Mercoledì, 5 agosto 2015
Un breve saggio di Czeslaw Milosz a proposito di Wislawa Szymborska, da titolo "Non l'avevo forse detto?", inedito in Italia, tradotto dal polacco da Giovanna Tomassucci, che ringrazio. Uno scritto che vuole iscriversi in uno sperabile più ampio dibattito sulla poetessa, uno sforzo di più profonda comprensione sui contenuti, le forme, la poetica, e non tanto sulla Szymborska come "fenomeno" o come moda innescata da un "effetto auditel", come è avvenuto qui in Italia nel febbraio del 2012, né tanto meno come inconsueta "base culturale" di manuali del cosiddetto "humanistic management". In questo senso di partecipato approfondimento si è mosso il Convegno che si è tenuto a Pisa nel febbraio del 2014, di cui ho dato notizia QUI, con molti importanti interventi. E nella stessa direzione vuole muoversi il volume che raccoglie gli atti del Convegno e che verrà pubblicato dalla Pisa University press, per la cura di Giovanna Tomassucci e Donatella Bremer. Il libro, che comprenderà anche un testo inedito di Pietro Marchesani sulle sue traduzioni di Szymborska e un ricordo di Marchesani e Vanni Scheiwiller di Laura Novati, si intitolera': "Szymborska: la gioia di leggere. Lettori, poeti e critici [dedicato alla memoria di Pietro Marchesani]" e sarà articolato in tre sezioni, con i relativi interventi: 1. Ricordi e progetti [con interventi dei polacchi Ewa Lipska, Michal Rusinek, presidente della Fondazione Szymborska nonché storico collaboratore della poetessa, Jaroslaw Mikolajewski, poeta, critico, italianista] 2. Poeti [Anna Maria Carpi, Mariagiorgia Ullbar, Paolo Febbraro] 3. Critici [Alfonso Berardinelli, Roberto Galaverni, Donatella Bremer, Andrea Ceccherelli, Giovanna Tomassucci]. ----------------
N.B. Ho aggiunto in calce all'articolo, ad usum lectorum, i testi integrali delle poesie citate da Milosz.
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Sabato, 31 maggio 2014
Una po esia inedita in Italia di Tadeusz Rózewicz, scomparso il 24 aprile scorso all'età di 92 anni, dedicata alla memoria di Czeslaw Milosz, nella traduzione dal polacco di Giovanna Tomassucci, che voglio qui ringraziare. Rózewicz era uno dei massimi esponenti della letteratura polacca del Novecento, autore di almeno due dozzine di raccolte di poesie, oltre ad opere di saggistica e di drammaturgia, e secondo le parole di Seamus Heaney "uno dei più grandi poeti europei del ventesimo secolo", tradotto in quasi cinquanta lingue diverse. Appartenente alla generazione poetica post-bellica, quella che ha dovuto affrontare la sfida di ritrovare le parole dopo l'immane tragedia che ha visto l'uccisione di sei milioni di polacchi (circa la metà dell'intera popolazione), Rózewicz forse più di altri ha contribuito a smentire la nota affermazione di Theodor Adorno secondo la quale "scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie" ("a casa un compito / mi attende: / creare poesia dopo Auschwitz", ribatte Rózewicz in alcuni suoi versi), attraverso un linguaggio rinnovato, diretto, condensato, poco metaforico che ha avuto una enorme influenza su tutta la produzione poetica polacca, Milosz compreso. Come ebbe a dire Wislawa Szymborska nel 1996, "non riesco neppure a immaginare che aspetto avrebbe avuto la poesia polacca postbellica senza i versi di Tadeusz Rózewicz. Tutti gli siamo debitori di qualcosa, anche se non tutti sono capaci di ammetterlo". Una classica elegia, questa in memoria di Milosz, a cui l'autore si rivolge direttamente, come ad un antico compagno e collega con cui scambiava "dispute amiche" che ora la morte ha interrotto, una elegia sul ricordo e il rimpianto, ma anche su un ideale e non lontano ricongiungimento, con l'amico, alla terra e nella terra, non come un Orfeo denudato e ancora una volta sopravvissuto a cui il canto ("che né più rammento cosa sia") non può offrire ritorno, ma come una pala che scava quella stessa terra, al culmine di una vita che "come una talpa ora io meno".
