Giovedì, 11 ottobre 2018 a cura di SONIA CAPOROSSI - Marco Saya ed., 2018 Ricordo che diversi anni fa si parlava di mappature della poesia. Ah, quanto se ne parlava! La linea lombarda, la linea marchigiana, la generazione entrante, quella uscente, i territori paralleli...Sebbene già allora le mappe non portassero in alcun luogo - con una certa soddisfazione dei più borgesiani - oggi più che mai mi pare che l'orientamento sia un'arte difficile, se non appoggiandosi, ancora, a categorie o denominatori. (e poi, orientarsi in cosa? nella poesia in sé? nel reale ivi (se) riconoscibile? nel fenomeno osservato? nell'osservatore?) etc. Se l'orientamento è difficile non lo è tanto perché la poesia sia una giungla, quanto perché la si vuole spesso e quasi di necessità collocare e ri-collocare - spesso arbitrariamente - in ambiti e/o codici, meglio se impermeabili tra loro, e questo crea problemi, se non proprio di dissidio e opposizione, almeno di prospettiva e focalizzazione. Una opacità a cui si potrebbe porre qualche rimedio se intanto si considerasse la produzione poetica come una serie di oggetti (insiemi) intersecabili, un'ottica che almeno (forse) consentirebbe di capire non tanto la realtà di uno (o nessuno), quanto il punto di vista sul mondo di alcuni (o molti) anche diversi, e quindi analizzarne in maniera feconda le intersezioni e le osmosi, i problemi e le soluzioni adottabili e/o sviluppabili. Non sto parlando di ecumenismo, e nemmeno di una diversa antologia ([1]). Sto parlando della necessità di ricostituire il peso della poesia (il peso anche sociale e politico se volete) come strumento/funzione di indagine e comprensione del presente. Perché nel frattempo, come in ogni "litigio" o dissidio che si rispetti, il terzo gode. Ecco, questo sì che è un problema interessante. Cioè chi/cosa possa essere, nell'articolazione del presente (o dell'ultracontemporaneo, per dirla con Sonia) questo tertium. Sarei orientato a pensare che esso sia lo sfuggente convitato di pietra, quel camaleonte che perònon si mimetizza ma viene mimetizzato proprio da chi lo osserva, con uno strano fenomeno ottico. Sto parlando del reale complesso, di quella complessità che è un problema seriamente percepito da qualcuno (ad esempio da uno almeno degli autori qui presenti) ma che è ben lungi dal trovare una soluzione "artistica". E che allo stato attuale produce - spesso - un intenso lavorio sul "come", soprattutto sul linguaggio come copia e manifestazione iconica dell'indicibile, una neolingua come pallida rappresentazione di un mondo/potere di comunicazioni verticali. Il rapporto, per fare un esempio brutale, mi pare - qualche volta - quello tra un bambino con le sue lallazioni e un mondo di adulti che impartiscono ordini. C'è insomma un po' (molto) meno attività sul "cosa" si aggira (al di là del groan individuale, anche se spacciato per lamento collettivo/generazionale) all'interno dell'odierno reale complesso, che è davvero, esso sì, ultracontemporaneo, perché in ultra-divenire( [2]). Il linguaggio, oggi, mi pare abbia (ed è qualcosa che riguarda anche la polis) due direzioni principali, una di informazione, l'altra di deformazione. Una dicotomia che va spiegata, a cominciare dal primo braccio, la cui aria "positiva" non deve trarci in inganno. La prima direzione, infatti, è quella della semplificazione, della reductio ad unum, dello slogan, ed è soprattutto politica, ed ha la caratteristica di essere in-formante, non necessariamente in aderenza alla realtà, anzi come riscrittura funzionale della medesima, e con funzione estetica nulla. Paradossalmente è ciò che più si avvicina al grado zero di Barthes, alla scrittura bianca, non ovviamente quella di Camus a cui il filosofo francese faceva riferimento, ma una scrittura in cui la riduzione della forma si combina, ancora una volta paradossalmente, con l'instaurazione di un mito. Una scrittura insomma non tanto astorica quanto alogica. L'altra direzione, restando nel campo di questo libro, è quella della complessità, nel senso a cui accennavo prima. Ma qui, nel momento in cui, di fronte al complesso, l'esperienza individuale si restringe e arretra (cioè quando e perché