Giovedì, 20 settembre 2018Danilo Mandolini - Anamorfiche![]()
Di Danilo Mandolini avevo già detto qualcosa circa tre anni fa, per una
raccolta antologica della sua produzione tra il 2010 e il 1985, che si
intitolava per l'appunto A ritroso (v.
QUI
). In questa nuova raccolta si ritrovano i tratti essenziali della sua
scrittura che avevo allora rilevato, a cominciare dagli elementi per così
dire strutturali del suo lavoro, che peraltro si riflettono sul modus,
sulla lingua, sull'espressione e in ultima analisi sulla costruzione del
suo mondo poetico: una certa dose di astrattezza riflessiva, che però non
preclude il senso né diventa linguaggio autoriferito, ma spinge semmai
verso più profonde considerazioni; un arretramento o decentramento del
soggetto (cosa diversa dall'io poetante) che corrisponde ad un allontanarsi
dal mondo per osservarlo nel suo manifestarsi, anche metaforico, da una
giusta distanza, come da un eremitaggio; un conseguente riferirsi alla
realtà come poco oggettuale, poco popolata di "cose" e più di parole che
tentano di descriverla, e men che mai di presenze umane, una realtà per
così dire metafisica (e citavo a mo' di esempio De Chirico - ma rimando
comunque a quella nota).
Certo, in questo nuovo libro mi pare ci si ritrovino quegli elementi. Ma ci
si rinviene anche un diverso approccio alle cose da dire, qualcosa di più
concettuale, in un certo senso di più sperimentale (prendendo il termine
con cautela). Questo dipende forse dal fatto che in A ritroso
c'era anche ancora presente il bagaglio delle poesie più giovani, ora non
disconosciuto ma diciamo acquisito agli atti, introiettato.
Anamorfiche, dice il titolo. Ovvero il restringimento dello sguardo, del
punto di prospettiva, del luogo e del modo, quelli e non altri, in cui
porsi per avere una visione "giusta" delle cose. Anamorfismo è questo, il
punto di disvelamento di qualcosa di recondito ma significativo, una
epifania, una metafora assoluta, che può anche rovesciare l'illusione,
l'idillio. Suggerisco, per capirci meglio, di dare un'occhiata all'esempio
più noto: "Gli ambasciatori" di Hans Holbein il Giovane (v.
QUI
).
Questo restringimento dello sguardo, questo punto eletto di osservazione
pongono già qualche questione (o sfida, per il lettore). Una riguarda mi
pare la concentrazione dell'attenzione poetica - così come avviene nelle
belle immagini scattate dall'autore che corredano il libro - sul dettaglio,
sulla parcella di realtà, intesi però come significanti o almeno come
indizi o sintomi di altro, di una porzione più ampia della realtà stessa,
sia essa interna e quindi intima del poeta, sia essa una parte di ciò che
il poeta percepisce del mondo all'intorno (e di cui inevitabilmente fa
parte).
L'altra concerne il fatto che questo restringimento dello sguardo o della
prospettiva (che paradossalmente moltiplica il particolare, offrendo al
poeta un repertorio sterminato di frammenti) accentua il focus personale
dell'autore sulle cose, che si riversa sulla scrittura e la forma, e la
sfida per il lettore, peraltro affascinante, è di ricostruire o reinventare
quella immagine o una radiazione il cui spettro può non essere percepibile
a tutti. Quella immagine cioè che è innesco di quella medesima scrittura.
E' evidentemente da parte del poeta un approccio per così dire sineddotico
(la parte per il tutto), di cui come lettori occorre prendere atto,
facendoci condurre. Ma è - in ultima analisi e in relazione a quello - una
interessante visione metonimica della realtà, almeno di quella che
interessa Mandolini. Ovvero una scelta coraggiosa e rischiosa, perché
l'autore (Danilo o chiunque altro) scrivendo deve costantemente chiedersi
se l'immagine che va formando lascia un sufficiente margine di suggestione
- interpretativa o emotiva - a chi legge. E chiedersi - contemporaneamente
- se la contemplazione del particolare non nasconda un sotterranea fuga dal
tutto, dalla complessità ingovernabile della vita (che è invariabilmente il
tema centrale di questa poesia). Una scelta, torno a dire, in qualche
misura eremitica, una posizione da dove "è cogliendo e osservando / questa
minima dinamica / che si può vedere il tempo / nel lampo breve...",
qualcosa di infinitesimo e ineffabile che sta "tra ciò che ascolterò / e
ciò che scorgerò sopravvivendo / nelle pieghe immateriali, / nelle
increspature che non vedo - / ora, qui - / degli attimi a venire". E'
questo l'anamorfismo. Come in Holbein, è solo accogliendo l'invito
dell'artista a porci in quel luogo/tempo poetico (e accettandone anche
l'indeterminatezza) che è possibile forse intuire l'ammonimento, il senso
di ciò che in primo acchito è indistinto come una macchia. Il tentativo -
morfico, prospettico - è quello di uscire, almeno per il momento in cui si
realizza, dalla visione canonica. Un buon esempio è la sezione Crocivia (quindici blasfemie in loop), una delle migliori, dove
alla messa in scena di "un ipotetico dialogo degli uomini con il divino"
concorrono linguaggio e sguardo, in una interrogazione eterodossa e
impellente (e quindi, se volete, anamorfica, o - forse - "blasfema"), molto
umana ("[mio dio noi / ci pentiamo e ci dogliamo con tutto il cuore / dei
nostri peccati perché...Perché abbiamo peccato ma / tu...Tu dichiarati,
manifestati, pronunciati, / rivelati, almeno, come si rivelerebbe una bava
di vento...").
Un tentativo, quello operato da Danilo in questo libro, a cui la scrittura
concorre come può, con i suoi limiti oggettivi, facendo leva soprattutto
sulla capacità della lingua di astrazione, di simbolizzazione, di
"smaterializzazione" del concreto e viceversa di concretizzazione di quelle
"pieghe immateriali" in parole. Un approccio creativo che ha una sua
indubbia forza, perché non ha niente di crepuscolare o remissivo, è
piuttosto dettato - mi pare - dalla personale convinzione di Danilo che il
poetico, come un pneuma, risieda in insospettate insenature, il cui
rinvenimento è sostanzialmente un "dono"; e che quello che si riesce ad
afferrare della realtà è quel che si è, o almeno è quello che si è
come uomini/artisti. Il risultato è insieme rarefatto e affilato, con
l'eccezione forse di una sezione che sento in qualche misura "diversa"
dalla natura generale della raccolta. Alludo a Offertorio speciale (nove bizzarrie impoetiche) nella quale
Mandolini più che lo sguardo appunta il dito contro certi fenomeni
consumistici, fa una critica socio/politica del contemporaneo e di certe
sue bizzarrie, temi difficili da trasferire (come spesso in una poesia
"civile") dalla loro (dichiarata) impoeticità ai piani più alti che la
scrittura di Danilo frequenta. Un aspetto tuttavia marginale rispetto al
livello qualitativo ed estetico complessivo di questa raccolta. (g. cerrai)
Continua a leggere "Danilo Mandolini - Anamorfiche" Martedì, 3 luglio 2018Pietro Roversi - I pinguini dei tropici Pietro Roversi - I pinguini dei tropici - Arcipelago Itaca,
2017
![]()
Un libro singolare, questa quarta raccolta di Pietro Roversi, che offre al
lettore un'esperienza abbastanza inusuale. Che deriva innanzitutto da una
visione delle cose e del mondo parecchio metaforizzata, traslata in una
dimensione insieme altra e insieme "regolata", ovvero con un suo ordine
accettabile, cioè in ultima analisi di una realtà quindi sopportabile.
