Sabato, 16 novembre 2013
Dorinda Di Prossimo - Quaderno millimetrato - Incerti editori, 2012
Non so nulla di questa autrice, tranne il fatto che è piaciuta ad un
amico di cui in genere apprezzo l'intelligenza. Dunque starò ai versi, a
quel che leggo, al dato, per così dire, sensibile.
Il titolo rimanda subito ad un concetto spaziale, al quadrato, alla
misura. Per che cosa lo spazio, se non per abitarlo, attraversarlo,
riempirlo di "oggetti" o forse - se infinito - perdercisi? Lo spazio è
spaventevole se non lo "familiarizzi", o meglio se non lo rappresenti e
simbolizzi (secondo Kant) o se non lo reifichi (secondo Bergson)
prendendone un positivistico possesso. In entrambi i casi (e in altri
che tralasciamo) quello che cerchiamo di tenere sotto controllo, il vero
obiettivo, è in realtà il tempo. Personalmente credo che
esista un'agorafobia poetica in molta della poesia attuale, un horror
vacui che molti cercano di riempire di echi, di parole, di "cose" e in
cui gli oggetti (o i fatti tangibili) diventato totem dell'esistenza,
sue testimonianze. Ma quello che ci spaventa è in realtà lo scorrere dei
giorni, con il loro carico di memoria, se si guarda al passato, o di
profonda incertezza, se pensiamo anche solo a domani mattina.
All'interno di questi schemi sommari, la poesia di Di Prossimo si
muove a proprio agio, anzi vi abita confortevolmente, spaziando nei due
sensi del tempo, quello del ricordo, soprattutto dei genitori, e quello
del quotidiano (del futuro invece, come in quasi tutta la poesia
contemporanea, non c'è traccia), una quotidianità rifugio costituita
dall'osservazione dei "fenomeni" e da come essi risuonano nella
sensibilità dell'artista. Giustamente Sebastiano Aglieco, in una nota al
libro pubblicata sul suo blog, parla di esistenzialismo abbassato di
tono, "postbellico". Se sia postbellico non so, ma certamente in questo
libro risalta una convinzione particolare, che cioè sia necessaria la
coscienza (in questo caso poetica) come liaison tra uomini e
cose, una coscienza individuale (e quindi solitaria, e quindi relativa)
capace di leggere in proprio e in maniera del tutto parziale qualche
frammento di realtà. Un'attenzione - anche - piuttosto millimetrica,
come dimostra ad esempio una punteggiatura (il punto fermo) frequente
anche all'interno di singoli versi, che "stacca" le cose, le isola a
volte a sintagmi nominali, in qualche modo le confina, ancora le
familiarizza e cerca di ridurle ad uno stato di maneggiabilità.
Questioni forse marginali, in relazione a un libro complessivamente
suggestivo.
Le suggestioni, in questa opera, hanno le loro ragioni concrete. Proviamo ad individuarne alcune:
parlerei intanto di una poesia per "accostamenti" progressivi, di
avvicinamento alle cose (cose anche concrete) e ritorno, che crea una
fitta relazione cose/sensazioni e cose/stile. Tipico in questo senso il
testo "Alle cinque e quaranta del mattino cielo ancora" (v. sotto), in
cui si evidenzia anche un altro elemento fondamentale: una cognizione
del tempo (e del dolore che comporta) affatto particolare, un tempo che
tende psicologicamente all'immobilità, alla sospensione o a un suo
drastico rallentamento, tende in qualche maniera quindi alla fotografia,
ad uno struggente "restasse così". E' il tempo problematico della
poesia, naturalmente.
L'altro elemento interessante è che l'io c'è (ammesso che parlarne
significhi ancora qualcosa oggi) ma è totalmente antilirico, poiché è
preso in una centralità tutta sua, è al centro di un panopticon da cui
osserva a trecentosessanta gradi ogni evento, ogni fenomeno, ogni
manifestazione concreta del reale (e dei suoi echi sulla psiche), da cui
osserva cioè - e qui si torna a questo termine tanto usato quanto
misterioso - ogni "cosa". Utile esempio è ancora la poesia citata, in
cui c'è una profusione di oggetti concreti, tangibili, quasi un elenco.
Un corollario di questo approccio è che si tratta di una poesia
potenzialmente infinita (poichè infiniti sono gli "oggetti" e le loro
armoniche vibrazioni sulla vita e sulla scrittura) e quindi totalmente
biografica, anzi biologica, finché c'è fiato. E tuttavia tante volte il
ricordo prende il sopravvento sulla fenomenologia esistenzialista,
disponendola in una storia che ha un suo pieno senso oggi.
Giacchè, come mi ricordava appena ieri uno scrittore che conosco, la
memoria è il presente di un passato. E' quindi corretto parlare qui di
storie, anzi di belle storie (lo spazio in questo libro, per quanto millimetrato,
è anche spazio narrativo) con rarissimi tratti gozzaniani ("Non si
dorme la domenica, su su, andate / in cucina. Anna vi prepara l'uovo
sbattuto - / E si lasciava il piccolo tepore delle lenzuola, / tripli
calzettoni per correre in corridoio..."), ma sempre marcate da bei
finali.
