci, non è che il fermo immagine di
una transizione temporale in cui scocca la rivelazione, come nella
"Vocazione di San Matteo").
Ripeto, io credo che tutto ciò sia presente nella poesia di Andreotti. O
forse vorrei che ci fosse, la mia può essere che sia una proiezione.
Perché in realtà questo dualismo di cui parliamo si subisce o si
trascende - come è sempre avvenuto nella cultura umana - mettendolo in
metafora. E nella poesia di Andreotti non sempre è così, qualche volta
viceversa si ha l'impressione di rimanere un passo indietro, o in
bilico, come se quel vetro a cui accennavo prima ci rimandasse sì a una
considerazione intima e introspettiva, ma ci precludesse - magari
salvandoci - la visione dell'abisso che il più delle volte ci indossa.
L'idea affascinante di una declinazione del tema e le sue varianti
sembra alla fine non permettere all'autore di calarvisi completamente
dentro, di farsi dramatis persona di questo dualismo insieme
generante e lacerante, magari ponendosene al centro, farsene personaggio
più che narratore/descrittore. Intendiamoci, questa è solo un'opinione e
certo può darsi che la mia aspettativa sia semplicemente diversa da
quella di molti altri lettori. Ma non nascondo che c'è qualcosa che mi
turba in questo libro e che preferirei che, invece, mi perturbasse. E'
forse quell'aria di serena acquiescenza che però da una parte non arriva
a una "rivelazione", dall'altra conseguentemente spesso non scalfisce
la superficie dell'io per arrivare a una reale cognizione del dolore
esistenziale, della sostanziale inanità dell'uomo di fronte a questo
ingranaggio del tempo che luce/ombra simboleggiano. Come un sasso che
rimbalza sulla superficie di uno stagno quello sì oscuro. Bisogna però
mettere in conto onestamente che ciò possa corrispondere ad una scelta
precisa dell'autore. Una eventualità che del resto è suffragata dalla
scelta formale, che certo può piacere, di una poesia saldamente lirica,
forse tradizionale se volete, che evita punti di frizione o "critici",
ben costruita dal punto di vista della prosodia, con una scelta
lessicale in cui la semplicità articolata in versi spesso musicali è
punto di forza, con testi che "cascano" bene come un abito tagliato a regola d'arte. Un lavoro insomma lontano - e questo è certo in questo
caso un merito - da una poetica dell'inquietudine individuale e
post-postmoderna, un po' ripiegata sul quotidiano e sull'oggetto, come
se ne legge tanta in giro. (g.c.)
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Mercoledì, 17 luglio 2013
Fosca Massucco - L'occhio e il mirino - Ed. L'arcolaio 2013
Di primo acchito questa raccolta di Fosca Massucco dà l'impressione di
potervi rinvenire una buona dose di crepuscolarismo, a partire da una
vena gozzaniana che a me pare persistente in molta poesia attuale, per
quanto qui ampiamente modernizzata e con meno ironia. C'è altro
naturalmente, ma vediamo per ora di partire da qui. E cioè dal fatto,
per me indubitabile, che le "piccole cose" abbiano un ruolo centrale in
questa raccolta e nella poetica dell'autrice, piccole cose o eventi o
fenomeni o la ricerca e la cura di "apparizioni" della natura solo in
prima istanza minimali. Che queste "piccole cose", intese in senso
generale, poi possano essere di conforto o di inquietudine o riflessione
(meglio diremmo meditazione, per ragioni che vedremo) è in ragione
della volontà di Fosca di farsene investire e riempire o
viceversa di dominarle intellettualmente. Non uso a caso il termine
"volontà" poichè a me sembra che talvolta ci sia, in questi testi, un
intento a ricercare il momento, l'occasione, la scintilla emotiva o
perfino un satori, un'illuminazione. Nessuna occasione
montaliana, per intenderci, semmai la ricerca di una epifania, di una
agnizione. Con una certa avidità, direi, che però è avidità di vita,
spasmo della poesia, quando si manifesta, all'interno di essa. E questa
ricerca, se non modulata, può portare alla costruzione del
momento illuminante, come ad esempio in questa breve poesia che richiama
il "Campo di grano" di Van Gogh, testo in cui - cosa a cui alludevo
prima - è l'intelletto (la cultura) a dettare il verso e anche, in modo
non secondario, la forma, con quella cesura a contrasto rinvenibile in
tanta poesia giapponese:
Il genio dell’uomo è foggiare
rotonde balle di fieno
immote in una laguna
d’erba disseccata.
La perfezione di dio
è disporre sopra due corvi.
L'occhio e il mirino non sono che due facce della stessa medaglia, anzi
meglio, della stessa identità, secondo una vulgata tipicamente
orientalista, come la freccia e il bersaglio nel noto libretto di Eugene
Herrigel. La poesia da cui il titolo proviene afferma appunto "Così
sono io, l’occhio e il mirino", ma avverte anche che "l’occhio è un
mirino, a fissarlo [l'arcobaleno] non lo scorge". C'è quindi, in questi
due versi, tutta la coscienza proprio di ciò a cui accennavo prima, del
limite cioè della poesia come atto creativo volitivo, della necessità altresì che l'io si defili o si fonda, anneghi, nella scrittura, senza "fissazioni".
La ricerca, in questa silloge, è sul piccolo, la voglia è di
scoprire la meraviglia in un petalo, il senso in un alito di vento.
Tanto spesso ci imbattiamo in questi testi in "oggetti poetici" come un
pruno soave, una vespa, una rosa, una lumaca, il fuoco nel camino, fiori
nel giardino, formiche, corvi, sere agostane, mandorli, bossi,
ginestre, colline. Ma qui è singolare notare come tutte queste cose non
siano più gli antichi simboli della tradizione occidentale, ma oggetti
che devono essere (in sé e quasi ideologicamente) portatori di
un senso ("Deve trovarmi pronta l'armonia / delle cose - / un gatto un
falò, un inverno / o pressappoco - / prima che cambi idea"), veicoli di
una dimensione ulteriore a cui con l'occhio e il mirino si possa
accedere. Perciò l'autrice, in buona parte del libro, sembra tesa alla
creazione di un microcosmo il più possibile felice (o, forse meglio,
moderatamente infelice) e forse alieno all'esterno, in cui il sentimento
predominante sembra essere la malinconia o una "serena" inquietudine.
