Alcune versioni di Mario Fresa da Apollinaire, contenute in un libriccino edito con cura da L'Arca Felice (Salerno, 2016) con disegni di Massimo Dagnino. Qui come in altre occasioni Mario è traduttore inventore o ri-creatore, sempre alla ricerca di un giusto mezzo (ma sempre con l'azzardo dell'invenzione) tra metro e senso, tra rima e lima, tra barocco e dodecafonia, ma sempre mosso da una specie di innamoramento di partenza verso l'autore che traduce. L'ironia divertita (che è quella un po' beffarda ma critica del lettore smaliziato) è indispensabile per Mario, basta leggere le sue versioni di Marziale, belle ed esilaranti (v. QUI), per rendersene conto, come pure le sue "imitazioni" di/da Catullo (ma più che di imitazioni si tratta, come ha scritto Giorgio Linguaglossa, di "un lavoro intenso di attraversamento dei testi del passato" - v. QUI). Forse i puristi della traduzione, soprattutto i sostenitori della "fedeltà", potranno non condividere le sue scelte, ma a me sembra evidente in queste versioni l'adesione allo spirito sia del testo sia dell'autore, che ben traspare senza che vi sia, in questo senso, alcuna vera "loss in translation", nemmeno quando si tratta di passare dal calligramma al verso lineare, come in Piove. In altre parole e per quanto possa apparire pleonastico, in italiano Apollinaire qui è proprio Apollinaire, così come lo sono stati Marziale e sotto altri aspetti Catullo, soprattutto perchè Fresa vi immette (e ammette) una "simpatia" (sympatheia) nei loro confronti. Non credo viceversa che, come qualche commento ha asserito, si tratti di attualizzazione o rammodernamento in senso stretto. Mi pare, e per me questo è importante, che sia un atto creativo (postmodernista o no qui non ci interessa) che fa appello a una cultura assimilata e la rimette in un gioco consapevole, divertito o serio che sia, che finisce per amplificarne il senso. (g.c.)
Una recensione di Viviana Scarinci al mio poemetto "Camera di condizionamento operante" uscito nelle Edizioni dell'Arca Felice di Salerno, a cura di Mario Fresa, nell'ormai lontano 2009. Ringrazio sentitamente Viviana per due ragioni, la seconda delle quali è la più importante: per aver scritto con molta acutezza della mia poesia, cogliendone le ragioni non strettamente personali e semmai l'idea di fondo; e di aver ripreso, come mi ha detto, una vena e una voglia di scrivere criticamente di poesia, "sulla" poesia. Una cosa che sa fare bene (due begli esempi QUIe QUI) e che devo dire mi mancava un po'.
A volte la funzione di una domanda non è tanto quella di ottenere una risposta quanto di guadagnarsi un varco che schiuda sulla continuità di un discorso altrimenti discontinuo. Soprattutto se si tratta di poesia, la domanda assume di riflesso le stesse pause, ingiunzioni, esitazioni di un’inchiesta in cui non esistono risposte ma aperture su vere proprie camere di condizionamento.
Camera di condizionamento operante è un libriccino edito da Edizioni L’Arca Felice, l’autore è Giacomo Cerrai. Si tratta di un poema che fin dal titolo si rifà alla cosiddetta Skinner box che più o meno tutti abbiamo presente: quella gabbietta o scatola di vetro in cui viene posto a scopo sperimentale un topolino affamato. La gabbia è attrezzata per elargire cibo se il topolino apprende che c’è modo di averne in abbondanza. Ciò avviene secondo la forza che la cavia capisce di dover imprimere sul pulsante preposto all’elargizione. (continua a leggere QUI)
***
Il poemetto è scaricabile liberamente dall'Area download (v. barra laterale destra), in formato pdf o epub. Chi desiderasse una copia cartacea può provare a contattare l'editore, ma dubito che ne abbia ancora copie. Su "Camera" aveva scritto in precedenza Daniele Santoro (v. QUI)
Daniele Santoro ha pubblicato sul n. 55 della rivista "I fiori del male" (Maggio - Agosto 2013) una sua lettura della mia piccola raccolta "Camera di condizionamento operante", edito da L'Arca Felice nel 2009. Una recensione precisa e acuta, in cui Daniele, che ringrazio sentitamente, ha colto molti punti essenziali. Ricordo agli amici che seguono Imperfetta Ellisse che è possibile scaricare una copia digitale (in formato epub o pdf) dall'area download (v. barra laterale destra). Non so se l'editore dispone ancora di qualche copia cartacea.