Voglio dire, intellettualmente sopportabile, una realtà su cui agiscono
cultura, capacità espressiva, primazia del linguaggio, addomesticandola. Le
cose (usiamo ancora questo termine generico su cui il prefatore Davide
Castiglione ha detto in passato la sua) non sono solo quello che
sono, ma anche e soprattutto quello che il linguaggio le fa diventare,
relazionandole all'uomo che le osserva e ad altri significati. Naturalmente
quando si parla di linguaggio si intendono messi in campo non unicamente i
mezzi strutturali, sintattici etc., ma anche e di più tutti gli arnesi
retorici e espressivi, a cominciare da una raffinata ironia che si affaccia
molto spesso tra i versi. E alla quale concorre un uso anche estensivo di
rime interne ed esterne e di un ritmo ben articolato ma a bella posta
zoppo, dall'aria non di rado canzonatoria.
Il linguaggio stesso è metaforizzato (e non solo metaforico in senso
stretto, non è quello l'importante), nel senso che non esprime tanto
l'accostamento o la distanza con le cose, quanto - anche per via lessicale
- la sua distanza da una visione ordinaria di esse, come se i fenomeni
registrabili, i pensieri, i concetti o anche le impressioni fossero in
larga misura oltre che descrivibili soprattutto riscrivibili, o
latori, a saperle vedere, di altre e diverse informazioni. In questo senso
opera anche una continua dislocazione semantica, con un uso fusion di linguaggi specializzati, scientifici o settoriali che
porta con sé una diversa prospettiva, insieme per forza di cose a una
irrinunciabile, ancora, traccia ironica. Va da sé che in questo operare c'è
un rischio implicito, che consiste qualche volta in un "innamoramento"
autotelico delle parole, del gioco a volte insistito di esse, a discapito -
diciamo per semplificare - del contenuto.
Già il titolo, come è stato notato, è un ossimoro. Il che non vuol dire che
non possa rientrare nel campo delle possibilità, o almeno, cosa più
importante, dei desideri, anzi dell'immaginazione desiderante. Dire questo
significa dire, tra le altre cose, che il poeta (Roversi come altri) ha il
potere di riorganizzare il suo dettato come vuole, soprattutto in direzione
del simbolo (cosa ci fa, ad esempio, come giusto si domanda Castiglione, ai
tropici un uccello inetto al volo e adatto al freddo? sarà immagine, si
suppone, di chi è costretto a migrare). La poesia di Roversi si nutre molto
(e molto restituisce) di questi salti di potenziale e delle risposte
implicite che offre al lettore disposto a vederle. Direi anzi che si
istituisce in gran parte su questo tipo di spostamento tra non mediato e
allegorico, tra reale e sur-reale. Si tratta anche, in relazione a quanto
si diceva sul linguaggio, di cercare e superare certi limiti, una vena
sperimentale che non riguarda quanto si intende con questo termine in
letteratura, bensì un atteggiamento mentale e culturale (l'autore è
ricercatore biologo) di messa in discussione dell'acquisito, provando e
riprovando, per dirla con il motto dell'Accademia del Cimento. Per
descrivere temi alti e bassi e anche, ma sì, filosofici: la vastità dello
spazio, il tempo, l'inesplorato, certe dinamiche della società, il luogo
comune, i rapporti sessuali o sentimentali o semplicemente il vivere,
magari quotidiano, il proprio esistere (specie nella sezione che titola il
libro). Cosa tutt'altro che semplice, ma Roversi ci mette una certa stoffa.
Il tutto è scosso da una domanda semi-serissima e insieme disillusa/elusa:
che cosa e come ci stiamo a fare qui, di certo noi, ma io personalmente? La
risposta è spesso, specie per via di quel monotonale basso continuo
satirico a cui allude anche Castiglione e che non sempre è diretto
all'esterno: non prendiamoci troppo sul serio, perché forse non ne vale la
pena. E come scrive Roversi: "Avrò pure diritto / allo sperpero, al mistero
fitto fitto / del desiderio, mio bilanciere, sonno e pudore". Ma è proprio
così?, si chiede chi legge. Paradossalmente, a volercelo trovare per forza,
in questa poesia un senso del tragico c'è, sta lì. In questo cogente riso
sardonico, in questa immanente puntuta vena epigrammatica, che forse
nasconde un dolore. O forse lo sperpera, sperpera la materia stessa di cui
questa poesia è (potrebbe essere) fatta. (g. cerrai) Continua a leggere "Pietro Roversi - I pinguini dei tropici" Giovedì, 27 luglio 2017Simone Maria Bonin - Tratti primi Simone Maria Bonin - Tratti primi - Arcipelago Itaca Ed., 2017
![]() Come ho detto altre volte, non è sempre agevole parlare di un'opera prima.
Si rischia di essere troppo condiscendenti o troppo severi. Ma può essere
utile. E' pur vero, intanto, che un'opera prima non è mai tale, non spunta
dal nulla in una notte come un fungo prataiolo. Immagino che anche nel caso
di Bonin questi Tratti primi siano frutto di una scelta di prove
precedenti, di elezioni e rifiuti operati su un lavoro di scrittura, per
quanto relativamente breve esso possa essere stato (l'autore è del 1993).
Un libro che ha vinto, per l'inedito, la seconda edizione del Premio
indetto da Arcipelago Itaca.
In questo tipo di letture l'interesse principale, a mio avviso, sta nel
cercare di capire l'aria che tira, cos'è che importa mettere in poesia ad
un giovane, pur nella convinzione (mia) che il dato generazionale non
costituisca affatto una categoria critica, ma solo una prospettiva per così
dire sociologica. E quindi, di cosa parla Bonin nella sua raccolta? Del
mondo, naturalmente, e della realtà, almeno come percepibile ai suoi occhi.
Si tratta, citando la motivazione del premio, di "un approssimarsi inquieto
ad una realtà che costantemente sfugge". Se ci si limita a questo siamo nel
pieno del secolo breve (ma per Sanguineti interminabile), e si parla ancora
dell'ambito della incomprensibilità del mondo e della sua descrizione, e
della crisi dell'uomo di fronte ad esso. Un tema a cui anche molti giovani
poeti non sfuggono, testimoniando un disagio che però non può essere che presagito, o, nella peggiore delle ipotesi, raccolto,
come se l'esperienza soggettiva (per forza di cose limitata) si mischiasse
ad una percezione non degli eventi ma della narrazione (magari
anche letteraria) dei medesimi, di uno stream poetico. Almeno la
prima parte della raccolta (diciamo le sezioni Vicoli ciechi, PTSD, Biopsie) mi pare che si muova in questo
senso, identificando lo sfuggire della realtà (che però è cosa diversa dal
reale, ma lasciamo perdere) nella indeterminatezza degli oggetti poetici e
della loro messa a fuoco, dei "luoghi" esistenziali, delle cose che appunto si osservano nell'approssimarsi.