E' in questo hortus conclusus che si esplica gran parte del lavoro
poetico di questo libro, che Fosca svolge e dipana senza
"improvvisazioni nella sua scrittura, ma con misura e armonia" (Dante
Maffia, nella prefazione), ma anche con notevole maestria linguistica e
prosodica la sua poesia "solitaria". Eppure, anche se così può essere,
bisogna infine che il poeta ceda, si faccia trapassare dalle sue
esperienze, che l'io, come dicevo prima, "fonda".
Per fortuna (non è, secondo Aristotele, il tragico l'elemento più
interessante in arte?) il microcosmo si incrina: c'è qualcuno, qualcosa
là fuori, succedono drammi piccoli o grandi di cui le cose sono
spettatori impotenti. Ed ecco, nei testi migliori, quelli che
preferisco, alcuni dei quali di notevole intensità come ad esempio Sono stanca di essere stanca oppure E quando pensavo di averlo trovato
(v. più avanti), ecco che l'autrice diventa meno spettatrice
meditabonda, meno "poetessa del particolare" (Luigi Papandrea, nella
postfazione) e si fa più soggetto attore di una vicenda che può
appartenere a tutti coloro che la leggono. (g.c.)
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Mercoledì, 21 novembre 2012
Supernova, di Fabiano Alborghetti (L’arcolaio 2011)
Il Poeta ha un appuntamento fisso con il dolore e anche se non è un credente leale non cela la ricchezza del suo rapporto arcano e spirituale con il mondo.
La morte, intesa come assenza, distacco, abbandono, passaggio, esalazione, sublimazione, nuova vita, è una poesia a metà come un crocifisso ancora vivo
inchiodato sul lato del cuore: nella bellezza di esistere si racchiudono concetti multipli e infiniti come i desideri o i fenomeni concettuali
legati all’assoluto. Nella poesia di Fabiano Alborghetti l’infinito e l’assoluto sono attestati nelle persone che soffrono e che forse ‘amano ciò che non vedranno una seconda volta’. Si tratta, dunque, di sguardi puntati sugli esseri umani e non sugli oggetti da possedere o
costringere: il progetto poetico è quello di unire le funzioni ordinarie biologiche al tentativo di opporsi e non astrarsi dalla realtà crudele del
destino. Estrapolare il senso non dai versi, ma dalla singola parola poetica come per sviscerare metafore che appartengono alla scienza psicanalitica:
sembra che ci si appropri del desiderio di appartenenza all’amore come un permesso alla libertà di esporsi con la pelle e la concettualizzazione del
pericolo del contagio mentale. E’ vero che ogni poesia è vittima del suo autore? (Yves Bonnefoy) Se così fosse ogni poesia è il fallimento della poesia, ma
il momento semplifica la testimonianza della coscienza e delle immagini che si riproducono, ogni volta, nuove. L’opera Supernova di Alborghetti
supera e sopravvive al surrealismo. Se la ‘stella nova’ esplodendo raggiunge una luce armoniosa considerevole il tempo nell’universo e la stessa galassia
contaminata dalla luminescenza folgoreranno la poesia. La poesia diventerà un tutt’uno con la vita e l’esperienza umana fino ad arrivare con semplicità
consapevole allo stupore emozionale: le cose che appartengono al dolore saranno connaturate di enigmi suggestivi e percettibili agli animi
prescelti.
Si tratta di un linguaggio poetico che non prescinde dalla filosofia interpretativa del simbolismo per immagini: Supernova rivaluta il concetto di
dolore come varco per arrivare alla saggezza dei propri limiti. (rita pacilio)
Continua a leggere "Fabiano Alborghetti - Supernova, una nota di Rita Pacilio"
Martedì, 23 ottobre 2012
Da un po' di tempo ormai amo leggere i libri di poesia cercando di estrarvi
una campionatura, un significato che vada al di là della mera
testualità, una direzione, un'idea del futuro. Procedo per estrazione,
spuntando quello che non solo mi piace ma che anche indica un'idea,
un'intenzione, una volontà dell'autore di andare oltre l'immagine -
magari mitica - che egli ha della poesia (e della parola) come attività
del tutto peculiare.
Apro il libro di Gabriele Gabbia, un giovane
esordiente ("La terra franata dei nomi", prefazione di Mauro Germani,
L'arcolaio, 2012). In questa raccolta. i cui testi hanno una numerazione
progressiva che travalica le sezioni, e quindi un continuum, la prima
sezione "Diatribe dal ventre", dovrebbe forse essere la carta di
presentazione delle intenzioni, se non della poetica, dell'autore, o di
quello che seguirà nel libro, o del significato del suo misterioso
titolo. La prima impressione che intanto ne derivo è come di uno scaldarsi i
muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con qualche spinta a
tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la parola - sempre - non
è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile).
In questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che
ritengono che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca -
anche a costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una
originalità prima di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima
sezione traspare l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello
che si percepisce, un concetto più nihlista di quello del Bernard de
Cluny (stat rosa pristina nomine...) citato da U. Eco: il
legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il poeta
fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare segnata -
nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse da una
terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno più
nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non
esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice
d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica
dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si
palesa) c'è quindi il nulla.
"Nulla", con le relative isotopie, è uno dei vocaboli più presenti in
questo libro. Ci si può domandare con qualche sgomento che cosa conduca
un giovane a un "nulla" certo non mistico. Se contemplare il nulla
(anche come oggetto poetico) è una resa o una scorciatoia, si può dire
per paradosso che il nulla nasconde qualcosa, o del reale o dell'autore.
