Amico di poeti come Aragon, Apollinaire, Jacob.
Tzara, Breton, Soupault, riconosciuto egli stesso come ispiratore del
Surrealismo, amico e collaboratore altresì dei più grandi artisti
dell'epoca, come Modigliani, Braque, Matisse, Picasso, Mirò, che
illustrarono alcuni suoi libri (straordinaria l'edizione Teriade del
1948 de Les chant des morts, [vedi]
arricchita da 125 incisioni di Picasso), e ancora critico d'arte,
musicofilo e partigiano della Resistenza francese (nonché amante di Coco
Chanel), Pierre Reverdy rappresenta una complessa figura di
intellettuale e di raffinato poeta, sostanzialmente poco noto da noi
(che io sappia, a parte traduzioni e scritti sparsi, per un titolo
italiano si deve risalire a "La maggior parte del tempo" che Franco
Cavallo curò per Guanda nel 1966), mentre di maggior fortuna gode nei
paesi anglosassoni dove autori come Ashbery, Padgett, Rexroth si sono
cimentati in sue edizioni.
"In Pierre Reverdy la clausura abita un altro
spazio angustissimo: quello degli occhi. Lo spazio della poesia sono gli
occhi. Il fuori viene svuotato del suo ardere, del suo colore. Il
colore rimanente spesso è un blu notte, trepidante di attesa, o un
giallo splendente e spremuto, trepidante anch’esso della vita che si
lacera e si dona e tuttavia non è, non può essere, non è pienamente:
perché colui che era atteso non è mai arrivato.
In Reverdy lo spazio della scrittura è la calibrazione precisissima
dell’immagine, pena l’angoscia; senza sfocamento. La descrizione rapida
prima che l’oggetto trascolori nella sua luce, prima che la solitudine e
la malinconia generino astio. E quindi storpiatura nella parola. Dove
la parola non arriva, o rinuncia, ecco lo spazio bianco della pagina, il
verso bianco tra un verso e l’altro, la parola non detta, l’immagine
ritagliata e immobilizzata nell’angolo di una stanza.
Lo spazio trema in Reverdy come i muri fragili della casa; qualcosa è
già accaduto, la parola l’insegue; il poeta fugge il mondo, rinuncia; la
sua voce non centra, è centrata dalla minaccia di una tempesta che
scoppierà; dall’attesa.
Reverdy non abita lo spazio, è lo spazio ad abitare il perimetro dei
suoi occhi. Il poeta abita la provvisorietà dell’immagine, e quindi la
precarietà dell’esistere. La sua scrittura nasce a distanza, nel bordo
della mondanità, al cui centro splendono gli ori e le perle e dove la
parola viene lanciata nel vortice della danza come la vittoria
rigogliosa e lacera della vita. Reverdy guarda e parla. Ma le parole
potrebbero lasciare posto alla sola immagine". (Sebastiano Aglieco,
fonte: Poesia 2.0)
Su come se la passi la poesia, data sempre per moribonda se non spacciata del tutto, interviene Valerio Magrelli, in un articolo su La Repubblica del 14 agosto scorso, dal titolo "Un popolo di poeti - Un paese di rime tempestose" (v. qui). Articolo appunto giornalistico, ma comunque interessante sintesi di come la vede un osservatore in un certo senso privilegiato come Magrelli, che ha modo di registrare lo stato dell'arte da diversi punti di vista, compreso quello interno alla editoria maggiore. Si parte naturalmente dalle cifre, a prima vista impressionanti. Un milione e mezzo di persone che avrebbero composto almeno una raccolta in vita loro (non sappiamo se edita o no), 20 o 30 mila "praticanti" (termine che sta, non certo per colpa di Magrelli, tra la fede religiosa e il judo). Cifre notevoli, sì. ma mi chiedo quali in proporzione possono essere in un paese come gli Stati Uniti, dove la poesia si insegna perfino nelle università. Voglio dire, può darsi anche che le nostre non siano così esorbitanti. O può darsi viceversa che lo siano, in relazione al grado di acculturazione di questo nostro paese. Comunque sia, il fatto è - prosegue Magrelli - che i poeti sono tanti e i libri di poesia venduti sono pochi. Ecco qua il punto, tante volte sollevato anche nei dibattiti in rete: si scrive ma non si legge (e tanto meno si legge criticamente, ma questa è un'altra storia). E se vogliamo per un attimo rimanere alle cifre, sarebbe bastato che il milione e mezzo di scrittori di poesie avessero comprato un libro di poesie, oppure, se vogliamo accontentarci, sarebbe sufficiente che i 30 mila "praticanti" acquistassero una raccolta all'anno (diciamo 30 raccolte per mille copie, considerando queste mille una produzione editoriale di "sicurezza") per evitare la lamentata chiusura di certe collane. Questo è un fatto, per usare le parole di Magrelli, di carenza comunicativa, perchè, dico io, è carente il ricevente del messaggio (e come sappiamo, mentre il silenzio è anch'esso una forma di comunicazione, la sordità non lo è). Altri fatti, richiamati da Magrelli, sono lo spostarsi dell'interesse, sopratutto giovane, verso altre forme "liriche" o poetiche come la canzone (citando Lorenzo Renzi) e lo scadimento del mandato sociale del poeta, ripiegato sul confessionale, sul