Se questi caratteri sono esatti, mi pare che siamo su un terreno di
ermetismo "riformato", in chiave moderna se volete. Da questo punto di
vista mi sembra emblematico un testo come il seguente:
Sei parole senza nome, senza
soluzione
impara la posizione del corpo
le cose non torneranno più
in cui al lettore non è offerto alcun appiglio, tranne la pura suggestione
di un ammonimento che l'autore dà a sé stesso (il tu non mi pare
riferito a qualcun altro) riguardo, forse, al tempo che scorre in maniera
inesorabile, partendo da qualcosa (sei parole) di determinatamente
indeterminato. Non sappiamo altro, e comunque sappiamo molto meno di quello
che certo sa l'autore, un atteggiamento orfico poco "transitivo".
Un altro esempio può essere quello di Illogiche II, che troviamo
prima:
II
Qualunque cosa fosse
l’ho sotterrata in un fosso
ho fatto un cerchio nell’aria
e ho scagliato d’impulso il sasso
un movimento d’elastico e il corpo
si fa molla - lontano, dicevo, va lontano
“Tanto poi sbuco fra le dita della tua mano”.
Qui l'indeterminatezza è concentrata in quel "cosa" (parente delle "cose"
del testo precedente) che però, pur essendo lapidario e testimoniato
dall'autore nel suo essere inconoscibile, ignoto e, forse, ignorato,
ingenera nel lettore l'immagine di un fatto, un evento, una esperienza o
chissà cos'altro che viene superato, gettato dietro le spalle, tanto poi
qualcuno (come dimostra la forma dialogica virgolettata) ritorna, riemerge
come in un frame, anche tra le dita della mano che tenta di impedirne la
visione. Non si sa se questo fatto sia un bene o un male, il mistero
rimane, in questo testo, ma certo il lettore riscuote qualche guadagno in
termini evocativi.
Qual è il problema delle "cose"? Di per sé nessuno, anzi le "cose" hanno
sempre avuto la loro dignità, in Montale tanto per dire, nella cosiddetta
linea lombarda, in autori come Sereni, Cattafi, Balestrini e diversi altri.
In questo discorso servono solo come marcatori (ma ce ne sarebbero altri)
di una tendenza più generale a far scomparire la realtà, anzi a nemmeno
identificarla, "conoscerla", nascondendo questa riduzione minimalista sotto
il tappeto della genericità di un sostantivo come "cose" (o analoghi), come
ha cercato di dimostrare Davide Castiglione in un suo saggio di qualche
anno fa, intitolato appunto "Le cose, le cose, le cose - Svuotamento e
stallo nella poesia recente". Insomma si tratta di vedere se certa
indeterminatezza (non tanto in Bonin quanto in molta della poesia giovane
attuale) è emblema di poesia che ha il suo proprio "essere nulla e tutto" a
cui ancora la motivazione del premio fa riferimento (ma rovesciando qui la
connotazione positiva della motivazione stessa). Non è un caso che facciano
parziale eccezione i testi della interessante sottosezione Voyages
, nella quale il riferimento quasi onirico ad elementi naturali (mare,
monti, onde, acqua, alberi) danno al dettato una forza di correlatività tra
interno e esterno, tra percezione e realizzazione.
Certo, quelli che ho preso in esame sono due casi forse estremi. In effetti
essi evidenziano la differenza che esiste all'interno di questo libro tra
una prima parte, quella rappresentata dalle sezioni prima indicate, ed una
seconda, costituita principalmente dalla sezione eponima Tratti primi, che a me pare di ben altra e miglior stoffa. In
quella prima parte, come si è cercato di vedere, il registro è di una
voluta opacità monologante, che mi pare rispondere ad una interiorità tanto
privata da risultare talvolta misterica; in questa altra lo sguardo
dell'autore è decisamente rivolto all'esterno, in relazione con un mondo
più vasto, anche storicaménte e geograficamente più distante, abitato da altri. Un mondo identificabile e concreto pur nella sua metaforica
valenza di habitat, di luogo diffuso dell'esistenza, ma anche come
territorio da attraversare, campo di analisi, elaborazione di frammenti e
visioni proprie o altrui, come in autentici scatti fotografici. Qui
troviamo il viaggio, che è conoscenza e realizzazione, come la Timisoara in
cui riecheggia una Storia, come la rivoluzione rumena dell'89, che per
l'autore (che ricordo è del 93) non può tuttavia che essere una esperienza
per così dire "ricostruita", postideologica, qualcosa che le ultime
generazioni devono ricomporre; troviamo l'esercizio lirico/elegiaco di una
parafrasi, di una reinvenzione narrativa di storie che l'immagine
fotografica ha fermato, come la serie di testi dedicati a Edward Sheriff
Curtis, fotografo degli Indiani d'America, tutti molto interessanti, pregni di voglia di esserci; oppure
il resoconto, anche questo interessante e ben scritto, di impressioni,
note, suggestioni, meditazioni raccolte durante un viaggio o soggiorno in
Danimarca, caratterizzato da un punto di osservazione laterale ma acuto, di
un autore volutamente defilato, che percorre i luoghi con pensosa
leggerezza e partecipazione.
Non voglio asserire che questa concretezza sia un valore in sé, né che lo
sia per chiunque, e nemmeno contrapporla ad una ricerca interiore, ma è
dove il reale, non tanto evocato quanto varie volte nominato
direttamente nei versi, si raggruma ed affiora fornendo corpo, consistenza
materica e colore al testo.
Direi allora che queste sottosezioni di Tratti primi ( Timisoara, fotografie di E.S. Curtis e Denmark), decisamente
superiori alle precedenti, sono la parte migliore del libro in cui tra
l'altro riesce ad emergere anche un accento lirico capace di prendere fiato
ed espandersi, evitando sempre bene segnali troppo elegiaci o decadenti. E'
quindi in questa direzione, di realizzazione (termine qui
appropriato) del mondo, di aderenza al visibile che Bonin, anche
in relazione alle qualità della sua scrittura, a mio avviso dovrebbe
andare. (g. cerrai) Continua a leggere "Simone Maria Bonin - Tratti primi" Lunedì, 3 aprile 2017Beloslava Dimitrova - La natura selvaggia![]()
Un libro feroce, questo che Emilia Mirazchiyska e Danilo Mandolini
hanno tradotto dal bulgaro, da quel che so la prima opera della
Dimitrova pubblicata in Italia. Uso un aggettivo volutamente forte, ma
con niente di giudicante dentro, pensando semmai a tutte le eco che
questa parola antica contiene, alla sua natura animale e animista. La
natura è selvaggia, dice l'autrice, e noi ci siamo dentro, non al di
sopra, biblicamente, per un diritto datoci da Dio, o a lato, con
l'illusione di una strategia di fuga o trasformazione, ma proprio
dentro, senza statuti o privilegi speciali. E' questa l'idea di fondo
della raccolta, uno sguardo plurimo, dall'interno e dall'esterno di sé,
su una condizione che non è nemmeno più umana, ma riguarda una natura
appunto "selvaggia" e incoercibile. Non naturante, perché se c'è
qualcosa che porta in sè non è il farsi ma il distruggersi, né naturata,
perché non sembra né perfetta né recante il segno della mano di Dio.