Germani acutamente cita Jabès: "la scrittura non è mai una vittoria sul
nulla, ma l'esplorazione del nulla attraverso il vocabolo". Ecco qua,
ecco che ci si inoltra nel libro. La scrittura, che nella prima sezione
sembrava rigirata tra le dita, per quanto abilmente, come un giocattolo
nuovo, riprende il posto che le compete, la sua funzione analitica,
l'esplorazione di quel poco di realtà (dolorosa, vissuta, tangibile) che
pure sarà sopravvissuta in questo nulla. Certo, sono frammenti,
lacerti, lembi, brani (come afferma il titolo di una delle sezioni),
come si conviene a una poesia che si colloca nel solco ormai canonico
della crisi (ne usciremo mai?), che prende atto ancora una volta di una
collocazione fin troppo periferica dell'uomo rispetto alla sua stessa
esistenza. In quanto lacerti i testi sono brevi, sintetici, in molti
casi come stele; se la parola viene infine trovata "tu / non gualcire
quella parola", dice Gabbia, perchè non molte altre ci son date, con
quella dobbiamo innervare nuove radici. Poesia del poco, della
parsimonia. Ma i lacerti ci sono, e ci testimoniano che il nulla in
verità è popolato dai brandelli di realtà a cui solo la coscienza ha
dato un senso durante la nostra esistenza. La parola finalmente si
aggancia ad essi, vi si àncora, si ricarica di senso, e così facendo illumina gli angoli.
Talvolta è il corpo ("un ceppo", "vascello abbandonato") il terreno su
cui la coscienza forse recupera il sé, forse si dimostra fallace,
talvolta lo strappo di perdite o il confronto di un io disperso,
esistenzialisticamente conflittuale con gli altri, la voce lontana della
madre che intona le sue preci, il padre la cui assenza è come un'orma
in un'auto vuota: niente altro che "spettri", come titola un'altra
sezione, ovvero presenze o ombre non dissimili da quelle proiettate
sulle pareti della caverna platonica. Se qualcosa resta, nel nulla, è
solo per quei nomi che è stato possibile salvare.
Continua a leggere "Gabriele Gabbia - La terra franata dei nomi"
Giovedì, 3 novembre 2011
Viola Amarelli è
stata più volte presente in queste pagine, per cui è quasi necessario
rimandare a quanto ho scritto in quelle occasioni (v. il tag "viola
amarelli") almeno per alcune cose che rimangono presenti nella sua
scrittura. Inoltre alcuni dei testi pubblicati in questo suo nuovo libro
(Le nudecrude cose e altre faccende, Ed. L'Arcolaio, 2011)
erano già passati di qui poco più di un anno fa, mi riferisco a "incendi
occidentali". Il che in parte costituisce anche una piacevole
rilettura e forse una riflessione.
Viola
non ha mai frequentato, fin dalle sue prime prove, una poesia delle
occasioni, o prevalentemente lirica, o elegiaca (semmai oracolare), o
rapsodica, e ogni suo libro è frutto consapevole di un'idea, e un
progetto nel senso pieno del termine. Compresa anche una speciale
attenzione per la forma, che va di pari passo con (ed ospita e assiste e
nutre) l'idea o le idee che muovono la sua ispirazione. Non è perciò un
caso che l'epigrafe posta in apertura sia insieme una lucida
dichiarazione di intenti e una (possibile) chiave di lettura, una
asserzione di Antonio Porta ("Non mi sono mai appagato di una forma, ho
sempre cercato di provocarne molte"). Naturalmente qui, come in Porta,
la forma è funzionale a quel che si dice, è parte significante del
dettato, anzi è una sua "dilatazione". E ancora, la "provocazione" della
forma è dinamica, varia nel corso del libro. E' cioè espressiva, come
un volto che muta con le emozioni. Forme in movimento: grave, andante, presto sono
annotate le sezioni del libro.Quindi poemetto quando è necessario,
prosa poetica o verso lungo quando il respiro ispirativo o il racconto
lo pretendono.
Le
"nudecrude cose", quelle che come dice l'autrice "se ne fottono o, più
esattamente, restano imperturbabili", sono il protagonista latente di
questo libro, come un'ombra nella fovea dell'occhio. "Cosa" come
sappiamo è un termine tanto generico quanto inquietante. "Cosa" non è
"oggetto", è un quid insieme ineluttabile, destinato e sopratutto più
longevo di noi, che va oltre la nostra esistenza, e non c'è, direbbe
Bourdieu, "persuasione occulta" più potente di quella del semplice
ordine delle cose. Ma l'ordine della cose, dice Viola, è un caos che si
riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di
prospettive annichilenti. O anche la semplice apparizione, per quanto
carica di segni pitici, di una campagna d'inverno in cui un sé inquieto
si rispecchia. Sempre, o quasi sempre, la donna o le donne al centro di
questa poesia: che vivono le loro paure, che aspettano i loro uomini
fuori da un carcere, attraversano piazze, tirano ironici bilanci
fallimentari delle loro lotte, si affacciano "sull'orlo della fine",
vivono la loro "ora delle passioni e del deliquio" o la zona d'ombra
delle loro malattie, personaggi e interpreti (e cito i titoli delle
sezioni) di convivenze, cure, strabismi, congedi. Ma quello che
Viola vuole dire è che le nudecrude cose, se pure se ne fottono, "hanno
una loro bellezza, anche quando distorte, lesive, a volte mortali",
sono popolate da un "dio disperso". Devono essere vissute. E descritte.
Forse riordinate. Lo dice con un nudocrudo stile, pulito e personale,
inventivo nel lessico ma non autoindulgente, mai esondante, mai
eccessivo, neppure nei testi più lunghi che qui non ho inserito ma che
Viola sicuramente predilige, e soprattutto privo di ammiccamenti, di
furbizie di mestiere. Sotto molti aspetti un libro pensato per sé, un
libro di bilancio che Viola doveva scrivere, che doveva al suo personale ethos umanistico, alle sue sofferenze, per capire. Dice Amarelli nel bellissimo testo finale, "a latere",
qui non riprodotto: "...la scrittura è dall'origine un fissare, un dar
conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo: il
"cosi è" artistico (...) Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce
da un flusso e si risolve in un flusso, quasi una sorta di processo a
"doppio cieco". Se il primo flusso è quello esperienziale, il secondo è
uno sguardo che trabocca (...) Si presta voce a un mondo, a una faglia,
all'innervatura di un picciolo, ci si illude, perchè il mondo resta
tutto...(...) E' la scrittura spugna, materia che respira: quello che
hai ridai. Per questo ogni poesia è sempre, dannatamente, anche nolente,
politica". Vedete? Il progetto, l'idea...
Continua a leggere "Viola Amarelli - Le nudecrude cose e altre faccende"
Mercoledì, 18 maggio 2011
Cer cherò di essere il più breve possibile,
seguendo il consiglio di Filippo Davòli nella prefazione a questo libro
(Jonata Sabbioni, Al suo vero nome, L'Arcolaio 2010): niente logorroiche disamine introduttive ai testi.