Vincenzo Gasparro - A che servono le rose - Ed. L'Arca Felice
Si sente, in questo libretto, una decisa aria meridionale, di un
messapico Sud profumato di basilico, illuminato di sole e velato di
senso della tragedia e di quella particolare nostalgia che colpisce
perfino chi non si è nemmeno allontanato da casa, o non ha voluto
allontanarsi, come in un vecchio film della Wertmuller. Già il testo
introduttivo della raccolta dà un'idea della cosa:
I' passate lu basilicole / come lu sole come lu sole. / I' passate pure la rose / come li cose come li cose. / I' passate la frasche de lore / come l'amore come l'amore. / I' passate a murtuscedde / come lu viende come lu viende.("E'
passato il basilico / come il sole come il sole. / E' passata pure la
rosa / come le cose come le cose. / E' passata la foglia d'alloro / come
l'amore come l'amore. / E' passata la piccola morte / come il vento
come il vento.").
Dunque, l'interrogativo del titolo (a che servono le rose) equivale, in
questa plaquette, a chiedersi a che cosa serva la poesia, specie al
centro di una parabola esistenziale, di quella impermanenza di cui
questo piccolo testo è metafora. Domanda che in realtà non va posta,
poiché, dice l'autore, "l'alito di Dio increspa l'acqua del lago /
ornato di bianco e brezza in questo giorno / felice. Ora non chiedermi
più a che servono le rose." E' la bellezza costitutiva e enigmatica
che, anche senza forse salvare il mondo come nell'auspicio del Principe
Myskin, è certo parte (o dovrebbe esserlo) della nostra vita. E
giustamente Vincenzo Di Oronzo, nella prefazione, afferma che nel lavoro
di Gasparro "gli archi di vento, le spirali di piante tra i trulli, i
sassi e i cerchi scritti con la calce, gli uccelli fermi nel bianco sono
gli emblemi della bellezza e della morte, le folgorazioni dell'enigma".
Se la poesia, come l'autore, occupa "una posizione periferica", è pure
vero che in essa "la marginalità / si traduce in confini,
nell'opportunità / di trovarsi a contatto con gli orizzonti /
dell'inespresso e con terre ancora non emerse". E' del tutto naturale
che tutto ciò si ancori saldamente a una tradizione lirica forte (basti
pensare a quel "ora non chiedermi più") in cui spirito dionisiaco e
apollineo fanno i conti tra loro, visione della natura e dei fatti e
necessità di collocarvisi al centro come identità e storia di sé
coesistono, insieme a un dualismo tra la bellezza stessa (compresa una
nuance erotica sottotraccia) e la morte, dando luogo a una riflessione
pacata ma mai placata. Dunque è proprio nei testi più intimamente
lirici, quelli che preferisco e che ho scelto, cioè quelli che come
forma e andamento si rivelano adatti come un adagietto, è in in questi
testi che più si concretizza questa idea che ogni azione, ogni evento
anche epifenomenico, ogni manifestazione di uno svolgersi della vita non
sono mai del tutto al di fuori di noi, estranei a noi, o muti davanti
alla nostra "regolarità dello sguardo" e al nostro pensiero. (g.c.)
Che nella poesia di Monia Gaita il ritmo musicale, la
fonìa di insieme sia nello stesso tempo strumento e obbiettivo, elemento
fàtico e misura per il fruitore, appare subito evidente, non solo fin
dalla prima lettura in cui subito l'occhio si impiglia in accenti, ma
anche dalla cura quasi maniacale (acribìa) delle note al testo, (un
esempio: mòngolo: s.m. e agg., individuo appartenente ai
Mongoli, popolazione dell'Asia centrale che ecc.). Per la verità
sospetto che la cosa faccia parte del gioco, se non proprio come
elemento straniante che riporta - in senso lato - alla sperimentazione,
almeno nel senso che come ogni "musicista" Gaita aspira a dare
indicazioni nette e autoriali al proprio "esecutore" (lettore), in modo
che non si prenda troppe libertà (ecco perchè accennavo prima al
fàtico). Perciò mi torna ciò che Gaita afferma in fondo al libro in una
piccola intervista con Mario Fresa, suo prefatore: "Per me la poesia
largheggia e si incrementa anche nell'impasto sinfonico di una partitura
musicale invisibile ma presente. Ciò avviene, e con l'apposizione degli
accenti acuti e gravi, e con un’accurata scelta lemmatica che eleva
ogni parola a unità infungibile e necessaria. Il ritmo interiore
echeggia nell’eiezione fonico-espressiva delle strofe e ad essa
coerentemente si combina sotto l'egida del gioco elementare
significante-significato-suono. La parola ha delle note ben precise,
bisogna solo cercarle, dando loro flauti, voce e combustibile vitale."