narcisistico dettaglio della propria vita effimera (citando Mazzoni). Magrelli si è sempre opposto fieramente all'idea che la musica leggera, la canzone anche autoriale sia "poesia", opposizione che ho potuto constatare anche personalmente durante un incontro pubblico. Su questo sono certo d'accordo con lui, con buona pace dei fans di De André o Capossela. In quanto all'io imperante a cui allude Mazzoni, non si tratta tanto di quello eroico che ha attraversato il '900 mostrando la crisi dell'individuo di fronte ad un mondo sempre più complesso, ma quello che dopo aver esaurito l'espressione di realtà nuove per quanto individuali ha poi portato questa individualità verso modalità espressive che quanto più erano libere tanto meno erano comunicative. E allora? Allora, per quanto queste premesse non siano affatto rassicuranti, la prognosi non è del tutto infausta. E questo perchè, come annota correttamente Magrelli, la comunicazione poetica si è spostata altrove. E lo ha fatto in due direzioni importanti, quella di una produzione cartacea minore, di riviste e piccoli editori, spesso più coraggiosi e curiosi dei grandi (in gran parte in difficoltà); e quella di una poesia disseminata in luoghi o eventi (Magrelli cita gli slam) o occasioni diverse, anche più capillari dei festival che cita Magrelli, o dei premi letterari su cui qualche volta è lecito avere dubbi. Sul versante della carta, tralasciando per il momento le antologie, a volte costruite come certe mostre, cioè su un filo conduttore artefatto (il più di tutti quello basato sull'astrattissimo concetto di "giovane"), direi che l'attività più meritoria la svolgono i fogli, le piccolissime riviste, le piccole case editrici (i nomi sarebbero molti). La poesia su carta sembra effettivamente affidata all'editoria minore, o addirittura a quella amatoriale, che si accontenta di andarci pari anche senza il famigerato "contributo" dell'autore, quella che seleziona la roba da pubblicare mediante un confronto tipo un concorso che non sia ad usum assessoris o annusando in giro (e dove vuoi annusare, ormai, se non nella rete?). Ed effettivamente quello che conta (e la novità) è appunto il confronto, più o meno democratico, che va a sostituire il patronato o patrocinio di questo o quel Poeta Noto. Breve inciso: non illudiamoci del tutto, anche nel web ci sono forme di patrocinio che si appoggiano alla "autorevolezza" di certi siti o luoghi virtuali. Ma è una questione marginale. Sta di fatto (e ne abbiamo parlato in altre sedi) che solo il web poetico può avere una visione abbastanza varia di quello che sta succedendo. E' un fatto che personalmente riesco a leggere cose più interessanti in certi siti che nella "bianca" di Einaudi, che pure si azzarda a pubblicare perfino esordienti assoluti (v. qui). Già, la rete. Magrelli accortamente non manca di registrare (forse con un pò di ritardo) che la novità vera è appunto rappresentata dal web, anzi direi meglio dalla comunità poetica che bene o male e con differenziati livelli qualitativi (e qui si torna al problema della "lettura" critica) si è insediata in rete. Ai siti che cita Magrelli aggiungerei almeno il nuovo e in progress Poesia 2.0 (v. qui), figlio naturale di un serrato dibattito su poesia e web che si è svolto negli ultimi tempi (Vimercate, Verona, la rete stessa...), dibattito che tutti si augurano che continui e si intensifichi, non ostante qualcuno creda di identificare elementi di stanchezza nel mezzo. Qualche considerazione finale. Partito dalla contraddizione tra i molti poeti e la poca poesia venduta, Magrelli chiude il cerchio tornando al paradosso del rapporto tra poesia e mercato. Eppure, proprio partendo dalla millenaria convinzione che carmina non dant panem (né ai poeti né agli editori), deve proprio esserci un rapporto di questo tipo? Non è forse proprio la piccola editoria, che ha depotenziato la carica commerciale della poesia, e ancor più internet, che l'ha smaterializzata e forse defininitivamente demonetizzata (mi si passi la parolaccia), che hanno spostato drasticamente i termini del problema? E se invece di venderla l'obiettivo fosse quello (con il web, gli eventi, gli slam, le letture, il copyleft) di fare della poesia una cultura diffusa?. E anche: possiamo inquadrare il problema da diverse dicotomie? Voglio dire, possiamo decidere che c'è una differenza sostanziale tra poeti editi e poeti noti? oppure tra poeti venduti e poeti diffusi (scelta che alcuni hanno fatto)? se la mia poesia in rete ha 500 lettori non paganti e quella del Poeta Noto vende 500 copie come va considerata la cosa? Certo questa diffusione, le centinaia di pagine che è possibile reperire in rete pongono a maggior ragione il problema della qualità, e di una attenzione consapevole e critica. Ma restano una serie di domande, una delle quali è se per far vivere la poesia non dobbiamo alla fine "regalarla".