Non
so se, come dice Davòli, Sabbioni appartenga a una "linea marchigiana".
Molto probabilmente la "linea" non esiste, come sosteneva anni fa
Davide Nota (v. QUI), almeno nel senso che probabilmente esiste una
molteplicità di "territori" paralleli, quasi nessuno dei quali ha una
connotazione meramente geografica.
Quella di
Sabbioni è una poesia rivolta a una riflessione spirituale, in cui il
poeta si pone spesso al centro di una pluralità, un "noi" a cui sente di
appartenere. L'attenzione non è tanto rivolta alla realtà circostante,
alle cose, quanto a quella immanenza che traspare dietro di esse, segno
di una presenza a cui Sabbioni accenna timidamente, con semplice
parsimonia (anche linguistica), come se non riuscisse (meglio, non volesse)
rompere la crosta delle parole. Questa riflessione spirituale per la
verità non appare problematica o critica, come ad esempio nel Giuda
di Lorenzo Carlucci (v. QUI), ma più come una serie di piccole
meditazioni in cui lo sguardo supera l'orizzonte mentale, cercando di
scrutare qualcosa di percepibile o un senso, in una lontananza infinita.
A volte è un pensiero del pensiero, se mi si passa il bisticcio. Altre,
si ha l'impressione che l'idea rimbalzi su una superficie
apparentemente penetrabile scivolando altrove, o che paghi un tributo a
un convincimento a priori a cui dare voce poetica. Tuttavia questa è una
poesia che, non ostante la sua semplicità quasi programmatica, richiede
una rilettura immediata, come se ci cogliesse il dubbio di qualche
importante sottinteso. Così il linguaggio semplice a cui allude Davòli
nella prefazione filtra una necessità di trascendenza, di spiritualità
abbastanza inusuale nella cosiddetta poesia giovane, e non possiamo
negare che questo sia uno di quei possibili territori a cui si
accennava prima. Ecco quindi, citando i testi che ho scelto, che anche
semplici constatazioni o memorie (sui luoghi della memoria stanno le pietre), preghiere intime e sommesse (non verbo), la visione di vuoti, insensatezze, solitudini, paesaggi urbani, impermanenze moderne e post moderne (la gente ha dissolto tutto..., alle sponde della luce..., Archeologie, Albergo, solo Dio ci basta...)
poi esprimono poeticamente, con modalità ancora saldamente ancorate in
una rassicurante tradizione (forse Sereni come dice Davòli, forse Luzi)
un percorso, una strategia di avvicinamento "al suo vero nome", forse con l'incertezza e il dubbio di un Tommaso ("La parola è la carne / se ci affondo le dita..."), ma leggera e umana.
Sui luoghi della memoria stanno le pietre come il nostro confine. Sulla strada che si interrompeva prima di arrivare, figure in nero, anfore in velluto, salutano il corteo degli sfuggiti. Le automobili, scaricate con le corde, sono un cargo irrituale per questo porto antico. C'è odore di nafta. E pure di mirto. La frontiera è appena conquistata. Dal belvedere si apre la laguna: la chiglia nera, a sei rematori, porta la vista, in un fondo che ancora non si vede. L’aria, col sale disciolto, avvolge d’ambra le vecchie stazioni e la prima ruga, come pagina chiusa sulla scena della rovina.
Continua a leggere "Jonata Sabbioni - Al suo vero nome"
Martedì, 30 novembre 2010
"Arte dello scarabocchio fatto con gomma e matita, la poesia ch e si
può fare e rifare (..,) mi ha sempre incuriosito", dice Lorenzo Mari.
Una curiosa dichiarazione di poetica, che presupporrebbe altre prese di
posizione, molto più radicali di quanto appaia dalla lettura di questo
libro, o altri mezzi di espressione. Ma se si sta alla scrittura poi
alla fine ci si rende conto, proprio come luì, che "per assumere
responsabilità e firmare con la x bisogna qui fermarsi un attimo,
prendere fiato e attraversare una minuta di silenzio". In altre
parole, una inquieta diffidenza nella parola (non in sè ma in quanto
immersa nella ormai canonica fluidità del mondo) deve prima o poi
fissarsi in una espressione, farsi magari carta. E diventare il quel
momento "definitiva". Si lascia al silenzio, alla riflessione interiore,
di fare la parte del foglio bianco mentale, della minuta su cui rimarranno, però ignote ai più, tutte le varianti immaginate.
Il
compromesso è (in Mari come in altri, ed è questo che mi interessa)
una poesia del provvisorio, del fenomenico, dell'incerto, evidenziata -
anche - da una scrittura che mima a volte il flusso attraverso le
associazioni o le isotopie (in un testo: scatto, erectus, sprazzi, ictus, ics, rictus) e che connota la difficoltà del vivere con un andamento scazonte, con concrezioni di senso in parole altrettanto "difficili" (trisma, glosse, prossemica, scialorrea, disforico, ecfrasi) e pertanto ugualmente (nell'immediato) indecifrabili. L'occasione non è quella montaliana, ma è in larga misura l'evenienza o
i suoi epifenomeni e la conseguente epifania (come, in certa misura ma
con differenza di stile, in Giovanni Catalano v. qui). L'osservazione
poi porta a riflessioni originali, come nel testo, qui presente, "L'uomo
che cade", in cui una storia dialogata (e, perchè no, recitabile) che
sta tra Newton e Magritte e che prende spunto, credo, da un evento ormai
infitto tragicamente nel nostro repertorio di immagini, si realizza in
una piccola operetta morale sul concetto di realtà e sur-realtà. In
altri casi è l'oggetto che assume una valenza simbolica, come in
"Passaggio" lo è il libro come testamento, l'opera come speranza di
passaggio, anzi meglio, di tragitto à rebours dell'autore in
marcia verso il "ponte maledetto" della morte. O le cose, gli oggetti
indifferenziati e innumerevoli che popolano la nostra vita, che in "A
fare maglia" costituiscono una specie di tela di Penelope senza
destinazione, ma anche ci circondano senza attenzione (e quindi senza
significazione, v. qui "Sermone di distrazione"). In altri casi ancora,
come in "Tell" in cui l'arciere tratteggia l'idea del
significato dell'atto, della sua coscienza, del suo controllo anche
amorevole che può essere senz'altro applicata allo stesso atto creativo e
artistico, la metafora si fa dichiarazione di poetica.