Ecco quindi l'accentazione "ostinata" (tanto per rimanere nel campo
semantico musicale), artificio (sia detto in senso classico) che tra le
mie conoscenze mi rimanda a Silvia Comoglio (v. QUI),
che però lo usa in maniera un pò meno affollata e contestualmente ad
altri "segni". Ed ecco anche quella saturazione semantica a cui accennava la
stessa Gaita più sopra. Infatti (e si torna alla puntualità
delle note) le parole si fanno astratte e "distanti" l'una dall'altra,
spesso varcando "i limiti della pura ineffabilità", dice Fresa nella
prefazione, e sono d'accordo, con una selezione lessicale spesso ricercata, astratta e "rara". Che poi tutto ciò perda un pò in potenza
connotativa, mi pare inevitabile. Acquistandone magari un' altra, di
altro tipo.
E fin qui ci siamo. Bisogna aggiungere che il ritmo in musica non è
tutto, e Gaita lo sa benissimo. Ecco perchè gli accenti poi a loro volta
diventano chiodi che fissano le parole a un supporto (sia detto - qui -
in senso plastico, pittorico), ne fanno installazione, le portano alla
rilevanza iconica che mi ricorda, tra l'altro e tra gli altri, qualcosa
di Joseph Kosuth (e scusate l'azzardo)
Credo che Gaita abbia ben presente questo concetto, almeno a giudicare
dalla sua dichiarazione di poetica, in cui mi pare si faccia accenno
non tanto alle "cose", ai temi, alla narrazione ("la mia poesia non è
facilmente comunicativa perchè per me la poesia non ha da comunicare...
resta pur sempre Arte Assoluta"), quanto alle modalità manipolatorie,
consce e inconsce ("...parto sempre da ricordi, esperienze in
svolgimento, passate o immaginate possibili...Ma poiché ritengo che nel
pensabile risieda e pulsi verità e sostanza, non distinguo tra
oggettività e soggettività, ne mescolo le carte a piacimento, ne mangio a
fette fate, brume e mondi")
Perciò ecco perchè in definitiva il lavoro di Monia Gaita mi sembra che
debba essere considerato un interessante esempio di poesia
"concettuale" pura, parecchio vicina alla nota definizione di Sol
LeWitt ("Nell'arte concettuale l'idea o concetto è l'aspetto più
importante dell'opera... L'idea diventa una macchina che crea l'arte."),
poesia attraverso cui però Gaita, riservandosi un ampio margine di fede
nella possibilità di "sgretolare il caos", dipinge a larghe campiture barocche una sua vicenda e insieme un'idea
personale della crisi moderna, che viaggia velocemente verso una Babele
comunicativa di cui il linguaggio è il primo protagonista e la prima vittima.
Monia Gaita - Moniaspina - Edizioni L'Arca Felice, 2010
Questo libro di Marco Furia (Pentagrammi, Ed. L'Arca Felice, 2009) si presenta compatto, senza divisioni in sezioni o capitoli, come una silloge
serrata, di una musicalità percussiva, di canone (in senso musicale) o di bolero (ma nella prefazione si cita giustamente Debussy). Linguaggio depurato dai suoi connettivi e anche, cosa molto importante, dai verbi. Cioè dalle azioni, dalla temporalità che il verbo è chiamato ad
esprimere, sia esso un passato più o meno recente, o il presente ininterrotto che caratterizza tanta poesia contemporanea. Quello che c'è è una
martellante presenza di participi passati in funzione aggettivante o di infiniti, cioè quanto di più spersonalizzato nella funzione verbale. E' una
scelta, di un prosciugamento del linguaggio in segni, questi sì, effettivamente, adatti a inscriversi in pentagrammi, in partiture di lettura ed
esecuzione. Va da sè che se ci fosse un io in questi testi, esso sarebbe pietrificato nel corpo del testo, come in un blocco di marna asciugato dal
sole. Non è un caso quindi che Mario Fresa, nella prefazione, parli di "istante infinito della parola" e di "coordinate spaziali e temporali (..)
radicalmente azzerate e ricostruite secondo immagini coraggiosamente libere dalla gabbia del nome e dell'identità".