non riesce a diventare esemplare e - quindi - letteraria), emerge una "inclinazione alla deformazione poietica del dicibile... un concetto comune di parola informe" (Caporossi, corsivi dell'autrice). Già, il dicibile. Io prima ho parlato di "indicibile", e mi viene il dubbio che siano sinonimi, in questo contesto. E che siano entrambi sinonimi di "infinito", ovvero un ammasso stellare di materia che può o non può essere detta in poesia (se restiamo in questo campo), in entrambi i casi fino alla noia. Un materiale poetico atomizzato, in cui ogni frammento percepibile può essere potenzialmente una scintilla testuale, un mini-bang espansivo, basta che l'artista trovi, magari una volta per tutte, il suo modus, o la sua "forma informe", o come si diceva una volta il suo stile. Ora, la buona notizia è quando - nella migliore congiuntura - riesce a verificarsi quella "intuizione aurorale" a cui si riferisce Caporossi nella sua prefazione, ovvero "la presa di coscienza del paradosso sorgente dalle multiformi modificazioni del nesso tra segno e significato, propria dell’esperienza poetica per eccellenza" (appunto quella aurorale). Tralasciamo il carattere "raro" e empirico che promana da questa definizione che richiama alla mente Benjamin (e Baudelaire ancor prima), ma capisco bene e apprezzo l'intento critico (e la proposta) di Sonia di ricondurre, ove si verifichi, il carattere (l'alloro) di unicità (l'aura di Benjamin, quindi) dal capo dell'opera all'intuizione del poeta (è l'idea, il concetto, del poeta che viene ad assumere la sua unicità prima dell'opera). La cosa importante, sotto questa prospettiva, è che, forse proprio per il suo empirismo, il risultato può essere - davvero - "sperimentale". Il che, in parole poverissime, significa davvero spostare in avanti certi limiti (espressivi, comunicativi, interpretativi) che sono gli stessi, fondamentali, della poesia e dell'agire artistico in genere. La notizia meno buona è quando (in alcuni casi) ci coglie la sensazione che la parola informe da una parte sia - per usare un paradosso - una "facile via difficile". Ne ho già parlato brevemente, ma voglio essere più preciso. Parlo di metodo, di modalità e/o maniera, anche autoalimentata; di estetica del multiplo, di cliché come arte ecc. (a margine: il cliché come arte è (sarebbe) già un buon approccio al complesso, se non si limita ad essere un atto artigianale (o puramente concettualizzato) con cui si prende un qualsiasi frammento del reale - soggetto quindi di/a casualità - e lo si pone in un frame [stampo, forma, cast] pre-parato). Parlo di una postura, o del rischio di essa. Una cosa che nessun poeta ammetterà mai, ma è la riproducibilità (sempre per restare a Benjamin) della forma (per quanto informe), la collocazione in un confortevole punto di quiete, una cosa che Sonia può comprendere perché non dissimile da una malattia che lei chiama "esordismo", c'est à dire la riproduzione dei temi e moduli uguali a sé stessi, per una sorta di confortante conformità a qualcosa di primevo che - aggiungo - sembri aver raggiunto una propria "economia" funzionale. Oppure, dall'altra parte, come dicevo all'inizio, che l'informale mimetizzi l'indicibile (o quel che si può dire di esso) confondendolo con il suo essere "naturalmente" oscuro (che è in sé una categoria nobile - e indagabile), (ri)calcandone il gradiente di impenetrabilità ecc., che sia quindi una parola - certo involontariamente - "organica", come si diceva una volta, a un contemporaneo (ultra o meno) la cui complessità non è certo governata dal poeta ma che il poeta, a mio avviso, deve tentare di penetrare, senza rimbalzarci sopra come un sasso su uno stagno. Cosa, lo ammetto, non facile, ma che rappresenta una sfida per il futuro. Inutile dire a questo punto che questo libro antologia prende le mosse da un assunto implicito, che cioè il punto di partenza (di questa mappa o di altri itinerari) sia la poesia di ricerca o sperimentale - per quanto qui solo nella sua veste semica e lineare - in ragione del suo accreditamento di stato dell'arte avanzato della poesia (un accreditamento, per inciso, a volte un po' "auto-") e per conseguenza più aderente al