Tuttavia, di fronte a tutto questo, rimane l'inquietudine che si
diceva prima, riguardo a una scrittura "definitiva" che spesso l'artista
(in generale e anche Mari) percepisce come un limite e che a volte
lascia qualcosa di irresoluto o il dubbio che nelle catene delle parole,
delle associazioni, delle assonanze, dei significanti possibili sia
rimasto fuori qualcosa. Un'inquietudine, qui, a sua volta ragionata e
riflettuta. Così in "Necessità delle riconsiderazioni" Mari appronta un
testo che a me pare possa essere interpretato - anche - come
interessante metafora della scrittura come processo e giudizio che passa
definitivamente in giudicato e pertanto va attentamente considerato, e
tuttavia rimane aperto ("l'inganno del punto fermo") almeno per il
travaglio che è costato ("tutto il sudore addietro"). Aperto e fecondo,
perchè comunque bisogna (vedi "Nell'iperbato culla") "coltivare l'amore /
nella spezzatura, / nella riserva di voce", in altre parole dire "ciò
che non è stato / ancora detto".
Continua a leggere "Lorenzo Mari - Minuta di silenzio"
Giovedì, 2 settembre 2010
Su questa raccolta di Enrico De Lea (Ruderi del Tauro, Ed. L’Arcolaio 2009) sono già state fatte, in almeno due occasioni, interessanti osservazioni,
che posso in gran parte sottoscrivere. Se Sebastiano Aglieco nella sua postfazione parla di "parola scortecciata" e insieme salvata, "arginata", e di
un testo "stratificato, ma anche connotato in una lingua - lingua difficile la definirei", Federico Francucci su Atelier (n. 46/2007) rimarca invece
una "duplicità linguistica, una lingua biforcuta", nel senso di una lingua dell'uso e delle cose da una parte, e dall'altra la stessa lingua dell’uso
ma "sottoposta a un’opera, tutta in negativo, di raschiamento, sottrazione" che consente "l'inabissamento delle parole nelle parole" (e questo vedremo
che significato potrebbe avere).
Aggiungerei semmai qualcosa, partendo dalla constatazione che, a mio avviso, il principale protagonista di questo libro, al di là delle sue
articolazioni e dei suoi riferimenti oggettivi, è il linguaggio. Questa affermazione necessita già, di per sé, di un chiarimento. Non si tratta di
sottolineare infatti la rilevanza, in questa raccolta, del linguaggio e del suo uso strumentale e artistico, come mezzo cioè di espressione o
di denominazione, ma piuttosto la sua selezione, la scelta che l'autore ne fa selezionandolo, per poi collocarlo o spostarlo nell'ambito della
narrazione poetica, che va vista qui però come ambientazione (o collocazione) del protagonista principale, appunto il linguaggio. In questa
prospettiva si possono almeno delineare alcune funzioni o caratteri del linguaggio poetico di De Lea. Ma prima occorre segnalare, che mi pare
importante, una doppia distanza, geografica e antropologica, che marca l'esperienza di De Lea, il sud natale e il nord in cui vive, i mestieri
artigianali e legati agli elementi acqua/terra e l'acculturazione e una professione di quelle in cui tra l'altro il linguaggio è rigidamente normato.
Ma torniamo alle funzioni.
C’'è nella partenza dalla terra natale un abbandono di forze ctonie? o un senso di sradicamento che in qualche modo si teme di pagare? l'allontanarsi
dal luogo di origine è anche e contemporaneamente il riconoscimento di un genius loci a cui dare tributo? è inoltre, se vogliamo, una diminutio
della propria identità e insieme un distacco per trovarne una nuova? è possibile volgere senza timore lo sguardo verso materia/Euridice? Credo sia
possibile percepire nel lavoro di De Lea tutte queste domande, e forse altre. Mentre non so, davvero, se sia possibile trovare altrettante risposte.
Sta di fatto che mi pare di scorgere sotto traccia, ne I Ruderi e nel loro linguaggio, un che di apotropaico, almeno nel doppio significato di
scongiuro e di tenere a (debita) distanza. In questo senso, ciò che dice Francucci circa “l’inabissamento delle parole nelle parole” è coerente e
funzionale. Il linguaggio si fa non tanto mimetico e sfuggente quanto misterico e sibillino, le parole stanano e rovesciano le parole, le caricano di
una forte valenza simbolica. Da qui alla creazione di una specie di mito o mitologia delle radici, alla loro “sacralizzazione”, la distanza non è
molta. Se ammettiamo che questa funzione apotropaica del linguaggio (fosse essa nelle intenzioni di De Lea o meno) sia vera, superiamo anche quella
sua “difficoltà” a cui accenna Aglieco e ne attestiamo il valore artistico, proprio perché sostanzialmente diverso, diversamente motivato e molto meno
“freddo” e artificiale rispetto ad “altre prove di scrittura difficile di questi anni” (cito sempre Aglieco).
Su un altro, ma non lontano, versante, mi sembra di cogliere altri spunti. Quello che mi è risultato inevitabile, leggendo questo libro, è tornare con
la mente al buon vecchio Freud.
Non si tratta qui di fare dello psicologismo di seconda mano, ma di cercare di individuare meglio (in primis per me stesso) certe impressioni, per
quanto - ammetto - azzardate. Potremmo dire intanto con una boutade che se l’inconscio è strutturato come -> un linguaggio (Freud, Lacan, altri)
c’è qualche probabilità che questa corrispondenza, in determinate condizioni, agisca anche in senso contrario. Che l’io in questo libro sia
sostanzialmente censurato come protagonista è incontestabile. Da questo fatto mi era parso di intravedere come fossero state assegnate al linguaggio
almeno altre due funzioni: una di dislocazione (o di spostamento, se preferite), che non è solo geografica ovviamente, come quella tra nord e
sud. Avviene invece, per definizione accademica, quando il pensiero centrale (in questo caso di chi scrive) viene posto ai margini e sostituito con
frammenti, icone, simboli o, come nel caso di De Lea, con parole od espressioni di pertinenza di quella cultura, di quel locus di cui si diceva
prima e perciò dense e stratificate e mitiche. Tutto materiale che a sua volta, nello spostamento, diventa centrale nella rappresentazione, marcandola
di tracce identificative. Un’operazione, se ci si pensa, eminentemente poetica, perché ellittica, elusiva, ammiccante, impressionista.