II foglio come luogo della sovversione e del bianco
Sovversivo è il foglio su cui la parola crede d'accamparsi; sovversiva è la parola attorno alla quale il foglio dispiega il suo bianco.
Un passo nella neve è sufficiente a scuotere la montagna.
La neve ignora la sabbia. Eppure in tutte e due è il deserto.
Glaciale il bianco alle sue vette.
Nero il sole della parola.
Il patto tra la carta e il vocabolo - tra il bianco e il nero — è l'accoppiamento di due sovversioni rivolte l'una contro l'altra, nel cuore stesso della loro unione: lo scrittore ne fa le spese.
S'accorda nell'apparenza soprattutto ciò che nell'interiorità si lacera. L'occhio coglie solo ciò che emerge.
L'evidenza è il terreno ideale su cui opera la sovversione.
Scrivi. E ignori tutti i conflitti che la penna solleva al suo passaggio: il libro è la posta in gioco di quei conflitti.
Forse sovversivo è quel libro che denuncia, dentro la scia d'un pensiero aggredito, la sovversione della parola nei confronti della pagina e della pagina nei confronti della parola, e l'una con l'altra confonde.
In questo senso, fare un libro vuole dire offrire un sostegno alle forze sovversive che attraversano il linguaggio e il silenzio, un sostegno che segna il ritmo delle loro riprese.
La sovversione è l'arma preferita dall'inconsueto ma anche dall'ordinario.
"Il rapporto con Dio", diceva, "è un rapporto indiretto con la sovversione".
Ogni parola pronunciata è sovversiva in rapporto alla parola taciuta. Talvolta la sovversione passa attraverso la scelta, attraverso l'arbitrarietà d'una scelta, la quale si presenta forse come una necessità ancora oscura.
Dio è sovversivo: e come ha potuto pensare che l'uomo non lo sarebbe diventato di fronte a Lui?
Dio ha creato l'uomo a immagine della Sua sovversione.
E se la sovversione fosse solo lo scarto tra la cosa creata e la cosa scritta?
Uno stesso abisso separerebbe, allora, l'uomo dall'uomo e il libro dal libro.
("Divino o umano che sia", diceva, "'Io' è il teatro di ogni sovversione".
"Un'arte di vivere", diceva anche; "arte mossa dalla sovversione! Questo forse è il principio della sapienza. ")
da Il libro come luogo della sovversione e dei bianco - traduzione di Antonio Prete
Immagine dell'esilio
E se il muro fosse un foglio bianco? Muro di sostegno.
Scendiamo i gradini di una scala su cui poco prima, e non senza sforzo, ci eravamo inerpicati.
E se scrivere fosse questa discesa ancora impregnata, per noi, del ricordo della lenta salita che l'ha preceduta?
All'interno dell'edificio, non possiamo oltrepassare l'ultimo piano.
Una pagina di scrittura ha i suoi pianerottoli. I suoi margini sono all'esterno. Non sapremo riempire di parole il vuoto.
La mia dimora è distrutta; il mio libro, in cenere.
Un autore ancora poco noto e ancor meno tradotto in maniera sistematica in italiano, qui nella versione del poeta Valerio Magrelli.