contemporaneo "ultimissimo" o "iperattuale" (Caporossi) di riferimento. E forse questo libro può apparire come un repertoire linguistico e di competenze, di fatto centrato su uno specifico. Ma l'assunto della curatrice deve essere accettato, pur con i suoi rischi e i suo punti critici. Non solo perché della poesia di ricerca non c'è, come invece sostiene qualcuno, una egemonia perfino ridicola da supporre e pertanto essa non può che essere considerata un territorio "coltivabile" al pari di altri, soprattutto se si cominciano a respingere rigidità di canoni, codici, paradigmi; ma anche per il fatto che, al di là di tutte le considerazioni fin qui fatte, questo libro è prezioso e meritorio, perché offre non pochi spunti di dibattito (ce n'è un gran bisogno) e perché mi pare non voglia affatto essere un punto di arrivo. Ma soprattutto perché ci leggo una ambizione di fondo, che è quella che dovrebbe avere una critica seria. Ovvero ciò che credo la critica oggi, se ancora ha una funzione, debba fare: concorrere ad identificare non linee ma percorsi conoscitivi od estetici (che in arte è lo stesso), arrogarsi il diritto di "inventare" o imporre scoperte, argomentandole e difendendole, ma soprattutto di rinvenire snodi, punti di frizione, articolazioni, percorsi non battuti, indicando sentieri apparentemente invisibili. In questo sì "impura", o al contrario totalmente pura perché il suo lavoro non è più trovare il "buono", o giustificazioni plausibili al lavoro di questo o quello scrittore specie se "difficile", o "nuove ontologie", che è una cosa che fa ridere i polli. E' semmai quello di trovare idee, o "concetti", (e quindi fare un "atto di creazione" per dirla con Deleuze). Mi pare che Caporossi sia decisamente orientata in questo senso. E tuttavia, se il legante è quello che individua Sonia, ovvero di un "potere autonomo e autotelico della parola" che può svolgersi fino al "raggiungimento del livello informe della parola (stessa), condizione fluttuante in cui il senso si concede alla comprensione, di volta in volta, nell’atto del suo stesso farsi", non so se questo può bastare. E' in primis quella "condizione fluttuante" che mi fa pensare che racchiuda in sé un'alea e che mi fa temere una scrittura/guscio di noce alle mercé di una brutale corrente, per dirla con Shakespeare. E poi forse si tratta - forse - di un problema categoriale, un ambito in cui si possono far confluire anche troppe esperienze, anche decisamente contraddittorie, come è successo nelle arti plastiche e figurative con l'informale, che comunque possiamo considerare morto già alla fine degli anni Novanta. E tuttavia, ancora, questo lavoro ha in sé un elemento fecondo ulteriore (ma non involontario, ultroneo). In realtà, cioè, questa antologia, i cui autori - come annota Caporossi - sono "ondeggianti sul filo pericoloso che separa la natura crassamente lirica della poesia dal filone sperimentale o di ricerca", potrebbe con qualche giovamento essere osservata da una prospettiva verticale [longitudinale] che però non costituisce necessariamente un confine, secondo il concetto che dicevo all'inizio, tra aree in cui la parola informe è sì - per una parte rilevante - forma e medium, ma che poi veicola, a me pare, cose diverse, che mi sembra evidenzino, almeno qui, almeno due direzioni, ed è questo che mi interessa. Perché a un certo punto bisogna pur chiedersi, criticamente, in relazione al loro rapporto con la realtà, a cosa pensano davvero i poeti, qual è la loro spinta iconica/eidetica ad esempio, cosa immaginano davvero che io (anche come lettore-critico o anche empirico) legga o creda di leggere. Insomma che cosa vogliono dire. Giacché si tende, succede anche a me, ad accettare l'offerta linguistica dell'autore, specie se sub specie 'oscura/difficile', come l'oggetto [prodotto] "finito" del suo lavoro. Ma se si va ad analizzare davvero il precipitato, se si comincia a vedere cosa c'è dentro, le cose che ci sono dentro, allora appare evidente che in quella "oscillazione" citata (e che forse Sonia non ha voluto approfondire) c'è un punto nodale. Da una parte, in questo libro, c'è l'informe in cui davvero abita e agisce il "potere