Un’operazione – anche – che potrebbe essere avvicinata a quella metonimia a cui Lacan, un po’ arbitrariamente, accostava lo spostamento.
L’altra funzione che potremmo richiamare, sempre con il beneficio del dubbio, non può che essere quindi quella della condensazione, che si accosta, se
vogliamo continuare a tirare in ballo Lacan (e Jakobson) alla metafora. Il lavoro di De Lea è senza dubbio vastamente metaforico, a cominciare da tutti
i riferimenti culturali e semantici del suo locus, ma anche, in molte parti, da una “densità” del linguaggio poetico costruita non solo
sintatticamente (elisione di avverbi o locuzioni), ma anche per associazioni che molto hanno di onirico o per generalizzazioni (i padri, le madri) che
molto si avvicinano alle “persone miste” (Freud) del sogno. Questa condensazione riconduce al simbolo, il simbolo ci riporta al mito. Nell’opera
artistica (un’altra e diversa manifestazione di “sogno”) contenuto e forma interagiscono e si compenetrano, e il linguaggio (spesso meravigliosamente
“laconico”) svolge la sua opera che non è soltanto quella del dire (l'enigma del puro proferire) ma, in questo libro, anche quella del salvare il suo autore.
Continua a leggere "Su Ruderi del Tauro di Enrico De Lea"
Giovedì, 11 febbraio 2010
Dalle
mie parti (Toscana, Valle dell'Arno, piana di Pisa) si chiamava
"posato" il pane di un giorno o due prima, quando stando lì nella
credenza (la madia) perdeva un pò dell'umidità eccessiva di cui lo caricano i
fornai per fare peso. A me piace il pane posato, i lieviti e le farine con cui
è impastato acquistano aromi più maturi, e anche il pane industriale - quando è
posato - assomiglia un pò a quello dei contadini che durava quindici giorni.
A
volte mi succede anche con i libri che mi mandano gli amici, che il tempo o le
faccende quotidiane mi hanno costretto a mettere momentaneamente da parte. nel
mucchio delle cose da fare. Come questo di Tonino Vaan (Antonio Vasselli),
"Cosmesi", uscito oltre un anno fa per i tipi de L'Arcolaio, con
prefazione di Stefano Guglielmin.
Riprendere un libro in mano è un pò un'avventura. Si comincia dal titolo,
dall'intendere che cosa significhi il titolo che l'autore ha scelto. Cosmesi in
questo libro, si può supporre, ha una valenza tristemente ironica e in qualche
modo rassegnata. Abbellire il mondo, o semplicemente la realtà circostante,
l'esperienza quotidiana delle relazioni e degli eventi, non è facile, non è
risolutivo, è un tentativo destinato ad abortire. Anzi là dove si presenta, o
dove la realtà si maschera, la bellezza è vanitas, travisamento, illusione.
Inoltre, abbellire una realtà non soddisfacente non può essere la missione
della poesia, come Tonino sa bene. Semmai quello del poeta è un lavoro di disvelamento,
per quanto bello e artistico. Tuttavia, il poeta non rinuncia al tentativo di
dare un ordine al suo vissuto, proprio quell'ordine (cosmos) di cui cosmesi è
parente stretta, sapendo che "un trucco leggero proietta avanti / certi
nostri piccoli dettagli".
Da questo dissidio di fondo Vasselli non si lascia distrarre. Deve percorrere
quel labirinto esperienziale a cui accenna Guglielmin in prefazione, e lo fa al
meglio, pur nella consapevolezza che anche il labirinto è ordinato, ma non se
ne esce. La scrittura di questo percorso è interessante. Spesso preceduta o
seguita da exerga eterogenei, (anche autoprodotti, anche di estrazione
giornalistica, anche affastellati) come trampolini di lancio, non solo viatici
o conferme di un'idea, ma anche idee fertilizzabili e/o sviluppabili, essa si
svolge per ritmi e metri non condizionati se non dalla necessità di dire, e
quindi liberi, con rari enjambements e con catene sintattiche che occupano
l'intero verso, riempiendo i vuoti (o il vuoto, microscopico o siderale
che sia). La poesia di oggi, quella di Tonino compresa, è infatti poesia degli
interstizi o di posizionamento tra essi, non affronta i grandi temi se non
fluendo liquidamente tra essi come acqua, occupando gli spazi lasciati
disponibili da una cultura postmoderna in crisi. Questa scrittura è di per sé
asciutta, antilirica, perchè modernamente consapevole della necessaria economia
del discorso, di una sorta di dimagrimento della parola, o forse perchè non
sarebbe possibile altrimenti. Perciò anche il livello retorico è essenziale,
scarso l'appoggiarsi a metafore o simboli, o altri particolari aggeggi,
ricorrente l'uso di un dire quotidiano e popolare, che peraltro ha non pochi
precedenti nella poesia del Novecento, ma qui con molta meno ironia rispetto
ai nomi che ci potrebbero venire in mente. Niente voli pindarici o sbalzi di
tensione, insomma, in questa scrittura che tuttavia è di trama
fitta e intreccia una interessante conversazione con il lettore, che si svolge
per incontri, in testi che salvo qualche eccezione si aprono e si chiudono, ma
con una specie di appuntamento all'incontro successivo, a un prosieguo di un
discorso condivisibile. Da qui quel fiilo di Arianna, quel che di rizomatoso a
cui accenna sempre Guglielmin, sostenuto anche da una titolazione di brano in
brano che assomiglia ai sassolini di Pollicino (es.: "...i nostri
pomeriggi lunghi un crepuscolo...";"...quando giunge da una lettura
una memoria...";"...un senso di asfissia e
resistere...";"...resistere...";"...esistere.") e che
può anche essere letta orizzontalmente come degli ulteriori testi. Le
eccezioni a cui alludevo riguardano tre serie (vasche semiolimpiche, terra dei
segni e torre maremma) che oltre ad essere tre corpi organicamente costruiti
segnano a mio avviso anche una variazione rispetto allo stile consueto di Vaan,
qui ancora più asciutto, smagrito di molti connettivi, più "cercato"
o se volete compatto, e sotto vari aspetti più interessante in prospettiva. E'
forse per questa ragione, o magari anche per la mia passione per i poemetti
(cosa a cui in effetti assomigliano) che sono i testi che pubblico in questa
occasione.