La costruzione è quindi massiccia, come si diceva, perfino squadrata, con i suoi venti testi di trenta linee ciascuno. Se un rischio c'è in questa scrittura è l'effetto eco o l'ipnosi, il sogno, il déjà lu, la ripetizione di un modus trovato e riconosciuto soddisfacente al sé, e quindi una auto maniera, ma forse, anzi sicuramente, c'è un
modus in rebus, una modalità insita nella cosa linguaggio, nel tipo di linguaggio selezionato, che (cito ancora Fresa) è "felicemente dimentico di quel rapporto
basso,
utilitaristico, secondo il quale la parole deve coincidere col senso e il senso deve identificarsi con ciò che si mostra". Da qui una sua particolare efficacia, di
onda piuttosto consistente che si frange sul lettore e, viceversa, lo scuote.
Quattro poesie tratte da "Come una nave", plaquette pubblicata dalle Edizioni L'Arca Felice (2008), nella collana "Coincidenze" a cura di Mario Fresa, con illustrazioni di Prisco De Vivo. Le pubblicazioni de L'Arca Felice sono infatti sempre corredate da riproduzioni a tiratura limitata di opere di vari artisti.
Informazione viva
Allora ho pensato a te,
che mi chiamavi e alzando
quel poco lo sguardo ho osservato
prima indistinta, come una suggestione,
infine quasi chiara, una forma
avanzare, oscillare. Come una nave,
о dì sicuro una nave
che rompeva l'orizzonte arrivando
in una strana, confusa evanescenza.
Come un messaggio sbucava, come
un'informazione viva
о superstite, integra,
emersa da un nero immenso tutto.
Sangue e famiglia
Ho amato e rimpianto la famiglia,
la famiglia dei vìncoli di sangue,
degli affetti assoluti, dei dolci ricatti.
Ma quella stanza, adesso, è sempre più
stanza di sbranamenti.
Ma è in se, dentro di sé, che crolla
о è il mondo che se la mangia, la famiglia?
E poi, l'orrore che era intimo, segreto, vero,
erompe e vomita a colori
sulle nostre pietanze,
sui piatti delle nostre cene.
Oltre la pagina
La poesia ha parole pesanti
che in queste strane pagine
sembrano mobili e leggere.
Viaggiano quasi imprendibili,
cangianti, e disorientano
la nostra vecchia mente di carta.
Chissà se in questa luccicante
casa in affitto
troveranno dimora stabile,
amica, e dunque vita
che si rinnova autentica.
Credo di sì, perché la poesia
chiede di spargersi e andare
lieve e piana nel mondo,
che forse non lo sa
però la sta aspettando.
Tenerezza bambina
La tenerezza bambina della donna
si realizza nell'incontro sognato
e chi arriva a inverarlo,
quell'incontro,
non è angelo del cielo, sublime creatura,
ma un tipo qualsiasi come me,
che trova per sempre un beneficio
e dice grazie.
Maurizio Cucchi è nato a Milano, dove vive, nel 1945. Consulente letterario, pubblicista, traduttore (da Stendhal, Lamartine, Flaubert, Villiers de l’Isle-Adam, Prévert), ha pubblicato questi libri di poesia: II disperso (Mondadori, 1976; nuova edizione Guanda, 1994), Le meraviglie dell'acqua (Mondadori, 1980), Glenn (San Marco dei Giustiniani, 1982, Premio Viareggio), II figurante (scelta di versi, 1971-1985, Sansoni, 1985), Donna del gioco (Mondadori, 1987), Poesia della fonte (Mondadori, 1993, Premio Montale), L'ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999), Poesie 1965-2000 (Oscar Mondadori, 2001). È autore del romanzo Il male è nelle cose (Mondadori, 2005) e del libro di prose La traversata di Milano (Mondadori, 2007). Ha curato il Dizionario della poesia italiana (Mondadori 1983 e 1990) e con Stefano Giovanardi l'antologia Poeti italiani del secondo Novecento, 1945-1995 (Mondadori, 1996).