autonomo e autotelico della parola", ma nel senso che tende ad arrogarsi non tanto un potere di interpretazione (o forse di invenzione) del reale costituendolo con il verbo, quanto il diritto di contemplazione di sé, nel proprio farsi. Il quale farsi non è detto che sia regolato, come dice Sonia, dall'analogia intesa come "capacità logica (e ancor prima, prelogica) di porre nessi metaforici tra l’immagine poetica e la semiosfera esperienziale di riferimento". Rimane infatti il problema, tanto per capirci, di chi debba avere questa capacità logica, se l'autore, il lettore o entrambi. Come precondizione, immagino. Dall'altra parte di questo libro la parola informe (il cui grado di "informità" andrebbe comunque stimato, perché variante) mi pare che sia materiale plastico di rappresentazione, cioè ambisca quanto meno a rappresentare "ad arte" qualcosa che non sia solo la propria deformazione (seppure come imago di un reale difficile da penetrare). Cioè ambisca ad usare il linguaggio non solo in senso "strumentale" (come uno strumento risonante [autopoietico]) ma anche (o soprattutto) come mezzo conoscitivo o cognitivo, pur nel suo "farsi" dinamico (che vuol dire tendere a una innovazione della capacità espressiva della lingua). Su questo versante, a grattare un po' l'informe, poi il lettore trova la sua "soddisfazione", ammesso che in questo sistema il lettore sia contemplato (sia detto senza ironia: ad es. in molta arte contemporanea il fruitore, specie se passivo, non è affatto considerato come "variabile" componente del processo). Il qualcosa che sembra emergere a questa "longitudine" è un frammento di quella realtà (tralasciamo per il momento se complessa o meno), una parcella che possiamo meglio ascrivere ad una "semiosfera esperienziale", che però includa, perché no?, chi legge. Per capire meglio basta accostare i testi di autori - per fare qualche nome - come Bellomi e De Francesco, o Scarpa e Garrapa, o Porsia e Leonessa, o Tripodi e Riviello. Con le relative sfaccettature e con la cautela del caso, mi pare che lo sguardo, l'attenzione creativa siano orientati in due diverse direzioni, che all'inizio in sintesi avevo definito del "come" e del "cosa", ma che sono più propriamente prospettive, del linguaggio sul linguaggio e della lingua sulle cose. Che non sono necessariamente in contrasto, né, è ovvio, decisamente separabili (ammesso che debbano esserlo). Sono, nella migliore delle ipotesi, due campi di lavoro (ma non sempre entrambi di indagine). Il limite del linguaggio risiede in quello che dice: possiamo deformarlo alla ricerca di un senso aurale che confidiamo esista indipendentemente da noi e che sia di per sé in una qualche relazione con la realtà, ma credo che poi - senza farne una sovrastruttura - dobbiamo decidere in che direzione, verso quale indagine, su quali "oggetti" orientarlo, con tutta la "indisciplina" - per rovesciare un concetto foucaultiano - che compete all'arte. Poiché l'ultracontemporaneo, inteso come individuo oltre che come tangenza del presente, non può , al di là della sua definizione, che essere contenuto con quel reale complesso con cui anche come poeti dovremmo fare i conti. Come se fosse un enorme ipertesto. Io credo che la direzione sia quella. (g. cerrai) [1]
Parlerei - più che di mappe o se preferite di antologie - di
campionamento, anzi proprio lo suggerisco ai prossimi curatori di
raccolte. Campionamento di molte cose, se volete
anche nel senso sonoro e/o musicale del termine, anche in ragione
di una sempre maggiore smarginalizzazione del fare poesia (ammesso
che un margine esista) in territori, come quello della poesia
orale, nei quali il testo si smaterializza e ri-materializza nella
voce e dove il sample, specie testuale, non è infrequente.
(diciamo anche che il testo perde un po' il suo statuto, non solo a
favore della voce ma anche del gesto - e non sempre la poesia ci
guadagna). In margine: fluidità della poesia, digeribilità della
poesia (ammesso che sia un passo avanti), contro rigidità del mezzo
testuale, per sua natura poco spettacolare. Ma l'esempio
che ho fatto non deve essere limitante, anzi è solo un aspetto, uno
tra molti, della questione.