Elegia. Pamięci Cz. M
.
za pięć dwunasta!
pytam siebie
kiedy napiszesz Elegię
o winie i chlebie
chciałem wykręcić się rymem
i odpowiedzieć „w niebie”
ale ze wstydu zapadłem się
w ziemię
od tego czasu żywot pędzę kreta
i nie pamiętam
co to śpiew
wino i kobieta
te czarne kopczyki
na zielonej łące
to jedyne pamiątki
po pracy bez końca
to moje pomniki
tęskniące do słońca
a co z nami?
co z naszymi sporami
przyjacielskimi
Ty zmarłeś więc nie pytasz
co ze mną? pewnie odrzucę starą
formę szatę
i z Orfeusza zmienię się
w łopatę
|
Elegia. In memoria di Cz. M.
all'ultimo minuto!
mi chiedo
la scriverai tu mai un' Elegia
sul pane e il vino?
ah cavarmela con una rima
ribattere "In cielo e così sia!"
invece per vergogna
fin sotto terra piombo giù e rovino
come talpa ora io meno la vita
né più rammento
cosa sia il canto
il vino e anche la donna
le nere montagnole
sui prati verdi
miei monumenti
nostalgici di sole
sono i soli ricordi
di un’opera infinita
e di noi che sarà?
e le nostre dispute
amiche?
sei morto tu non puoi più domandare
che ne è di me … io certo getterò le antiche
forme vesti
e non Orfeo sarò
ma pala per scavare.
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traduzione dal polacco di Giovanna TomassucciBibliografia italiana (poesia):
Colloquio con il principe, antologia a cura di Carlo Verdiani, Mondadori 1964 Il guanto rosso e altre poesie a cura di Pietro Marchesani, Scheiwiller 2003 Bassorilievo, a cura di Barbara Adamska Verdiani e con una premessa di Edoardo Sanguineti, Scheiwiller 2004 Le parole sgomente. Poesie 1947-2004, a cura di S. De Fanti, postfazione di M. Kneip, Metauro Edizioni 2007
Lunedì, 26 novembre 2012
A corollario della presentazione a Firenze il 16 ottobre scorso di "Trattato poetico" di Czesław Miłosz (Ed. Adelphi), di cui ho dato notizia QUI,
segnalo la pubblicazione su "L'ospite ingrato", rivista on line del
Centro Studi Franco Fortini, del resoconto, corredato da alcuni testi
del poeta, degli interessanti interventi dei relatori Alfonso
Berardinelli, Giovanna Tomassucci e Valeria Rossella, traduttrice
dell'opera. Ringrazio Giovanna Tomassucci della segnalazione.
Alfonso Berardinelli: "È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico
di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento,
un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca
della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e
due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue
pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha
spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere,
e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non
solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore
dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus
Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì
esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic,
entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della
composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e
interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che
non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i
confini tematici e linguistici della poesia; (...)"
Giovanna Tomassucci: "Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico
dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile
condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile,
negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il
saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa),
atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di
lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse
diverso?) a essere una ‘regione nebulosa’ su cui si ‘danno poche notizie
e se mai errate’.
Dopo la sua richiesta di asilo politico del 1951, molti compagni di un
tempo lo avevano duramente bollato di tradimento. In patria il suo nome
sarebbe rimasto all’indice quasi fino al conferimento del Nobel (1980).
Per raggiungere i propri connazionali, a parte certe equilibristiche
apparizioni (La valle dell’Issa verrà immediatamente confiscata
dalle autorità ancor prima di uscire in libreria), potrà solo contare
sulle edizioni dell’emigrazione di Parigi e Londra e più tardi sulle
quelle samizdat’. (...)"
Valeria Rossella: "Quando noi leggiamo, dico nella nostra stessa
lingua, compiamo sempre un’opera di traduzione, leggere non è mai un
atto puro. La traduzione da un’altra lingua non è che l’aspetto
macroscopico di questa contaminazione, pensiamo soltanto a come esista
un unico originale, e tante traduzioni, in tempi e in lingue diverse.
La traduzione, e soprattutto quella poetica, è dunque un sosia, ma non una copia: un gemello, che vive di vita propria.