Somiglia semmai a quella leopardiana e matrigna de La ginestra
("Non ha natura al seme / dell’uom piú stima o cura / ch’alla
formica..."). Per questo parlo di ferocia, e in più assoluta (ovvero
priva di regole e norme), perché attiene ad una natura agnostica, in cui
la presenza divina è assente, o che Dio ha abbandonato a sé stessa.
Chi è che popola questa natura, a sua volta parte costitutiva di un
mondo? Gli uomini, certo, ma anche gli animali, alcuni dei quali
identificati, altri indistinti e inquietanti. Che però non solo sono
intesi come una complessiva anima ferox, ma sono visti e
descritti e proiettati nel corpo poetico da uno sguardo umano defilato,
da una prospettiva decentrata e a tratti de-umanizzata, extracorporea,
esercitata a volte con una singolare empatia, un mettersi nei panni,
tanto che talvolta l'attore che agisce nel testo poetico è una creatura
simbionte, un io "alieno" che abita corpi diversi e li attraversa
prestando loro la voce, una voce che diventa "interna" e che tuttavia
mantiene una connotazione doppia. Ciò ovviamente per quanto possibile,
perchè in fondo si tratta di un grande artificio retorico, che per certi
aspetti non può che riportare alla mente il Gregor Samsa di Kafka, che
si sveglia una mattina trasformato in un gigantesco insetto, e al senso
del tragico di quella grande metafora. O, se preferite, le potenti
raffigurazioni zoomorfe di Max Ernst.
Se gli animali/uomini sono emblemi anche, a mio avviso, di forze oscure
che negli uomini agiscono per vie non sempre comprensibili, come una
natura profonda, e insieme, come un riflusso di forze "altre" che dagli
uomini si rivolgono contro la natura stessa, tuttavia il registro
complessivo del libro è giocato su una violenza "fredda", talvolta su
una registrazione refertale degli eventi che "naturalmente" si svolgono,
comprese le relazioni amorose amare e difficili, senza però che il
senso di una tragedia comune ne venga minimamente sminuito. E' uno dei
punti di interesse di questa poesia, questo sentimento di ineluttabilità
implicita che si riflette anche su di un linguaggio teso, su "un testo
che sembra scritto precipitando, dove prevale la denotazione per tratti
rapidi, sincopati, quasi che non ci fosse più tempo per approfondire il
senso della caduta e nemmeno più la pazienza", come scrive Stefano
Guglielmin sul suo blog (v. QUI).
Non sfuggono a questa ineluttabilità le relazioni affettive, i rapporti
familiari, temi per lo più raccolti negli ultimi testi del libro, come
se anche in essi risiedesse una difficoltà a svolgersi senza catastrofi,
svolte brusche, lacerazioni delle carni. Anzi su queste relazioni
sembra abbattersi una definitiva speranza nihilista "che il miracolo
dell’evoluzione non accada / che non appaia l’uomo / che tu non appaia di nuovo / che sia soltanto io ad apparire" (in Essere umano, corsivo mio). L'uomo, in questa natura selvaggia, è un accidente.
Una poesia, quindi, drammaticamente originale, con tratti metafisici e
visionari, tanto diversa anche da altri poeti dell'Est come quelli
presenti su questo blog (v. QUI),
soprattutto i giovani e i giovanissimi (Dimitrova è nata appena tre
anni prima della caduta del Muro) che sembrano orientare in altre
direzioni, più lirico-oggettive e con un occhio rivolto decisamente a
occidente, la loro ricerca. (g. cerrai) Continua a leggere "Beloslava Dimitrova - La natura selvaggia" Mercoledì, 23 novembre 2016Guillaume Apollinaire - da Calligrammes, traduzioni di Norma StramucciAlcuni testi di Guillaume Apollinaire, tratti da Calligrammes, nella traduzione di Nor
![]() LUNEDÌ RUE CHRISTINE
Faranno fìnta di niente la portinaia e sua madre
Questa sera mi accompagnerai se sei un uomo
Sarà sufficiente che uno faccia la guardia al portone
Mentre l'altro sale
Sono accesi tre fornelli a gas
La padrona soffre di tubercolosi
Faremo una partita a tric-trac quando avrai finito
Ha mal di gola un direttore d'orchestra
Ti offrirò hashish da fumare quando verrai a Tunisi
Sembrano parole in rima
Una fila di piattini fiori e un calendario
Pim pam pim
Quasi 300 franchi devo dare d'affitto alla mia padrona
Preferirei tagliarmelo piuttosto che pagarla
Alle 20 e 27 partirò
In continuazione sei specchi si fissano
Mi sembra che stiamo a complicarci sempre di più
Caro signore
Siete un uomo che non vale due soldi
A un verme solitario assomiglia il naso di quella donna
Luisa ha dimenticato la pelliccia
I0 non la indosso e non ho freddo
Il Danese fuma e controlla l'orario
Il gatto nero passa per la birreria
Erano buone queste frittelle
La fontana gocciola
Nero il vestito come le unghie
Non è concepibile
Ecco signore
L'anello di malachite
C'è segatura per terra
E ciò dimostra che è vero
Un libraio ha rapito la cameriera rossa
Un giornalista che conosco del resto molto poco
Jacques attento ti dirò cose essenziali
Compagnia di navigazione mista
Mi disse guardi signore che cosa so fare in acqueforti e quadri
Io però ho solo una servetta
Dopo pranzo al caffè del Luxemburg
Una volta là mi fa incontrare un uomo grande e grosso
Che mi dice
Mi stia a sentire è divertente
A Smirne a Napoli in Tunisia
Ma dove mio Dio
Sono trascorsi otto o nove anni
Da quando sono stato l'ultima volta in Cina
L'Onore sta spesso nell'ora che segna il pendolo
La quinta maggiore
Continua a leggere "Guillaume Apollinaire - da Calligrammes, traduzioni di Norma Stramucci" Giovedì, 20 ottobre 2016Claudio Salvi - Album![]() Un libro, questo qui di Claudio Salvi, che insieme coinvolge (anche a livello concettuale) e un po' perplime. Il che è molto di più di quanto si possa dire di tanta poesia, cioè sostanzialmente un successo. Questa estrema sintesi (e vengo a spiegarmi) si ritrova in parte in quanto scrive Giulio Mozzi nella postfazione, che poi vedremo. Intanto il titolo, Album. Album di che cosa? Mi pare che sia contemporaneamente di foto, nel senso di immagini, scatti, attimi o inquadrature non sequenziali raccolte con un medium (in questo caso la scrittura); e di schizzi, ciò che gli inglesi chiamano sketches, appunti lineari di una realtà che c'è, e in un dato momento appare pur non essendo evocata, e che viene registrata a futura memoria, cioè per spostare a dopo la realizzazione di qualcosa. L'idea della foto è presente anche esplicitamente, essendo citata nei testi, con i suoi correlativi, almeno una ventina di volte. Come pure è presente un concetto, forse meno esplicito, di inquadratura brevissima, veloce, poco più di un frame, all'interno del quale l'autore è spesso mimetizzato. La brevità, in parecchi dei testi (non tutti), è infatti uno di tratti salienti, direi stilistici, e io credo che lo sia in relazione a quanto abbiamo appena detto, ma anche a una convinzione dell'autore che mi pare di intravedere, ovvero che la realtà sia afferrabile per lampi fenomenici, presenze, leggi del caso, qui e ora di pura combinazione. In questo senso mi pare che gli schizzi di cui parlavo possano essere l'espressione - anche - di una speranza, di afferrare il lampo (fotografico?) ora per capirlo dopo. Che poi la speranza si dimostri vana o accantonata o volutamente rimossa, questo è un altro discorso. Lo sguardo è qui essenziale e funzionale, ma è una risorsa che potremmo definire non strumentale, accessoria, uno sguardo che non ritorna veramente indietro. Un rivolgere lo