[2] Definire l’ultracontemporaneo acquisterebbe maggior significato se indicasse anche una svolta, oltre che una semplice fotografia del (ultra)presente. E poi, ultrac. in relazione a cosa? Che poi un point de repère, un rapporto col tempo, se vogliamo uscire dalla riserva della (in)comprensione del reale, dovremmo pure avercelo. L’ultracontemporaneo è destinato ad essere passabilmente [il] presente, per poi diventare semplicemente moderno, nella migliore delle ipotesi (e mi pare di essere d’accordo con I. Testa, citato in prefazione). E tuttavia è molto utile, se aiuta almeno a comprendere il presente [l'attuale], l'aria che tira. E se l'analisi dell'ultrac. evita la secca di somigliare troppo a quei prodotti open source che vengono forniti "as-is", cioè come sono, senza alcuna garanzia o ipotesi di sviluppo (to-be). Ma è evidente che bisognerà ancorare l'analisi a qualcosa d'altro, che non sia legato al transeunte. Per esempio ai fenomeni che scuotono l'oggi, che come sappiamo in Italia non riescono a trovare gran spazio (preciso: non sto parlando della cosiddetta poesia civile). Continua a leggere "" Mercoledì, 4 gennaio 2017Disaccordi - Antologia di poesia russa contemporaneaAlcuni testi tratti da "disAccordi - Antologia di poesia russa 2003-2016", edita da Stilo Editrice, a cura di Massimo Maurizio, che raccoglieesempi di una produzione recentissima e giovane (gli autori sono nati tra il 1962 e il 1994), spesso pubblicata solo al di fuori dei canali tradizionali, in blog, siti, riviste alternative. Una produzione anche stilisticamente e tematicamente differenziata, lungo però un filo rosso che il curatore ha individuato nella percezione comune della violenza, strisciante o palese, quotidiana o storica, individuale o collettiva. O anche istituzionale, quella insita fin nel linguaggio di sistema, omologato dalla politica e dai mezzi di informazione, cui l'artista reagisce con una "volgarizzazione", con la violenza verbale della lingua dei violenti. C'è la guerra (compresa la guerra in Ucraina), la ribellione, la rielaborazione del passato in chiave identitaria, la riflessione sul linguaggio, sulla funzione della poesia, sulla cronaca. I testi che ho scelto mi sono sembrati interessanti, altri contenuti in questo libro un po' meno, ma oggettivamente non sono in grado di stabilire in quale misura la traduzione ha contribuito o ha influito in un senso o nell'altro. In entrambi i casi però rimane forte l'impressione di voci così diverse e distanti dalle nostrane, di forte impatto anche nelle manifestazioni più liriche, anche quando prendono in prestito modalità e atteggiamenti occidentali "arrabbiati" e un po' beat che noi riterremmo ormai datati irrimediabilmente (e certo hanno buoni motivi per farlo, di alzare per quanto possibile la voce). Soprattutto una poesia poco incline all'introspezione autotelica, alla speculazione simbolista, al facile psicologismo. Continua a leggere "Disaccordi - Antologia di poesia russa contemporanea" Giovedì, 1 settembre 2016 Un assaggio di un eccellente poeta francofono di origine libanese, Salah Stétié, di cui spero di tornare a pubblicare qualcosa più avanti. I testi sono
tratti dall’antologia “Nel cerchio del cerchio – Trent’anni di poesia: 1973- 2003”, Bulzoni Editore, 2004, introduzione, traduzione e cura di Franca Bruera, con postfazione di Sergio Zoppi. Salah Stétié nasce a Beirut il 28 settembre 1929. Si forma dapprima al Collegio protestante, poi al Collegio San Giuseppe dei Padri Gesuiti e continua i suoi studi presso l'École Supérieure des Lettres di Beirut dove frequenta i corsi di Gabriel Bounoure. Tra il 1950 e il 1954 prosegue gli studi letterari a Parigi presso l'École des Hautes Études et il Collège de France; in questi anni stringe legami d'amicizia con Pierre-Jean Jouve, André Pieyre de Mandiargues, Giuseppe Ungaretti, Yves Bonnefoy, André du Bouchet e instaura rapporti di collaborazione con altre rilevanti voci della cultura contemporanea. Rientrato a Beirut, dirige il settimanale culturale "L'Orient Littéraire" e collabora al contempo alle principali riviste letterarie francesi, tra le quali "Les Lettres Nouvelles", "Le Mercure de France", "La Nouvelle Revue Française", "Europe", ecc. Diplomatico dal 1961, Salah Stétié è stato consigliere culturale del Libano presso le Ambasciate libanesi in Europa occidentale con sede a Parigi. Dal 1963 è stato nominato delegato permanente del Libano presso l'UNESCO. Ambasciatore nei Paesi Bassi, in Marocco, segretario generale del