Quando si affronta un testo scritto in una lingua molto lontana dalla
propria, aumenta esponenzialmente la responsabilità del traduttore che
diviene, per il lettore, l’unica voce del poeta.
In questo caso si tratta di affrontare con la splendida, ma anche
ingombrante armatura della sintassi italiana, la duttile e sgusciante
sinuosità di una lingua slava.
Miłosz qui usa l’endecasillabo, tranne che in alcuni frammenti, io ho
pensato di adottare una misura elastica, che si sviluppa modulandosi dal
doppio settenario all’endecasillabo. (...)"
(potete leggere il resto del dibattito su "L'ospite ingrato" - LINK)
Mercoledì, 10 ottobre 2012
Pubblico in calce un componimento scelto da Trattato poetico di Czesław Miłosz (Adelphi, 2012 - Traduzione di Valeria Rossella) in occasione della presentazione che avverrà a Firenze presso la Fondazione Il Fiore, Via di San Vito 7, Martedì 16 ottobre 2012 alle ore 17.00. Gli interventi saranno di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca all'Università di Pisa). La locandina dell'evento, completa anche di indicazioni stradali, è reperibile QUI)
Tra l'inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czesław Miłosz
dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e
propria sfida letteraria: un grande poema che, eludendo le cornici di
genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando
citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed
enunciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del
Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un
affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti
scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la
vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie
digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra
mondiale e gli orrori dell'occupazione nazista, con la rivendicazione
di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare
l'ambiente degli Stati Uniti, in cui Miłosz, dopo aver contemplato
l'abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la
dimensione ideale per trovare serenità ed equilibrio, senza peraltro
sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni
cruciali del XX secolo. Il Trattato poetico ha la forza
espressiva di un grande romanzo storico, l'intonazione nostalgica di
un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte
di un'epoca, l'accento pacato di una meditazione sulla storia,
sull'arte, sulla coscienza individuale. E anche le Note dell'Autore
che chiudono il volume si rivelano una splendida creazione
letteraria: un mosaico di schizzi e ritratti in miniatura che, come per
magia, ricreano il mondo di una ormai lontana Europa. (dal risvolto di copertina)
(...)Dalla ‘piccola Cracovia, come un uomo dipinto’ a Varsavia, ‘città estranea su una piana sabbiosa’, i toni della poesia cambiano. Si fanno più malinconici e raccolti, ricchi di un peso che si fa man mano più grave: “eh
no, lettore, non abiti una rosa / questo paese ha suoi pianeti e fiumi /
ma è fragile come il lembo del mattino. / Lo ricreiamo noi giorno per
giorno / stimando più ciò che è reale / di ciò che è irrigidito in nome e
suono. / Al mondo lo strappiamo con la forza, / troppa facilità non lo
fa esistere. / Di’ addio a ciò che è scomparso. Ne giunge ancora l’eco. /
A noi tocca parlare in modo rozzo e aspro”. Si percepisce nei
versi il rimpianto di non poter più parlare della natura, del semplice
succedersi delle stagioni, per non tradire l’impegno politico richiesto
dalla propria terra.
Finché Miłosz non risolve il conflitto con un ultimo, nostalgico gesto. Scriverà nell’ode conclusiva: “molto,
molto ci sarà rimproverato. / Perché, pur potendo, rifiutammo la pace
del silenzio / […] Invece volevamo smuovere ogni giorno / la polvere dei
nomi e degli eventi / con le parole, poco badando al loro / e nostro
svanire, scintillando”. Non può far riposare lo sguardo sul paesaggio americano che lo circonda, anche se la tentazione di “costruirsi per sempre una casa nella Natura”
è forte; c’è un luogo a cui tornare sempre, e nel momento in cui gli
uomini reinventano continuamente i confini geografici, è la mappatura
emotiva a ridefinire l’idea e l’anima stessa di una patria. (da una nota di Chiara Condò - Fonte: Cabaretbisanzio.com)
Altre cose di e su Milosz QUI
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Domenica, 11 dicembre 2011
Archibald MacLeish - Ars poetica
Una poesia dovrebbe essere tangibile e laconica Come un rotondo frutto,
Muta Come antichi medaglioni sotto il pollice,
Silente come pietra consumata dalle maniche Di davanzali dove è cresciuto il muschio—
Dovrebbe essere senza parole, una poesia, Come un volo d'uccelli.
