Sabato, 18 agosto 2018
Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018

Avevo già cominciato a parlare brevemente di questo libro, o almeno di ciò
che sarebbe diventato, quando Mugnaini mi mandò alcuni inediti che di
questa raccolta avrebbero dovuto far parte (v.
QUI
). Il titolo era in pratica definitivo, ed in stampa è stato confermato;
mentre solo cinque delle quattordici poesie che avevo letto hanno trovato
la loro collocazione definitiva. Non è più tempo di farne un discorso
filologico, nell'era del digitale, della videoscrittura, di varianti
disperse in qualche hard disk, ma qualcosa vorrà dire di certo. Quanto meno
della cura e della disciplina con cui Ivano tratta la sua materia poetica,
e con essa il discorso che vuole portare avanti. E di quanto sia fedele
alla sua idea di fare poesia che tende innanzitutto a stabilire una
continuità di stile e di tonalità che è parte integrante di quanto intende
comunicare, in altre parole del suo "carattere", anzi - meglio - del
carattere persuasivo della sua scrittura. Riguardo al quale
confermo quanto scrissi riguardo sia a quanto avevo letto degli inediti sia
al suo libro del 2010, Il tempo salvato, (v.
QUI
). Che cioè consiste, il suo convincere placidamente, non solo nel trovare
la parola ancora serena, come ricorda Ivan Fedeli nella
postfazione, ovvero la continua ricerca di un livello comunicativo "medio"
(ma non mediocre) con poco da parafrasare e quindi confortante per il
lettore; ma anche nel riportare il suo mondo complessamente semplice
all'interno di una cerchia per così dire "domestica", e quindi comune
all'uomo, e perciò capace di creare un genius loci, un ambiente
quasi esorcizzante il mondo stesso. Che è semplice e complesso nello stesso
tempo, come si diceva, fatto di quella creta indocile dell'esistere che Ivano tenta di plasmare ad arte,
in sé complessa, ma che si manifesta per fenomeni, oggetti, evenienze in sé
semplici, linguisticamente decifrabili per quanto possibile, e tuttavia
pregni di un'altra e diversa dimensione su cui il poeta è chiamato a
riflettere, e da cui parte in riprese che a tratti mi rammentano Montale e
altri ("Allora, felice di aver capito senza avere / compreso...", "Eppure
non tutto è perfetto, c'è un brandello..."). Riflettere e sviluppare un
pensiero pacatamente, partendo da una salda fiducia nelle scrittura e nelle
radici anche culturali, stilistiche, robustamente novecentesche di essa
(*); è questo il registro principale di Mugnaini, una osservazione anche
dolorosa ma senza drammi (niente di esistenzialista) a cui il poeta
fornisce una trama dialettica nella quale gli accadimenti, i sentimenti, lo
scambio con la natura, la ricerca delle affettività trovano una
giustificazione di senso, non solo loro ma anche di quel esserci
dell'uomo. A questo si aggiunge un sentimento del tempo, generalmente
inteso, quel tempo che già avevo chiamato "il non domesticabile per
eccellenza", il tempo lineare in cui ogni momento, trascorrendo, diventa
subito memoria e quindi identità del vissuto. Mugnaini è poeta che parla
molto del tempo e - in un certo senso - fuori dal tempo si pone, in quelle
parcelle di tempo "salvato" - che poi è la poesia stessa al suo meglio -
che gli assicurano, come avevo scritto, "un'enclave psicologica e di
ethos". Nella quale il mondo si affaccia ed è nello stesso tempo escluso, o
almeno tenuto alla distanza, o forse non combattuto perché inutile farlo,
perché "è muto l'alfabeto del mondo", perché tanto le cose che contano, ci
dice Ivano, sono veramente poche ed essenziali, come ad esempio l'amore di
cui scrive pur sapendo che "scrivere d'amore non è più possibile, non ora,
/ non qui" se son si affronta, di questo tempo/mondo, "il niente (...) che
lasciamo trionfare, becero, sguaiato", e magari "la salvezza è nel riso
rubato alla ragione", il mondo è esorcizzabile "lasciando che il sole /
entri negli occhi e nella mente a petto nudo". C'è in Ivano spesso un
richiamo a puri elementi naturali che lo riconnettono con la naturalità
della vita, c'è un elemento spirituale, come avevo già detto, una pietas anche autoriferita che tende a superare, poeticamente,