«Non so cosa sarei diventato, se non avessi conosciuto la poesia. Le ho dedicato la vita. Questa parola, poesia, che per qualcuno è solo causa di fraintendimenti, per me rappresenta un mondo in cui posso finalmente capire perché sono nato. Una parola, un barlume, un suono: ecco quanto basta per ritrovarmi in un universo che mi appartiene, a cui appartengo e con cui, se mi è consentito dirlo, faccio corpo.» Così, e altre volte similmente, Philippe Soupault sottolinea la necessità di sapersi attraverso la poesia, di affermare la naturale disposizione a «sentire poeticamente» il mondo, al di fuori della «quotidianità» che stempera il gusto di cogliere le seduzioni infinite e infinitesime dell'esistenza. (...) Protagonista dell'«Azione Dada» («Il solo a non averne disperato», secondo André Breton), Soupault è tra i promotori dell'attività del Gruppo Surrealista. Breton ne precisa il contributo: «Con un senso acuto del moderno, tale da propiziare il totale affrancamento sia dei modi di pensare che dei modi di dire convenzionali, al fine di promuovere modi di sentire e di dire specificamente nuovi e la cui ricerca implica, per definizione, il massimo di avventura». Con Breton e Aragon fonda, nel '19, la rivista «Littérature» che nell'ottobre dello stesso anno pubblica alcuni frammenti di Les Champs Magnétiques. L'opera, scritta in collaborazione con Breton, inaugura praticamente la stagione della «scrittura automatica». Legato a Breton anche da «La speranza della rivoluzione russa, la disperazione, l'amicizia di Apollinaire, il fascino esercitato da Rimbaud e la scoperta di Lautréamont», Soupault mantiene comunque un proprio specifico e, pur continuando a firmare (fino al'25) la maggior parte dei manifesti surrealisti, matura il progressivo distacco che causa la « scomunica» di Breton (nel '26) e l'attacco contenuto nel Secondo Manifesto del Surrealismo, in cui viene definito «infamia totale». Soupault continua però a sentirsi surrealista, in quanto il surrealismo rimane anche e soprattutto modo di vivere. Nell'agosto del '74 conferma in una intervista: «Credo che dopo Les Champs Magnétiques non avrei potuto smettere di essere surrealista. Ero stato definitivamente segnato da quella esperienza. Non sì è smesso di codificare quella che era una tappa nella scoperta di una possibilità di "cambiare la vita", ma per me il surrealismo non è mai stato una scuola, un movimento o una chiesa. Dopo il primo libro surrealista ho continuato a considerare la poesia come una liberazione che ho sempre desiderato prolungare». (...) Con elegante immediatezza, Soupault riesce sorgente-ricevente, cartina di tornasole delle costanti dinamiche ed eterne dell'esistenza. «Senza retorica» scrive Marcel Raymond «una poesia senza ornamenti; e anche questo surrealismo, dov'è se non nello sforzo di percepire, ai confini dello spirito, il volto della vita?» Un volto che sovente si cela nei chiaroscuri della notte, nei lampioni che tratteggiano appena il buio, nell'incertezza che s'insinua nelle consuetudini e ne setaccia l'incolore succedersi, nel mistero che sfratta le abitudini, cassa di risonanza che non moltiplica effetti bensì presenze. Non vale più la logica solita, nella notte. Difatti la poesìa che la «ausculta», poiché riesce «il reale assoluto» (Novalis), poiché testimonia una chiaroveggenza permeabile, non ne serba traccia. Nella notte scocca l'insolito: riprendendo una mai smarrita attitudine, Soupault si fa allora esploratore dell'insolito, di cui la poesia è il «diario di viaggio ». Dalla consapevolezza dì praticare situazioni non conformi alle esigenze imprescindibili dell'uomo, nasce l'urgenza di rintracciare un altrove: non asilo confortevole e insipido ma spazio vitalizzante, da intuire e schiudere per tutti. Se la poesia, come del resto qualsivoglia espressione artìstica, ha il compito di far sentire che la sorte dell'individuo, magari stabilita a priori, tuttavia consiste grazie alle passioni, alla fantasia e all'immaginazione, allora l'angoscia esistenziale, l'agguato della morte e l'impalpabile incalzare del tempo, attraverso la sua voce non rimangono scacchi inesorabili. La poesia suggerisce proprio simili riscatti: quale faro puntato sul nulla, ne plasma l'indefinibile trasparenza architettando occasioni a immagine e somiglianzà dell'uomo che «la fa» e di chi, leggendola, «la rifa». Per Philippe Soupault si tratta di un imperativo ineludibile. (...) [nota di Ferdinando Albertazzi]
AVANT-DIRE
Penche-toi
et perce la lisse surface
Oranges
bleus
gris
vermillons
glissent et nagent
mes poèmes
Tout autour de ma pensée
virevoltent
les poissons verts
PREMESSA
Chìnati
e buca la superficie liscia
Arancioni
azzurre
grigie
vermiglie
scorrono e nuotano
le mie poesie
Tutt'intorno al mio pensiero
volteggiano
i pesci verdi