Infine: che questa sia poesia femminile (ancora?) è lapalissiano. Come
non essere d'accordo con Alida Airaghi nella nota conclusiva: "E' una
scrittura assolutamente femminile, intrisa di una femminilità
addirittura sensuale, sebbene di sesso non parli mai, e poco anche di
amore"? D'accordo, femminile, ma nel senso - anche almeno - di una
attenzione "inventariale" che le donne hanno verso il concreto e la
buona prassi, anche quotidiana. E forse aggiusterei "sensuale" con
sensista, che è una forma forse non "postbellica" ma certo più radicale
di quell'esistenzialismo di cui si parlava prima. (g.c.)
Nota a margine: gli Incerti editori sono tutto tranne che incerti. Si
stanno anzi evidenziando come piuttosto attenti, come è possibile vedere
anche solo da quanto presente qui su IE.
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Giovedì, 13 dicembre 2012
Wojciech Bonowicz - Mare aperto, Incerti Editori 2012, a cura di Leonardo Masi
Uscita nel 2006, Mare aperto è la quarta raccolta poetica di Wojciech Bonowicz (1967). [...]. Mare aperto è a oggi la silloge di Bonowicz che ha avuto in Polonia maggiori riconoscimenti, fra i quali il Premio Gdynia, e lo stesso autore la considera un punto di svolta della sua carriera. Dopo di essa si è cominciato a parlare di Bonowicz come di un nuovo esponente della poesia religiosa. Pur non negando il proprio interesse per la teologia (del resto nel 2001 pubblicò una fortunata monografia su Józef Tischner, brillante prete filosofo morto l'anno precedente) l'autore prendeva però al contempo le distanze da una poesia il cui fine fosse quello di inserirsi in una tradizione, quella della poesia religiosa, pur molto fortunata in Polonia. La ricerca del poeta è rivolta piuttosto verso una lingua adeguata a parlare delle faccende che gli stanno a cuore. C'è la religione, certo, ma prima di essa, in questo libro magistralmente costruito, viene il tema della scrittura, con una serie di componimenti autotematici. Se in queste poesie cerchiamo risposte, troveremo soltanto ulteriori domande: Bonowicz crea continuamente situazioni ambivalenti, le sue storie sono piuttosto delle epifanie. Esemplare è il testo che dà il titolo alla raccolta: abbiamo da un lato una situazione molto chiara, presa dal quotidiano, e però d'altra parte restano tanti elementi inspiegati. Tutto questo avviene in soli tre versi, più un titolo che aggiunge mistero al mistero. Abbiamo un quadro, ma non sappiamo cosa avviene fuori dalla cornice. E poesie come Cronaca o Canti storici parlano forse di attualità? O di altri tempi e di altri luoghi? Tutte le risposte sono plausibili, perché lo spazio e il tempo in cui si muovono questi testi sono quelli dell'archetipo. Si noti, infine, che Wojciech Bonowicz è nato a Oswiécim, la cittadina presso il campo di sterminio nazista che ai più è noto col nome tedesco di Auschwitz. In un'intervista il poeta ha detto: "Solo dopo l'uscita di Mare aperto ho cominciato a parlare di Auschwitz, che è un tema col quale mi misuro da sempre. Sono cresciuto all'ombra del campo di sterminio. La consapevolezza che questo è accaduto così vicino ti segna per tutta la vita. [...] Prima avevo paura a parlarne, non volevo che le mie poesie fossero lette solo in quest'ottica: ecco un altro poeta del dopo-Auschwitz! Ora non ho più paura". (dalla postfazione di Leonardo Masi)
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Domenica, 22 gennaio 2012
Un libro suggestivo, questo qui di Daniela Andreis edito da Incerti Editori, Viagrande (CT), 2011. Fin dal titolo, aestella,
(sì, con la virgola, cioè con una sospensione necessaria - dopo questo
vocativo/invocativo - per prendere l'abbrivio, un preludio a chissà
cosa, a chissà quali aperture di senso). E poi la forma, certo, forse un
romanzo epistolare, forse (e più probabilmente) una prosa poetica in
cui, come in una roccia intrusiva, le venature liriche premono per
brillare alla luce.
Se parlo di accenti
lirici qui preminenti non è un caso. Lo faccio con qualche riferimento
al dibattito sulla poesia in prosa che da qualche tempo si sta svolgendo
e che, va detto subito, libri come questo in un certo senso elidono. In
soldoni: se la poesia in prosa, come oggi comunemente intesa e con i
suoi più noti frequentatori, esplora il linguaggio, lo intreccia
sperimentalmente, salta a pie' pari la narrazione, usa la forma come
contestazione sia del reale sia delle forme che la precedono, nella
prosa poetica come questa di Andreis si resta - giustamente -
nell'ambito, anche tematico (l'io, i sentimenti, l'assenza ecc.) più
propriamente lirico, alla ricerca - per mezzo di un linguaggio limpido -
di un significato a volte oscuro.