anche inevitabili contraddizioni, ad esempio tra il mondo muto e il mondo
decifrabile che parla attraverso sprazzi di sole, visioni di donne, colori
, incontri, oggetti o "cose" tuttavia non inanimati, che sono lì per
"qualcosa". In molti sensi la realtà di Ivano è tutt'altro che complessa, e
se c'è un dolore alla fine è quello basico, fondamentale e quindi
"semplice" ma insidioso del pavesiano mestiere di vivere. Contro il quale
Mugnaini non grida, ma sul quale medita, non escludendo niente in verità di
quello che è concesso osservare, e quindi vivere con in fondo una certa
gratitudine, come scrissi, verso la plastica indocilità di quella creta. (g. cerrai)
(*) Cultura non esibita, con quella certa timidezza che, conoscendolo, gli
somiglia ma non lo condiziona. Un indizio: la mancanza di note al testo,
pur essendo diversi i richiami. Una specie di ritrosia a mostrare cultura
(ad es. un insospettato, insolito, Alfredo Giuliani dei Versi e non versi in Un'altra siepe di spine)
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Domenica, 5 febbraio 2017
Avevo già scritto qualcosa sul lavoro poetico di Ivano Mugnaini qualche anno fa (v. QUI)
e in quelle note mi pareva di aver individuato alcuni tratti salienti
del suo modo di vedere il mondo e la poesia. Ora mi manda qualche
inedito che troverà collocazione in un suo prossimo lavoro dal titolo,
penso definitivo, di "La creta indocile", e in questi testi io lo
ritrovo. Ivano è un poeta solido, anche nel senso di una fedeltà a sé
stesso e ad una tradizione però assimilata e "riscritta" in maniera del
tutto personale, molto poco crepuscolare. E' fedele ad un mondo, alle
sue manifestazioni sensibili, anche minime, e al significato che esse
riverberano sulla vita, e nelle quali il tempo vissuto o "salvato"
agisce da attore principale, anche in queste poesie. Un mondo niente
affatto ristretto, per quanto Mugnaini sia con tutta evidenza un uomo di
grande riservatezza, uno che tu immagini vivere e scrivere (non solo
poesia ma anche bella prosa) al suo tavolo da lavoro in un piccolo paese
della provincia lucchese. Non ristretto perché certamente cultura e
immaginazione, capacità di lettura dei "segnali" e reinterpretazione
dei medesimi, permettono a Ivano di addivenire ad una stesura del testo
complessa e articolata di sfumature, ma assolutamente leggibile, anzi
godibile perché parla con un linguaggio poco ellittico, che tende a
portare il lettore, senza alcuna sentenziosità, dritto al centro della
questione, a quella domanda esistenziale che è di tutti. Non c'è ragione
di dubitare che la creta di cui dispone Ivano sia indocile, presenti
qualche opposizione a lasciarsi modellare, poiché si tratta dell'essenza
stessa della poesia, linguaggio espressivo quanto mai "costoso" (per
dirla con Barthes) o dispendioso, se preferite, proprio in termini di
comunicazione. Ma si percepisce nelle poesie di Ivano come una
gratitudine verso questa indocilità, nei confronti della sfida che
questo materiale poetico gli propone quotidianamente. Una gratitudine
che alla fin fine è per la vita stessa, per gli incroci che essa
presenta al poeta di giorno in giorno, tanto che sembra di percepire in
questi testi addirittura, in una certa misura, un sentimento sottilmente
religioso, il sentimento di un uomo che si trova in mezzo al creato ma
non lo domina, forse non lo considera un dono su cui l'uomo ha una
biblica primazia, cerca solo di capirlo. Un cielo trascorso da nuvole
che diventa innesco e fondale di ricordi; il ritrarsi, anche con un
certo orgoglio, dal "sentire comune" proprio per abbracciare idealmente
il mondo, per comprenderlo; il gettare uno sguardo anche ironico sugli
altri, sui compagni di un viaggio che è anche metaforico, su una realtà
che può apparire periferica, e che non è solo fisica ma costituisce
anche un'enclave psicologica e un ethos. Sono alcuni dei temi di queste
poesie, che nel loro insieme delineano un'area ideale in cui Ivano si
riconosce e si muove come autore agevolmente, in cui il tempo, quello
salvato, quello dei ricordi o quello delle parcelle di vita che Ivano si
annota, sembra benevolmente rallentare, indugiare quel tanto che basta a
farsi cogliere, a farsi vivere pienamente. (g.c.)