sguardo, un gesto di indicare, dice Mozzi. E' la presenza ontologica dell'autore, l'essere-nel-mondo di uno che c'è e scrive, un esserci tuttavia non proprio impersonale, non solo perché a volte dice "io", ma anche perché, se proprio vogliamo fare i pignoli e parlando per metafore, cerca di assumere in sé tutte le categorie barthesiane, facendo la parte di operator (chi "scatta"), di spectator (chi guarda) e di spectrum (il soggetto, anche se di riflesso, anche quando fa finta di non esserci, aleggia). Quindi, in un certo senso, tutto fagocitando. Se la prima sezione è intitolata Album come il libro, la seconda, diciannove testi brevissimi che direi - come forma - sono prosa in prosa, si chiama Polaroid. Continua la metafora fotografica, ancora la messa a fuoco one shot (tentata, fallita, o ininfluente), ancora l'idea di una realtà colta sul fatto, senza prima né dopo e quindi senza prodromi né conseguenze. Non un diario, come Warhol amava definire la sua Polaroid, poiché in effetti in molti casi non c'è niente di esistenziale da registrare, questi schizzi non sono studi preparatori di alcunché. Non dissimile la sezione Sogno, tredici frammenti anch'essi in prosa di due tre righe, anch'essi quindi brevi ma costipati di cose, di microeventi o microazioni. Già, azioni. Perché, a ben vedere, non di rado il fotogramma si dilata, slitta, appare "mosso" da un movimento rattratto a cui concorre anche l'uso dei tempi verbali (presente, imperfetto, passato prossimo), come avviene in questo testo (completo), che assomiglia anche molto (cosa interessante) ad un appunto di sceneggiatura: ci sono delle persone con gli ombrelli. un uomo correva.
allora è cominciato a piovere, ma non lo vedo. è diventato più freddo.
oppure come in questo altro testo, tratto da Album:
il venditore di cocomeri si è fermato sotto la casa della ragazza.
le tremano le mani quando lui le consegna il resto.
Nell'ultima sezione, Altri scritti, l'atteggiamento è invece
ancor più prosastico, con anche al suo interno alcune affermazioni che
potremmo definire di poetica o visione del fare poesia col mondo,
le immagini che presento non hanno niente di umano. a me piace
guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di umano porta.
come pure, più avanti,
in fondo non si fa altro che ripetere quello che c’è. le cose
cambiano però quando qualcuno mette la copia in mezzo a un numero di
originali tra cui non si può distinguere.
atteggiamento che più si avvicina alla sensazione che registra Giulio Mozzi nello scritto conclusivo e cioè che "leggendo i testi di Salvi [ci si abitua] a uno sguardo che è insieme molto assertivo (la forma del buco!) e per niente assertivo". Sul dibattito, a volte fondato a volte specioso, tra poesia assertiva e non assertiva il discorso è tutto aperto e qui lo lasciamo perdere. Ma la cosa è interessante, senza dubbio. Mi diverte pensare (e questo certo fa parte del fascino del libro) che Salvi scrivendo avesse in mente Duchamp che per vent'anni ha lavorato a costruire un buco, la sua opera segreta (Étant donnés: 1. La chute d'eau, 2. Le gaz d'éclairage), una porta massiccia con uno o due pertugi da cui si può gettare lo sguardo su una rappresentazione misteriosa. Certo, magari in sottofondo c'è Benjamin (la copia in mezzo agli originali) o ancora Barthes, con la sua idea che la foto (qui la poesia) possa essere riprodotta (letta) all'infinito mentre quel che è stato còlto è - da un punto di vista esistenziale - irripetibile. Ma è il dato di realtà (il donné) che è intrigante, anzi perturbante, è questo sguardo un po' voyeuristico (che a volte osserva il pleonastico: "in inverno nevica. i pesci girano nella vasca."; "piove in un verso poi cambia inclinazione. dipende da dove arriva il vento.") che dà da pensare. Forse ha ragione Mozzi quando scrive: "Non vedo niente (niente di particolare, niente di attraente), quando leggo Salvi, ma vedo". Il dato (il donné) è lì, si tratta di vedere, anche se poi per quali conclusioni trarne è difficile capire, se non forse la realizzazione di una contemporaneità irrelata dell'immagine ("penso che questi sono i miei contemporanei", scrive l'autore), di un vuoto totale che finalmente conquista quei "non luoghi" che ci hanno ammorbato in poesia per anni ("territori senza luce. stazioni illuminate. / luoghi vuoti. / luoghi parati a festa senza uomini e donne. / tempio vuoto. case vuote. stazioni vuote. / luoghi in attesa. o soltanto vuoti"). Ma il punto è che questo sguardo può essere gettato ovunque, ad libitum. E' questa una poesia ad libitum? E' forse la poesia di chiunque altro si metta davanti alla finestra e annoti quel che vede o gli viene in mente? Una poesia modulare, una poesia che potrei-farla-anch'io? Uhm, non è così facile, è un po' più problematica la faccenda. Leggere per credere. (g. cerrai) Continua a leggere "Claudio Salvi - Album" Martedì, 26 luglio 2016Vladimir D'Amora - Neapolitana membraVladimir D’Amora - Neapolitana membra - Arcipelago itaca Edizioni, 2016 ![]()
Il tema è la forma, in un certo senso. Per quanto questo non sia sempre vero, può esserlo quando in un libro si parla di Napoli, è Napoli la fonte di
ispirazione, lo scenario e insieme la protagonista principale, seppure come voce fuori campo. Naturalmente Napoli in questo libro non è un "oggetto"
poetico o non solo, non può esserlo in sé, appartenendo di fatto ad un mito speciale. Magari - qui - di una mitologia privata, un luogo astratto e
concreto insieme ("è un luogo più reale / per la terra è un realissimo / collante"), un luogo solo e soltanto in cui certe cose della vita, proprio quella
dell'autore - private - , avrebbero potuto accadere. Un luogo complesso nel quale la complessità della vita si materializza, forse più che altrove. In
altre parole scenario ed elemento strutturante insieme, che c'è, esiste anche quando viene nominato appena. Sia la città/scenario sia quel che in poesia si
narra, non possono naturalmente essere rappresentati che per lacerti di un corpo, per membra, compreso quel tanto di sessuale, non necessariamente
esplicito in parole, che ogni tanto emerge. C'è quindi, per questa connessione sotterranea, qualcosa di sincopato che si riflette nel linguaggio e che si
esprime in quel tanto di "jazzistico" e di equilibrio ricercato, una certa "propensione verso la scrittura di ricerca e lo sperimentalismo in generale, non
ripudiando però, dall'altra, l'eco lirica" (dalla motivazione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”, vinto dalla raccolta). Ricerca
e sperimentalismo che per la verità, a mio avviso, si esplicano per lo più in una lingua fortemente ellittica, spezzata, nel rinvenimento di elementi
lessicali contrastati e "duri" (e raramente dialettali), nel ricorso talvolta ad andamenti prosastici, o ad un enjambement estremizzato (specie nel
"narrativo"), ma che nel complesso non è "chiusa", anzi lascia al lettore un ampio margine di interpretazione, un ampio spettro di suoni e colori, insomma
una varia e diversa leggibilità. E' in questo senso che l'equilibrio di cui parlano gli estensori della motivazione è quasi totalmente garantito, non
dimenticandosi però, l'autore, che "la lingua è una torsione elementare", tanto più in poesia dove ci viene consegnata con una sua "conformità" per essere
restituita diversa.