Non sappiamo chi è veramente aestella,
non sappiamo, come avverte il risvolto di copertina, esattamente il suo
genere e i suoi tratti, forse non sappiamo nemmeno se è una persona o
un'idea (o ombra) platonica. Nel susseguirsi di epistole senza risposta,
come si conviene a un rapporto spezzato, a una comunicazione
interrotta, si compone un diario di mancanze, solitudini, si misura "il
metro del tuo silenzio" e non ostante questo, dice l'autrice, "di
sintassi in sintassi, io sono le tue parole e tu le mie".
Contemporaneamente quindi si celebra un amore per la parola che accade e i suoi
disvelamenti ("tutto è cominciato con la parola addiaccio"), si
immagina, negli spazi e nei silenzi tra una missiva e l'altra, la rete
di fatti che continuano ad avvenire, i filamenti di vita che
intercorrono e scorrono. Molto, in questa prosa poetica, soprattutto gli
accostamenti simbolici, i tratti surreali, le eco metaforiche, concorre
al suo indubbio fascino, a quella attrazione che ci induce a spiare
frammentari indizi, per vedere, come nei racconti, se e come andrà a
finire. Qualcosa che a me ricorda, ça va sans dire, il Dino Campana de " Il viaggio e il ritorno" ("Il tuo corpo un aereo
dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera
d'amore di viola"). (g.c.)
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Giovedì, 27 maggio 2010
Dice Giampaolo De Pietro dell'autore: Francesco è un poeta davvero toccante, e un artista magnifico. Se cerchi e dai uno sguardo alla sua biografia il passaggio per la scrittura è notevole (non da e per un elenco di "stellette" o notevoli premi in poi...), così come se conosci il suo disegno, la sua pittura, il suo linguaggio espressivo o tratto. Questa poetica della neve davvero ti nevica (bussa, tocca) intorno e dentro. Il lavoro di Francesco Balsamo è attraversato dalla neve, sarà per un utilizzo di bianco sul nero carbone, un bianco che non discioglie ma attraversa, restando mescolato, come innevando i tratti emozionali delle figure stesse, o dell’immaginazione di loro. Per farsi storia della neve, o neve della storia di ciascuno. (questo, però, lo avevo scritto in relazione alla sua ultima mostra - Il tempo plurale delle figure - bellissima!) Probabilmente lui ha avuto una fase in cui separava nettamente i due "mo(n)di". Il libro in questione - gli incerti editori siamo noi, certi di poter fare un buon lavoro, come un buon sogno da portare su carta-libri - ha una veste (orto)grafica curata personalmente dal poeta, e dentro (e fuori) vi si trovano suoi bellissimi disegni.
Personalmente non ho molto da aggiungere o da confutare rispetto a quanto afferma Giampaolo. A parte forse il fatto che questa scrittura, questa "ortografia della neve" - in cui appunto l'autore sembra scrivere di (e su) una materia poetica dallo stato fisico instabile almeno come i tre stadi dell'acqua - è al limite di una eterea liquefazione, o meglio sublimazione, termine che qui, se si leggono alcuni testi in cui il lirismo è quasi volatile, mi sembra quanto mai appropriato. Un'altra breve considerazione riguarda il rapporto tra linguaggi artistici, in questo caso tra pittura e scrittura. Almeno da quello che ho potuto vedere credo, contrariamente a quello che dice Giampaolo, che la "fase in cui (Balsamo) separava nettamente i due mo(n)di" non sia del tutto conclusa. C'è ancora a mio avviso (e non è mica detto che questo sia un male), una distanza tra i modi, i colori (a parte le trasparenze), le inquietudini di una pittura dai toni oscuri e densi da cui le figure (o parti di esse) emergono quasi in negativo come fantasmi persi nel tempo (v. ad esempio qui). E quelli di una scrittura trasparente e traforata, quasi sospesa e dissimulata, appunto, nell'estremo candore della neve (o - se preferite - della pagina). (g.c.)
Francesco Balsamo è nato nel 1969 a Catania, dove vive e lavora. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera e Catania e alla facoltà di Lettere dell’Università di Catania. È tra i vincitori del premio Eugenio Montale nel 2001 — sezione inediti — con Appendere l’ombra a un chiodo, poesie pubblicate nell’antologia dei premiati, edita da Crocetti nel 2002, nello stesso anno riceve il premio Sandro Penna, per l’inedito, con Discorso dell’albero alle sue foglie, edito da Stamperia dell’Arancio nel 2003. Alcune sue poesie sono state pubblicate su riviste e su antologie. Una sua raccolta è stata tradotta in finlandese e pubblicata a Helsinki nel 2004.
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