Sul piano della narrazione, che somiglia in qualche modalità espressiva
al conterraneo Ceccarini (vedi), il libro procede per agnizioni o epifanie laiche,
piccole meditazioni, anche pop, e rinvenimenti di fatti e dolori
generalizzabili, in un procedere in cui c'è poco posto per l'io, molto
per un noi però personale di chi si sente parte di un genere umano acciaccato
con cui ci tocca essere solidali, perchè da soli non ce la facciamo a
sopportare questo disagio di vivere, un noi anche quando Tonino parla, in una
bella poesia senza fronzoli, della sorella morta. E allora ecco che appaiono
luoghi, paesaggi, incontri, frammenti, percorsi, bicchieri di vino o di
campari, stanze, donne, tagli di luce, visioni, chilometri di strade, facce del
sistema. Ma tutto è osservato come lateralmente, come quando si guarda una cosa
ed essa ci suggerisce qualcosa di collaterale e inquietante, che trascende la
cosa stessa, diventa "l'ossigeno di una visione", "ci
riappropria ad un senso l'osservare / che prevale e resiste / come una storia
d'amore", consapevoli però che "da una vista come scavo / il primo
degli allargamenti è un varco di solitudine". Fortunatamente in questa
visione e solitudine (del labirinto, del tentativo reiterato di trovare
l'uscita) il poeta non indulge a minimalismi né ad aforismi apodittici, non si
ammanta, dice solo la sua, con molta franchezza, e con quella onestà
intellettuale che qualcuno ha rilevato e che oggi è un vero valore aggiunto.
Continua a leggere "Il pane posato 1 - Tonino Vaan"
Venerdì, 5 dicembre 2008
Credo di partire da una posizione di leggero vantaggio nel parlare di "Interno, esterno" di Salvatore Della Capa. Per due ragioni: la prima è che Salvatore è già stato presente su questo blog nel 2006 in due diversi post e quindi non è per me uno sconosciuto; la seconda è che alcuni dei testi che pubblicai (v. qui e qui) sono stampati ora in questo libro. E' inevitabile quindi che per prima cosa saltino agli occhi (almeno a me) alcune varianti tra quei testi e questi pubblicati in questo libro. Per quanto sia un pò troppo presto per dedicarsi allo studio filologico del lavoro di Salvatore, bisogna almeno dire che, quasi con certezza, esse sono opera dell'editore (e in questo caso editor) Gian Franco Fabbri. Un lavoro teso essenzialmente alla leggerezza del verso, alla limatura di certi spigoli. Non è il caso di dilungarsi, ma rilevo la cosa perchè mi interessa ribadire che l'editing è operazione necessaria tanto più per i poeti che, essendo le persone con la più alta autostima, giudicano intoccabili anche le congiunzioni da loro scritte. Per quanto ne so, Fabbri ha però avuto la fortuna, con la sua piccola casa editrice, di avere a che fare sempre con autori intelligenti, e della Capa è tra questi. Ma vediamo il libro, brevemente.
E' lo stesso Fabbri che suggerisce (v. qui), più incisivamente di quanto a mio avviso faccia il prefatore Guido Monti, una possibile lettura del libro di Salvatore, orientata sulla violenza che permea i testi, anche quando il dettato è sintatticamente "quieto". Una "bestia" sotterranea e presente, a volte "sensuale" nell'accezione piena del termine (e quindi animale), che agisce ed è agita all'interno e all'esterno di sè, violenza osservata, subita, qualche volta eticamente compassionata. Ma è anche, va rilevato, una violenza nello stesso tempo continua e rapsodica, presente e frammen/taria/tata come una cluster bomb. Non elevata a simbolo o metafora (nella sezione "parabellum" avevo invece intravisto a suo tempo -cito- "l'inizio perfino di un poemetto intensamente civile"), si coagula in testi tassello vaghissimamente eliotiani, stilisticamente limpidi, "quieti" appunto o "passivi" come nota Fabbri, in una sorta di antologia di momenti o, se vogliamo, in una poetica della latenza, o della coabitazione, in cui si rischia di parlare di violenza come qualcosa che "si sa", cioè quella violenza che più che esperire, grazie a Dio, come intellettuali e poeti percepiamo e soffriamo nondimeno e la denunciamo moralmente. In un certo senso, è quando l'esperienza si fa più personale che il registro cambia, come si avverte leggendo, in chiusa al libro, la bella oasi lirica di "Eleonora", dove anche in gesti quotidiani il dolore si cancella per qualche momento in versi luminosi. Solo qualche momento: l'autore ripristina l'allerta, i suoi "sensi da felino", e ansia, paura, sangue sono le parole che ci colpiscono dall'ultimo brano del libro.
Salvatore Della Capa, "Interno, esterno", Ed. L'Arcolaio, collana I Germogli, 2008
Continua a leggere "Salvatore Della Capa - Interno, esterno"
Venerdì, 15 agosto 2008
Ricevo dall'amico Gian Franco Fabbri e pubblico volentieri alcuni testi tratti da "Bucare la polvere" di Katia Zattoni
Non so se puoi dirmi
Non so se puoi dirmi
dove vanno a finire
le parole che pensiamo
e che non trovano fiato
per andare aldilà della bocca.
Forse tornano a essere lettere
- monadi imbozzolate
nelle cellule della mente -.
O forse stanno sospese
- anarchia di sillabe sciolte -
su losanghe di respiri in gola.
Di certo può essere virtù
non tentare di rianimarle
perché siano sciattume rinvoltolato
**
Le stelle brillano anche quando la notte è finita
Le stelle brillano anche
quando la notte è finita
e se non le vediamo
è per difetto di costruzione,
- errore di calcolo che
modella la nostra essenza -.
Adoriamo l’ovvio, consumiamo
l’usuale e non deviato,
film e biscotti della pubblicità;
seguiamo i consigli per gli acquisti,
evitando con cura l’intrigante,
il curioso movimento
laterale che sfiora appena i sensi.
E mentre predichiamo che
l’altro è diverso, abbiamo deciso
che chi muore scompare,
che la guerra è terapia chirurgica
dagli insoliti effetti collaterali.