Per il libro di D'Amora valgono molte delle cose generali che ho scritto QUI, parlando de La disarmata,
raccolta di autori vari che ruota anch'essa intorno alla città partenopea. Forse qui in un certo senso ce n'è meno, di Napoli, e alla fine non si può
parlare nemmeno di una poesia urbana, per quel tanto o poco che questo significa, pur mirando nel contempo (parole dell'autore) a uno "stile
dell'asfalto". Per quel che appare Napoli (o napoli, minuscola e confidenziale) è una città introiettata nell'animo (l'anima lasciamola all'imperio di
altri), in tanto apparentata con un "deserto ordinato da milioni di dei", dei che hanno abitato la città ma che tuttavia - aggiungerei - hanno abdicato da
secoli. In questa città/sostrato è quasi naturale rinvenire non tanto e non solo un passato mitico e eroico che in vari modi sedimenta in cultura (e certo
anche in scrittura) ma anche inquietanti "mappe / di una futura scena, di una crisi", a sua volta non tanto e non solo intesa in senso economico o politico
quanto piuttosto in quello di un privato quotidiano transeunte, nel quale l'autore sente che "tutto è posteriore a tutti", e dove è in essere un "dogmatico
accadere immemore". Dicevo introiettata perché quando D'Amora parla esplicitamente della città in effetti parla di sé e per sé, allegorizza la città come
un sé ugualmente complesso e problematico che con Napoli è in rapporto dinamico e circolare, esattamente come quando si trova a parlare d'amore o de "i
fiori che pendono falsi / da tetti più sacri", quei fiori che forse "urlano", fanno "voci", aprono la bocca, come molte altre cose che sono ipostasi di una
realtà che l'autore vive quotidianamente, e che rimane, persiste, vince la morte, ed è - ricordo - "posteriore a tutti". (g.cerrai) Continua a leggere "Vladimir D'Amora - Neapolitana membra" Venerdì, 27 maggio 2016 Barbara Pumhösel - In transitu - Arcipelago Itaca 2016
In transitu
, una qualità o uno stato esistenziale, una constatazione di un carattere apolide di molti accadimenti, piccoli o grandi, minuti o giganteschi (secondo
l'occhio o lo spirito di chi osserva) che sono in divenire. Apolidi perchè nel momento in cui l'osservatore fissa la sua attenzione su di essi sono sospesi
e nello stesso tempo subiscono una metamorfosi intellettuale da chi li osserva; sono partiti e non sono ancora arrivati, sono - per così dire - in mezzo al
mare. Tant'è che, da un punto di vista giuridico, un oggetto venduto non ancora arrivato alla destinazione di chi lo ha acquistato, in transitu
(durante il tragitto) può essere richiamato indietro, in caso di contestazione. E però così non accade nella vita, nei fatti dell'esistenza dico, lo
sappiamo, e questo invece si chiama destino, o caso, o Provvidenza. Naturalmente chi osserva (il poeta) è egli stesso in cammino, coinvolto nel "transito",
ma forse con poca capacità di arbitrio. Le cose, alla fine, vanno come devono andare, secondo un comune schema lineare.
L'idea, certo non nuova, ha sempre il suo fascino, l'idea cioè che si possa assegnare un significato a segnacoli che si incontrano per via, elementi spuri,
frammenti, evidenze, oggetti materiali e immateriali, come se fosse un'aruspicina o raccolta di prove di un reato. Si tratta di vedere come.
Barbara Pumhösel sembra partire, in questo transito, da una ambizione volutamente ridotta, che riguarda sia gli oggetti poetici da prendere in
considerazione, sia il "grado" di scrittura. Sul primo versante mi pare si possa individuare uno sguardo inquieto che si posa sulle cose e se ne distacca
in continuazione, uno sguardo "casuale", che ricalca e si fa specchio di quella casualità di cui si parlava prima, coglie lo spunto da quel che incontra
"per vie trasversali" per farne oggetto di una riflessione poetica sostanzialmente lirica, a volte elegiaca, ma comunque sempre moderatamente esistenziale,
nel senso che, come ha notato qualcuno, "verticalizza" il dato dal terreno del contingente (un oggetto, qualcosa che si è visto, o letto, o ascoltato) alla
mente, per restituirlo a una "trama", alla leggibilità del testo, a un senso comune, "ecumenico" e insieme confortabilmente difensivo. Del resto l'autrice
stessa scrive:
Si perde sempre l’essenziale
dice Borges. A proposito, credo -
guardare l’essenziale è come
guardare l’eclissi. Fa male.
Non si può farlo a lungo. Ci vogliono
occhiali speciali. Meglio
girare intorno, approfondire
i marginalia, tessere trame
con i contorni.
E certo è possibile ricostituire un quadro sensibile da elementi apparentemente disomogenei, ricucendoli insieme in trame. Tanto che non è infrequente
incontrare nel libro parole tra loro isotopiche come cuciture, filo, punti, forbici ecc., che rimandano a questa cura "femminile" e certo affettuosa, con
la quale tenere insieme una "sua friabile e franta discontinuità", come dice la motivazione (la silloge ha vinto un premio nella 1.a edizione Premio
nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”) che tuttavia poi alla fine restituisce un impasto poetico complessivamente piacevole.