* Una poesia dovrebbe essere immota Nel tempo che la luna sale,
Lasciando, come la luna cala, Gli alberi impigliati, ramo a ramo, alla notte,
Lasciando, come la luna nascosta dietro foglie d'inverno, La mente ricordo per ricordo—
Una poesia dovrebbe essere immota Nel tempo che la luna sale.
* Una poesia dovrebbe essere uguale a: Non vero.
Per tutta la storia del dolore, essere Una foglia d'acero e una porta vuota.
Per l'amore, essere Le erbe reclinanti e due luci sul mare—
Una poesia dovrebbe non significare Ma essere.
Dorothea Lasky - Ars poetica
Volevo dire all'aiuto veterinario di quel video del gatto che Jason mi ha mandato Ma ho resistito per paura lo trovasse strano Sono davvero solitaria Ieri il mio ragazzo mi ha chiamato, di nuovo sbronzo E in mezzo a squillanti lacrime e un che di appiccicoso Mi ha urlato contro con una tale amarezza Come non avevo sentito prima da altri umani E mi ha detto che non ero brava Be' magari lui non voleva dire quello Ma è quello che ho sentito Quando mi ha detto che la mia vita non valeva niente E il mio lavoro della vita un lavoro da elite. Io dico che voglio salvare il mondo ma in realtà Voglio scrivere poesie tutto il giorno Voglio alzarmi, scrivere poesie, andare a dormire, Scrivere poesie durante il sonno Fare dei miei sogni poesie Fare del mio corpo una poesia con magnifiche vesti Voglio che la mia faccia sia un poema Ho appena imparato come mettere La matita agli angoli degli occhi per farmeli più grandi C'è sempre in me un romantico abbandono Voglio sentire il timore per gli altri E lo posso sentire attraverso il canto Solo attraverso il canto posso sommare in poche così tante parole Come quando lui dice che io non sono brava Io non sono brava La bontà non è più il punto Tenersi stretti alle cose Ecco questo è il punto
Czeslaw Milosz - Ars poetica?
Ho sempre aspirato a una forma più spaziosa che fosse libera dalle pretese di poesia e prosa e ci facesse capire l'un l'altro senza esporre autore e lettore a sublimi agonie.
Nella vera essenza della poesia c'è qualcosa di impudico: una cosa che non sapevamo di avere in noi viene data alla luce, così noi sbattiamo gli occhi, come se una tigre fosse balzata fuori e stesse lì alla luce, agitando la sua coda.
E' il perchè si dice a ragione che la poesia sia dettata da un daimonion, sebbene sia un'esagerazione sostenere che esso debba essere un angelo. E' difficile supporre da dove questa fierezza dei poeti provenga, quando così spesso sono messi in imbarazzo dalla rivelazione della loro fragilità.
Quale ragionevole uomo vorrebbe essere una città di demoni, che si comportano come se fossere a casa loro, parlano in diverse lingue, e che, non soddisfatti di rubargli labbra e mani, lavorano a cambiare il suo destino a loro comodo?
E' vero che ciò che è morboso oggi è tenuto in gran conto, e così voi potreste pensare che sto solo scherzando o che ho inventato ancora solo un mezzo di lodare l'Arte con l'aiuto dell'ironia.
C'era un tempo quando solo i libri sapienti erano letti, aiutandoci a sopportare i dolori e le miserie. Che, dopo tutto, non è proprio come sfogliare un migliaio di lavori freschi di clinica psichiatrica.
Eppure il mondo è diverso da come sembra essere e noi siamo altri da come ci vediamo nei nostri deliri. La gente dunque conserva una silenziosa integrità, guadagnando così il rispetto di parenti e di vicini.
Lo scopo della poesia è di ricordarci quanto difficile è rimanere solo una persona, perchè la nostra casa è aperta, non ci sono chiavi nelle porte, e ospiti invisibili vanno e vengono a piacer loro.
Quel che sto dicendo qui non è, sono d'accordo, poesia, ché si dovrebbe scrivere poesie di rado e con riluttanza, per insopportabile urgenza e solo con la speranza che i buoni spiriti e non solo i malvagi ci scelgano per loro strumento.Berkeley, 1968(traduzioni dall'inglese di G.Cerrai)
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