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Giovedì, 23 gennaio 2014
Ivano Mugnanini - Il tempo salvato - Ed. Blu di Prussia 2010
Quella di Ivano Mugnaini è una poesia pensosa e pensata, frutto di una
evidente meditazione sui casi della vita, sull'amore, sull'eventualità
di ritrovarsi sconfitti, su una probabile incapacità, laicamente
consapevole, di comprendere il mondo circostante o la stessa natura, sul
rischio di una qualche indeguatezza di "comprendere" quel mondo nel
linguaggio e col linguaggio. Sono poesie fitte, dense, articolate spesso
in lunghi periodi monologanti, come un pensiero tra sé e sé riflesso,
che il poeta mette a disposizione del lettore. E il lettore deve
accostarle (o sarebbe meglio che lo facesse) con una predisposizione
d'animo quasi vergine, poichè si tratta di trovare all'interno di
ciascun testo il giusto cammino, il giusto ritmo, il giusto fiato,
quello che porta, con l'ultimo verso, al compimento, alla realizzazione
di una epifania poetica. Del resto lo stesso Mugnaini ci esorta,
nell'ultima poesia della silloge, "lasciamo che il testo trovi / il
cammino, l'oggetto, il messaggio" (...) lasciamo che il verso trovi /
per sé e per noi la sua strada, il suo senso". Che è una forma conativa,
quasi di stampo anglosassone, per tirare gentilmente il lettore
"dentro". Sia detto incidentalmente che nel lavoro di Mugnaini quella
parola "messaggio" non ha niente di mistificante, topico o sbrigativo,
poichè quel che comunemente con ciò si intende è quanto di più lontano
ci possa essere dall'essenza stessa della poesia, che non deve dare
"messaggi" a nessuno. E' semmai il contrario, sembra dirci Ivano tra le
righe: e cioè che non è il poeta a dettare il messaggio ma è la poesia,
nel suo divenire spesso misterioso, a svelare qualcosa che l'autore
stesso non sapeva. Va da sè tuttavia che il "mistero" in questi testi va
di pari passo con una sicura artigianalità del verso, certo consolidata
nel tempo, e che è proprio quella che permette all'autore di
impegnarsi, senza mai perdersi, nei monologhi interiori di cui dicevo, e
di addomesticare (forse anche in senso etimologico) proprio quel chè di
misterico che ancora oggi è un alone residuale che qualcuno accosta al
concetto del fare poetico.
Addomesticare, rendere domestico, è la millenaria illusione
antropocentrica (e perciò biblica) che accompagna il destino dell'uomo
sulla terra. Ma addomesticare che cosa? Innanzitutto, partendo dal
titolo, il non domesticabile per eccellenza, il tempo. Per quanto nella
comune esperienza umana sia un tentativo destinato al fallimento, il
poeta sa, come Agostino, e lo sa più di tutti, che il tempo siamo noi.
Tempo salvato, tempo perso...benché possa sembrare banale richiamare
questa giustapposizione, vale la pena ricordare che è il tempo che
salviamo in memoria a costituire quel tempo "non spazializzato", fatto
di un flusso ininterrotto di momenti, che è il cardine della nostra
coscienza (Bergson), ma anche del nostro "esserci", come afferma
Heidegger, il nostro essere nel mondo, e perciò, in ultima istanza, la
nostra identità di uomini e donne. Ma soprattutto, dice Mugnaini nel
brano che dà il titolo alla silloge, il tempo salvato (quindi non
perduto) è quello "strappato con la vita alla vita", compreso ovviamente
quello dedicato alla poesia, quella "follia che ti spinge ad alzarti
prima / della luce cercando il senso, la parola". Nel valore etico del
tempo "salvato", perciò, per quanto esso possa essere "fragile,
imperfetto, / regolato da cronografi tarati male", si nobilitano, anche
poeticamente, le esperienze vissute, l'amore, gli eventi anche minimi ma
significativi, le pulsioni primarie. La domesticazione è riportare con
la poesia le cose all'interno della cerchia, non solo strettamente
personale, attraverso confini sempre aperti, osmotici, tra l'oggettuale e
il soggettivo. Ecco perciò che in questi testi si va dal piccolo al
grande e viceversa, dall'interno all'esterno, dall'io a un noi, non
sempre esplicito ma sempre presente, dalla concretezza delle cose
all'animo. Un continuo attraversamento affettuato con una apparente
composta serenità, o una disillusa ironia che ha anche illustri
ascendenti nella poesia del Novecento, ma che dà la dimensione di un
autore che si sente talvolta apolide rispetto al mondo, e nutre
felicemente la sua poesia di questo sentimento. Un procedimento che è
possibile cogliere in pieno, a titolo di esempio, proprio ne "Il tempo
salvato", in cui si passa da una constatazione del reale anche "dura",
anche arrabbiata, ad una riflessione dolente, una domanda sul senso di
sè e del proprio fare, anzi sulla "ipotesi di sé, la possibilità di
essere / immaginato come ente inesistente" (corsivo mio).
Ossimoro, contraddizione, aporia, estremo confine tra l'essere e il mero
accidente, ovvero qualcosa che - semplicemente - accade, o si lascia accadere.
(g.c.)
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