Ma se chi muore scompare
forse più tardi tornerà, come
la luce delle stelle che brillano
anche quando la notte sarà finita.
°°
Primavera 2003, Baghdad
Nello sfondo incombente muro
- vago ostacolo all’insulto -
e giù in basso un uomo:
sulle gambe d’inutile padre
il figlio che oramai non è più.
Più in là poco rimane della casa,
ma è nitida vernice blu la scritta In vendita.
da "Bucare la polvere" - Ed. L'Arcolaio 2008
Continua a leggere "Katia Zattoni, da Bucare la polvere"
Martedì, 1 luglio 2008
Come avevo già annunciato, sabato scorso, presso la sede dell'Archeoclub di Sermoneta (LT), è avvenuta la presentazione del libro di Roberto Ceccarini "Giorni manomessi", edito da L'Arcolaio. Pubblico qui una piccola selezione dei testi, accompagnati dalla mia prefazione. Con l'occasione ringrazio i sermonetani, gente amante della cultura e di straordinaria ospitalità.
da La guerra sparita
il vero guaio della guerra moderna
è che non dà a nessuno l’opportunità
di uccidere la gente giusta
Ezra Pound
alzarsi in ore antelucane
prima del cannoneggiamento,
prima che si faccia la storia,
che negli ospedali psichiatrici
venga su l’odore dell’orzo
(del nord di Franz Stangl ).
tentare una sterile alzata,
dove pretendere una luce purissima,
che ci tenga al riparo da cose veloci
che battono il tempo, senza avere tempo.
dobbiamo fare i conti, dicevi: sfollare cimiteri.
un lavoro semplice, in comodato.
tua madre parla. mia madre ascolta.
a quest’ora il paese indossa il sole
e comunica da una radio a galena.
fare i conti, dicevamo.
con tutto e tutti.
disabitare le attese, le pretese.
passare come un sonnambulo
dinanzi all’ennesimo cadavere,
dentro le ombre, di un lavoro
tragicamente a cottimo.
*****
Continua a leggere "Roberto Ceccarini - da Giorni manomessi"
Martedì, 24 giugno 2008
Una selezione esigua e arbitraria di un libro invece importante, complesso e ambizioso, linguisticamente affilato e a tratti esoterico, sostenuto da una spessa cultura che la bella e cospicua postfazione di Matteo Veronesi giustamente richiama. Giuda emblema laico non solo del supremo tradimento ("e insieme strumento occulto e assurdo della salvezza" dice Veronesi) o del tradimento che per vie occulte disvela una ragione più alta ma anche del silenzio definitivo dell'uomo, appeso al proprio destino come ad un albero, di fronte a un mistero a cui fa da specchio il silenzio del mondo e della natura.
Per un'idea più ampia del libro si veda anche il bel post, con i relativi commenti, su La Poesia e lo spirito (qui), a cura di Francesco Marotta, che riporta anche un estratto della postfazione.
Lorenzo Carlucci, da Ciclo di Giuda e altre poesie, L'Arcolaio 2008
da Ciclo di Judah - I. Ciclo
Vai a dire al pazzo
che è sotto il sicomoro:
- tu non avrai mai frutti
se tu non lasci i denti
al posto delle note, i pochi,
su questo liuto intatto
esultano le dita nel tremore
e poi le labbra
nell'immobilità
collo di donna lungo
lontani, e via, sui campi
aperti innamorati
senza pensiero come i contadini
e con le lacrime
divantano gli amanti
maturi e poi innocenti
[lontani, e via, sui campi aperti
innamorati come i contadini
senza pensiero e con le lacrime
diventano maturi
e poi innocenti]
va' a dire al pazzo sotto a quel sicomoro:
- Collo di donna è lungo!
bambina bionda che
traballi sui piedini
corri vai a dire gioia
gioia e dolcezza a lui
al musico felice solitario
vai mio uccellino e porta
le note silenziose
al musico soltanto
al musico cretino
- Sarai un frutto d'albero
uh vedi come la ripete
la nota sua la sola
la scena ricomincia
la mano scende giù
sopra le corde intatte
va a lui la ragazzina
lui fa un sorriso
giovane
Va', e dici
come distratti restano notizia e l'ambasciata
quando l'ambasciatore è assorto in sua funzione
l'intreccio delle piante è niente
niente del cùculo
l'alta ripetizione
niente il giochetto gioco
Oh, niente,
è la rivelazione del cucùlo!
- Guardalo come suona sotto i rami!
Guarda di nuovo e fissa
gli occhi tuoi contro la
forma solinga d'uomo
la mente umana, umana
e l'umanesimo dell'erba
di polvere poesia dimenticata
sabbia sottile e pure
e qui e qui e qui
e pure
dita contratte che non lasciano la presa
sull'armonia dei campi e sul gioiello
masticato
e gli occhi quelli!
i denti sbriciolano gli smeraldi
tra brocche rotte
boccone d'ente, "determinato"
un boccone e senza fiato
da Ciclo di Judah - II. Rosarium
dopo non sarai più commemorato
un angoletto del pensiero nero
ha aperto la tua solitudine
di spiga
restare ignoto
parola da non dire
l'ombra ti fa sgusciare nella scarpa
il serpentello della negazione, e ride.
da Ciclo di Judah - V. Pellegrinaggio
(alba)
Primo pellegrino. il corpo morto Judah ha riassorbito l'ombra
l'attore ha detto morte della notte
tira il sipario al cielo il giocatore
siccome fanno i teneri gabbiani
al limitar della riviera
modificando coi loro tornamenti
le partizioni candide dei cieli.
da La Tela Rossa
sonno nel prato
piccolo uccello nero, mio fratello,
che coi tuoi gridolini pieghi l'aria,
chiami a raccolta le tue femmine del cielo.
le femmine di terra, invece,
facendo jogging evitano i lacci
le trappole dei piccoli scoiattoli.
qui è sempre qui
ed io son qui
steso tra l'erba fresca.
quella si porta in testa il cielo, il nero,
riannodato in trecce.
cammina sopra i trespoli piccini
come un acrobata in miniatura.
noi come scimmie giochiamo con i segni,
con le scimmie.
cotùrno, scarpa da poche lire,
scarpa bianca del piccolo negozio!
la porta incosciente una ragazza nera
la porti tu, mio amore, che stai a casa.
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