Ministero degli Affari Esteri a Beirut, Stétié affianca alla professione diplomatica un'intensa attività di poeta, saggista e critico d'arte. Nel 1995 ottiene dall'Académie française il Grand Prix de la Francophonie. È membro della Commission de Terminologie et de Néologie de la langue française. Continua a leggere "" Venerdì, 13 agosto 2010Luciano Erba - Piccola antologiaStatisticamente, almeno stando a quanto apparso su Poecast l'aggregatore poetico di Vincenzo Della Mea, i coccodrilli poetici di Luciano Erba, scomparso il 3 agosto scorso, sono stati tre. Coccodrilli in senso lato perchè nessuno dei tre compiange o santifica, o include o esclude Erba in una qualche corrente o temperie. Che ci si ricordi dei poeti solo quando muoiono è un fatto e non una colpa imputabile a qualcuno. La colpa è semmai di scordarcene quando sono ancora vivi, non riuscendo ad attribuire ai dimenticati nemmeno un valore di tradizione da far saltare allegramente. Si può dire che Luciano Erba non appartenesse nemmeno alla tradizione, almeno a quella italiana, forse per via della sua intensa frequentazione di traduttore e studioso della letteratura francese. Era semplicemente quello che si definisce, con un frusto luogo comune, un poeta, o meglio un intellettuale (nel senso che Eco ritorna a dare al termine), appartato. Secondo Marco Forti, "a differenza di molti coetanei più vocati alla sperimentazione - da Pasolini a Zanzotto, all'ultimo Giudici - Erba al massimo travolge la realtà piccolo borghese e vetero cattolica in cui è condannato a vivere, col fervore quasi settecentesco dell'immaginazione, della fantasia che vola a mezz'aria". Guido Guglielmi e Elio Pagliarani, invece, nel loro da tempo introvabile "Manuale di poesia sperimentale" (Mondadori, 1966), tentano di ascrivere Erba a una "poetica dell'espressione" (cioè una poetica dei valori linguistici piuttosto che degli elementi semantici della lingua) contrapposta o comunque distanziata da quella della comunicazione, cioè dei significanti e dei significati. Eppure anche rispetto a questa poetica Erba è periferico: secondo P.V. Mengaldo, Erba assume "questa posizione di erede disimpegnato di un linguaggio in via di esaurimento che sta all'origine del dono maggiore di questo poeta, un'eleganza naturale e noncalente, ottenuta senza alcun apparente lenocinio formale e per pura evidenza visiva, quasi da decalcomania, delle immagini. Press'a poco come il coetaneo e conterraneo Risi, Erba utilizza in direzione realistico-gnomica il filone seccamente epigrammatrico dell'ermetismo (specie Sinisgalli, del resto influente su tutti i lombardi), seriando le immagini in piccoli racconti essenziali". A mio avviso secondario poi che lo si accosti a Prévert, per quanto "filologo e lombardo" (Anceschi) o a un semplice tardo epigono del montalismo di quegli anni. Continua a leggere "Luciano Erba - Piccola antologia" Mercoledì, 1 aprile 2009La parola innamorata
Giuseppe Martinelli (v. qui), il "professoreinnulla" come si autodefinisce con molta modestia, aveva ragione. Horace Tograth (v. commenti al post del 17/03/09) è un personaggio, nient'altro, del "Poète assassiné" di Guillaume Apollinaire, in cui, come lui ricorda, Walter Benjamin vedeva un'allegoria della situazione degli scrittori e degli artisti al suo tempo. E fin qui ci siamo.
Continua a leggere "La parola innamorata" Mercoledì, 28 gennaio 2009da Vicino alle nubi sulla montagna crollata - Ferrari, Lago, Mancino, Ritrovato
Mauro Ferrari - La vista di Braies Continua a leggere "da Vicino alle nubi sulla montagna crollata - Ferrari, Lago, Mancino, Ritrovato" Mercoledì, 9 aprile 2008Vicino alle nubi sulla montagna crollata
Sempre a Bologna il 12 prossimo ci sarà anche la presentazione dell'antologia collettiva "Vicino alle nubi sulla montagna crollata" a cura di Luca Ariano e Enrico Cerquiglini, Campanotto Editore (v. qui la copertina), dedicata alle problematiche ambientali viste non solo con l'occhio del rimpianto e del cordoglio, ma anche con quello poeticamente e intellettualmente consapevole, perchè, come affermano i curatori "ci piace credere, pensare e tentare di fare in modo che attraverso una poesia, un semplice verso qualcuno possa accorgersi che i poeti non vivono nel loro mondo, ma sono parte attiva e con la loro voce cercano di migliorare, far riflettere e cambiare le cose". Non mi dilungo oltre, voglio solo ringraziare Luca e Enrico di avermi invitato a far parte della brigata.
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