Sul piano della scrittura invece Pumhösel sceglie (e qui la motivazione ha ragione) un "tono basso e colloquiale", forse mutuato dalla sua attività
principale di scrittrice per bambini, con il quale "verticalizza" come si diceva il suo slancio lirico, un linguaggio a volte piacevolmente assertivo, a
volte aforistico, facilmente parafrasabile, con cui sfiora delicatamente le "occasioni", in teoria infinite, questa e quella, qui e là (e a volte si ha
l'impressione che all'autrice interessi non il cosa, ma il come, cioè la forma poetica, la poesia come fatto necessario e come "urgenza del dire" - potrà
mai mancare questa locuzione nella motivazione di un premio?). Siamo sempre nell'ambito della poetica dello "sguardo corto", di un hortus conclusus privato
e borghese in cui la difficoltà dell'esistenza, con i suoi patemi d'animo, echeggia in lontananza. Come pure l'apolidia insita nella zone d'ombra della
vita, che avrebbe potuto essere uno spunto interessante. (g. cerrai)
Continua a leggere "" Venerdì, 12 febbraio 2016Giovanna Frene - Tecnica di sopravvivenza per l'Occidente che affondaGiovanna Frene - Tecnica di sopravvivenza per l'Occidente che affond ![]()
Forse la Storia non insegna nulla, come diceva Manzoni probabilmente
scopiazzando Hegel (il quale però, pur meditabondo alla vista di
Napoleone che sfilava sotto le sue finestre dopo la battaglia di Jena,
era sicuro che essa non finisse con lui, né quel giorno). Se non insegna
nulla, certo da un punto di vista letterario è una delle sedi
d'elezione del dramma e una metafora capitale, un "luogo" (ed è per
questo che parlo di metafora, poi vedremo) di sostituzione /
sovrapposizione non solo del passato con l'oggi, ma anche dei morti con
i vivi e dell'intrinseca unicità delle loro vicende, che sono
proiettate su di noi con i loro rischi, rinnovati e ineludibili, e i
loro dolori, destinati a ripetersi. E inoltre, un luogo "scenico", da
sempre in letteratura, su cui risaltano drammaticamente gli eterni
caratteri psichici e affettivi di uomini e donne, e vi si attualizzano.
Ed anche un pre-testo, nel senso primevo del termine, un canovaccio su
cui imbastire un articolato arazzo in cui la figura umana è dominante.
Inutile fare esempi tanto classici quanto arcinoti.
Questo ultimo libro di Giovanna Frene è uno dei muri portanti di un più
complesso edificio che va costruendo nel tempo e di cui la Storia,
collettiva, famigliare, individuale è elemento centrale e che porterà,
secondo i progetti dell'autrice, a una seguente opera, e forse
conclusiva di un ciclo, dal titolo Eredità ed estinzione. Come
avverte nella nota che chiude il volume, per Frene la Storia è "come
allegoria". Per quanto dichiari modestamente una sua "dubbiosa
presunzione di trovare nella Storia una perfetta allegoria della mia
storia personale", la Storia per l'autrice è esattamente questo: non uno
scenario su cui le vicende individuali si muovono come ombre cinesi
secondo i destini di ciascuno, ma una irruzione degli eventi nella
storia "minore" di persone la cui vicinanza parentale permette,
guardando al passato, una visione didascalica (e perciò appunto
allegorica, documentale, dimostrativa e tuttavia qui feconda
artisticamente) su un futuro di "dissoluzione" (*). E' anche - in altri
termini - una "scrittura", ovvero forse l'espressione più alta di
allegoria, una "riformulazione nella rappresentazione", scrive
l'autrice. Si pone quindi, rispetto a quanto dicevo all'inizio, un
interessante rovesciamento: la Storia non è per Frene un traslato, cioè
qualcosa che marca una distanza e insieme l'annulla, è una
"dissoluzione" a cui quella riformulazione non può dare argine. Certo,
"rimangono i documenti, la memoria", e l'interpretazione di essi, ma
"nulla di tutto questo tuttavia ridarà ciò che definiamo propriamente il
fatto, l’evento, il veniente, che si è (quasi) completamente dissolto.
Questa dissoluzione non la pone in atto la distanza storica, ma la
distanza storica è posta in atto da questa dissoluzione. Tuttavia, le
cose non esistono più, ma sono accadute per sempre".
Pare di capire, allora, che qui soggetto a critica (e oggetto d'arte) è
il tempo. o meglio una concezione di esso, proprio quella lineare e
progressiva che impedisce di imparare davvero qualcosa dalla Storia, se non la sua riproducibilità della
catastrofe, di quel cumulo di rovine a cui alludeva Benjamin, che si
rovescia sull'individuo. E in questo sì la Storia è allegoria (o
metafora, se preferite, ma non si tratta qui di fare distinzioni
accademiche) del destino individuale, di una inesorabile confutazione di
qualsiasi evoluzione messianica, men che mai se affidata alla
modernità. Il passato è l'altra faccia del presente, e mi pare chiaro
che nella visione di Frene c'è poca speranza: quel che è accaduto è
destinato ad accadere per sempre, sia nel senso della sua ripetizione,
sia in quello di un congelamento della Storia (la storia di ognuno
racchiude la Storia e in essa si dissolve come in un acido), una specie
di girone in cui la pena è la riproposizione in aeternum del
delitto, che pure è già avvenuto (compreso quello che deve ancora
avvenire). C'è in effetti qualcosa di dantesco in questo libro
importante, che deve i suoi punti di forza ad un'idea non rapsodica, a
un progetto vero (finalmente) ed a una scrittura di cui è consigliabile
non perdere nessuna parola perché necessaria, anche se apparentemente
"chiusa" ma non avara, e di ogni parola sarà chiesto conto a chi legge,
parafrasando Matteo. Un progetto che certo ha avuto bisogno di studio e
di ricerca amorevole, di un ricorso alle fonti (e perciò a quella
memoria mai completamente "dissolubile"). Perchè, insieme al tempo (il
Crono armato di falce sulle cui spalle nelle allegorie secentesche la
Storia scrive sé stessa), l'altro centro di gravità del libro, dalla
Storia mai separabile, è la guerra, nostra e degli altri, quella degli
individui, dei pidocchiosi, degli sconfitti, quelli di cui in molte
famiglie si conserva la foto o una medaglietta commemorativa di
Cavaliere di Vittorio Veneto, uno che semplicemente c'era stato, uno dei
ragazzi del '99 come mio nonno, uno morto sotto un bombardamento, uno
scampato fortunosamente ad un rastrellamento o ad un cecchino. Frammenti
di qualcosa che è avvenuto e mai avvenuto, dice Frene, all'interno di
quella sovrastruttura chiamata Storia "il luogo dove si esprime la
massima presenza del nulla che ci assedia", e che forse assedia (non può
che assediare) l'Occidente (noi) a cui allude il titolo. Se c'è
qualcosa che il poeta può fare (e il filosofo, secondo Arendt parlando
di Benjamin, cito ancora lui) è farsi "pescatore di perle", avere "il
dono di pensare poeticamente. Questo pensiero, nutrito dell’oggi, lavora
con i “frammenti di pensiero” che può strappare al passato e
raccogliere intorno a sé" (H. Arendt - Il futuro alle spalle - Bologna, Il Mulino Ed.). Non c'è altra speranza, o altra tecnica di sopravvivenza. (g.cerrai)
(*) Impossibile non andare con la mente a Walter Benjamin e all'acquerello di Paul Klee che per alcuni anni fu in suo possesso, quell' Angelus novus
anch'esso potente allegoria: "C’è un quadro di Klee che s’intitola
Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di
allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi
spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia
deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto.
Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue
ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo
spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle,
mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che
chiamiamo il progresso, è questa tempesta" - W.B. - Tesi di filosofia della storia (1940), in Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Torino, Giulio Einaudi editore (corsivi miei). Continua a leggere "Giovanna Frene - Tecnica di sopravvivenza per l'Occidente che affonda" Martedì, 3 novembre 2015Danilo Mandolini - A ritroso
Con i tempi che corrono, segnati anche in poesia da una fretta eccessiva con conseguente produzione di rachitiche plaquettes, dà una certa soddisfazione tenere tra le mani questo volume di circa 230 pagine, in cui Danilo Mandolini, noto ideatore di Arcipelago Itaca, raccoglie una selezione della sua produzione poetica tra il 1985 e il 2010, ma organizzata appunto, diciamolo subito, a ritroso, in un excursus à rebours a partire dalla produzione più recente fino a quella di esordio, più qualche inedito. Il tutto diviso in nove sezioni, comprendenti anche brani in prosa, e preceduto da una prefazione di Fabio Franzin. Per quanto sia perfettamente lineare e articolata su un vocabolario tutto sommato essenziale, la poesia di Mandolini reclama una buona dose di attenzione e di compartecipazione al testo da parte del lettore, per alcuni motivi, sostanzialmente legati tra loro: anche quando è più liricamente distesa, la scrittura di Danilo ha un notevole grado di astrattezza, intendendo con questo la capacità di portare il dettato verso cieli più alti, verso il simbolo e/o la metafora, verso l'interrogazione anche dolente, anche perplessa, sui caratteri universali dell'esistenza. Il lettore in questo senso è chiamato a leggere e ad interpretare non tanto e non solo l'intuizione poetica, la percezione, o magari il guache naturalistico (che qui peraltro non c'è), quanto e soprattutto il pensiero, il porsi anche psichico dell'autore nei confronti della vita. Una poesia perciò classica, nel senso di avulsa da quella contemporaneità parcellizzata che angustia tanti poeti di oggi, e da avvicinare semmai, come nota giustamente Franzin, a uno sguardo "leopardianamente legato alla riflessione"; vi è poi, a mio avviso, un certo decentramento del soggetto (con qualche eccezione nelle poesie più vecchie), nel senso di una collateralità dello sguardo e del suo essere centrifugo, ovvero proiettato spesso verso un metaforico orizzonte lontano che il pensiero tenta di attingere. Tuttavia il soggetto, che nel dibattito attuale - forse un po' artificioso - ha preso il posto dell'io, lirico o non lirico che fosse, il soggetto - dicevo - occupa costantemente la scena con una presenza totale, e lo fa non tanto come semplice presenza/proiezione dell'autore (ovvia) e nemmeno tanto come soggetto inconscio che non può smettere di pensare all'ineluttabile, quanto come soggetto meditante, ovvero padrone ed eroico interprete del senso, per quanto esso possa essere arduo da afferrare per l'uomo; c'è inoltre una scarsa presenza delle "cose" (a parte forse nelle giovanili), di quella materialità comune che molti lettori trovano confortevole, cose che possano riguardare l'ambiente circostante o i luoghi e gli oggetti del quotidiano. o la collocazione nel tempo o nelle stagioni. E se le "cose" ci sono hanno spesso la funzione delle architetture in un quadro di De Chirico o degli scarsi oggetti in uno di Hopper ("oggetti nascosti alla vista"), dato che non di rado svoltano subito in senso metaforico/simbolico ("Il letto del fiume in secca che si segue / alla caccia del profitto e delle tracce / di quelli di noi che sono già maceria"). Una caratteristica che fa da sponda a quanto detto prima riguardo all'astrattezza, precisando ancora che questo termine non va inteso in senso neutro, avendo non poco a che fare con la qualità indiscutibile delle poesie e dei brani del libro. La correlazione tra ispirazione (termine generico che andrebbe rovesciato) ed espressione procede quindi non per suggestioni o ammicchi ma quasi esclusivamente per mezzo del linguaggio, a cui Mandolini rivolge un rispetto particolare nell'economia di suoi testi; i quali, aggiungiamo anche questo elemento, hanno una prosodia organizzata per lo più in un discorso ipotattico (che in qualche caso copre l'intero testo), scandito spesso da classici endecasillabi battenti, ospiti fissi del libro, e che contribuisce ad esprimere il senso di un pensiero fluido e articolato (e a volte assertivo) che chiede attivamente al lettore di essere condiviso. Parlando di questo bel libro, a cui uno scritto come questo non rende certo piena giustizia, non voglio però dare l'impressione di volermi tenere alla distanza nel considerare la poesia di Mandolini anteponendo notazioni che potremmo dire tecniche. In realtà invece a me pare che serva cercare di rendersi conto, magari sbagliando, di certe meccaniche che azionano la sua scrittura e, in definitiva, la sua poetica. Insomma, perché tutto questo, allora? Se il modo (non tanto la forma) risponde al contenuto, come talvolta succede, in questo caso è perché sono le tematiche, rivolte a nodi fondamentalmente trascendentali e universali, a "scegliere" per così dire la sostanza del linguaggio. Mandolini parla in sintesi di vita e morte, di prospettiva nebulosa, di incertezza del futuro (sempre in termini esistenziali, non certo economicisti) ecc. La vita innanzitutto come componente essenziale della morte, come ragione e radice, di una morte nostra e altrui (compresa quella delle morti per guerra, come nella sezione "La linea del fronte"), precedente (come quella del padre nella bella sezione "Radici e rami") e successiva e futura, che è il tema principale della scrittura di Mandolini. Antagonisti che sono indivisibili perché intrinseci e complementari, insieme ad altre coppie che anche Franzin rileva, come quella tra luci ed ombre (un'oscurità assai significante) che baluginano in molte delle poesie presenti nel libro, o la naturale contrapposizione tra chi se ne è andato e il superstite, con l'amarezza vagamente colpevole di chi rimane a custodire qualcosa di altrettanto vago e come fermo nel tempo in un qui e ora sisifeo che tuttavia avrà fine, una specie di memoria volatile e non trasmissibile in eredità se non forse con la parola scritta. Che però non è e non vuole essere né sapienziale né pitica, rimandando fermamente ad un destino già segnato, ma certamente vuole essere aderente quanto più possibile all'ineffabile, se mi si passa l'ossimoro. Quello che il modus di Mandolini cerca, anche con il citato ricorso a stilemi tradizionali, è di dare un ordine (e una direzione, che non sia meramente lineare) al disordine di cui soffre la vita e la stessa memoria, riempiendo di parole gli interstizi del vuoto. E' forse questa la ragione della scelta di uno stile complessivo che, salvo poche variazioni e cambi di tonalità, si è mantenuto intatto per un venticinquennio, tanto che in realtà è impossibile, anche sulla base di una difficile analisi filologica, assegnare un prima e un dopo ai testi, a parte certamente quelli più giovanili, e questo contribuisce ad una radicata impressione di compattezza stilistica, di una voce che si esprime in sicurezza all'interno di un canone collaudato. Lasciandoci nella ragionevole previsione che dopo essersi guardato indietro, e dentro, Mandolini tornerà a guardare avanti. (g.c.) Continua a leggere "Danilo Mandolini - A ritroso"
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